Trimestrale di cultura civile

Sussidiarietà, sviluppo sociale e potere pubblico

  • MAR 2023
  • Franco Gallo

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È indubbio che il paradigma bipolare pubblico-privato, antecedente l’entrata in vigore del Titolo V, sia stato messo in crisi. Le evidenze portano a rilevare come, dall’intervento del legislatore, sia divenuta centrale la figura del cittadino in quanto soggetto attivo. Ne deriva, a tutti gli effetti, che i cittadini attivi, intendendosi realtà collaborativa e partecipativa, si esprimono come corpi intermedi organizzati. Soggetti fondamentali chiamati a essere protagonisti nel far propria quella cultura sussidiaria che intende il perseguimento del bene comune nel superamento dello storico e frenante dilemma pubblico-privato. Ciò non sta significando l’azzeramento dei problemi. La forte burocratizzazione permane. Come certe criticità nell’iniziativa privata. Tuttavia, si sta procedendo nella direzione disegnata costituzionalmente; lo Stato, che è auspicabile si realizzi secondo un principio di “leggerezza”, allora “non è più solo la risultante dell’insieme dei diversi livelli di governo territoriali, ma l’insieme dei rapporti Stato-cittadini, singoli e associati. Solo il futuro, però, potrà dirci se questo disegno costituzionale sarà un giorno effettivamente realizzato”.

Il principio di sussidiarietà, in generale

Credo che siamo tutti d’accordo nel ritenere che sia sul principio di sussidiarietà che si fondi il pluralismo istituzionale e paritario introdotto nel 2001 con l’art. 114 della Costituzione. È tale articolo, infatti, che ha posto sullo stesso piano, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, le diverse componenti della Repubblica (comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato) e ha, di conseguenza, definitivamente scardinato l’assetto gerarchico piramidale caratteristico dello Stato ottocentesco. Ed è soprattutto su tale principio che si è costruita la disciplina – contenuta negli artt. 117 e 118 Cost. – del decentramento legislativo e amministrativo, e cioè del c.d. federalismo.

Va però sottolineato che, ciononostante, il principio di sussidiarietà è solo presupposto dagli artt. 114 e 117 ed enunciato dall’art. 118, ma non è definito da alcuna norma costituzionale.

L’art. 118 lo richiama in due diversi contesti: in un primo contesto, insieme ai principi di differenziazione e adeguatezza, quale regola istituzionale di distribuzione verticale di competenze tra enti pubblici territoriali; in un secondo contesto, quale principio orizzontale da applicare nella società civile con riferimento ai rapporti tra l’intero apparato pubblico e l’universo dei soggetti privati.

Una definizione, generalmente accettata, che compendia ambedue queste statuizioni è, comunque, quella ricavabile dal Trattato della Comunità Europea (rimasto immutato nel nuovo Trattato dell’Unione Europea) che considera la sussidiarietà un criterio in forza del quale “si attribuisce un tipo di azione privilegiando il livello di governo inferiore rispetto a quello superiore, a meno che l’intervento del livello di governo superiore non determini un risultato migliore”.

È questa una definizione storicamente collaudata, perché risponde alle tradizionali matrici ideologiche liberale e cattolica della sussidiarietà. Privilegiando il livello di governo inferiore, essa valorizza infatti la sussidiarietà sia quale strumento di minimizzazione dell’intervento statale nella società civile, che è uno dei capisaldi del pensiero liberale classico (il c.d. aspetto negativo della sussidiarietà), sia, e nello stesso tempo, quale strumento di autorealizzazione personale, e cioè come regola che impone alla struttura di governo superiore di prestare aiuto alle strutture inferiori incapaci di provvedere autonomamente agli interessi delle collettività governate (la c.d. sussidiarietà positiva del pensiero cattolico).

Il che segna la definitiva perdita del monopolio della potestà legislativa dello Stato (come, in effetti, è avvenuto con l’avvento del nuovo Titolo V) e, di conseguenza, induce a respingere politiche di governo a un solo livello, a premiare la gestione condivisa e a individuare “chi fa che cosa” alle migliori condizioni. Insomma, l’applicazione nel 2001 del principio di sussidiarietà ha messo in moto un circuito virtuoso nel quale si inseriscono sia lo Stato, le regioni e gli altri enti substatali, sia – ed è ciò che più ci interessa trattare oggi – gli stessi cittadini attivi, singoli e associati, che intendono cooperare per la soddisfazione dell’interesse generale.

L’obiettivo è – o meglio dovrebbe essere – tanto quello di riavvicinare alla società civile le organizzazioni territoriali, culturali, professionali, universitarie, scientifiche e scolastiche, quanto quello di ripensare le strutture della pubblica amministrazione secondo un criterio di prossimità al cittadino, passando da un modello burocratico e meccanico a un’organizzazione più flessibile e organica.

La sussidiarietà orizzontale, in particolare

1. La lettura del Rapporto sulla Sussidiarietà 2021-20221 mi induce a fare una prima generale considerazione, e cioè che la stessa congiuntura che ha portato in questi ultimi anni ad applicare il principio di sussidiarietà verticale, in senso ascendente, verso la ricentralizzazione della finanza pubblica, ha prodotto e sta producendo un effetto opposto, discendente, per quanto riguarda la sussidiarietà orizzontale. Sta accadendo, cioè, che la crisi economica e finanziaria, aggravata dalla pandemia, spinge verso un maggiore intervento dello Stato, ma nello stesso tempo rende sempre più frequenti e quasi necessitate le autonome iniziative dei privati cittadini dirette a integrare e a potenziare l’intervento pubblico sul piano sociale.

span class="evid-arancio">Sia ben chiaro, dalla lettura del Rapporto risulta che potenziare l’affidamento in gestione condivisa di beni e servizi a privati organizzati e socialmente qualificati non deve interpretarsi come una spinta verso la privatizzazione di servizi collettivi, né deve comportare che i pubblici poteri siano per ciò stesso relegati a un ruolo di retroguardia rispetto alle attività svolte dal privato.

Dai diversi contributi raccolti nel Rapporto si deduce che la sussidiarietà si deve risolvere non in un arretramento del potere pubblico, ma in una diversa modalità di intervento da parte di esso; una modalità che promuove e sostiene l’autonoma capacità di azione dei singoli e di ogni formazione sociale, fermo restando, comunque, l’incardinamento sullo Stato e sugli enti pubblici territoriali tanto dell’attività di regolazione sociale e di mediazione sul piano legislativo, quanto di quella di controllo e di vigilanza.

Ci si deve rendere conto, insomma, che, ammettendo la possibilità che i cittadini e tutti i soggetti privati interessati al bene comune collaborino più attivamente con gli enti territoriali pubblici, il legislatore costituzionale ha messo definitivamente in crisi il paradigma bipolare pubblico-privato antecedente all’entrata in vigore del Titolo V, secondo cui spetterebbe, invece, all’amministrazione pubblica farsi carico solo dei beni pubblici e ai privati solo dei beni privati. Con gli artt. 114 e 118 i cittadini sono diventati, infatti, non dei soggetti che richiedono alle istituzioni le risorse finanziarie per soddisfare le loro esigenze, ma dei corpi intermedi organizzati che partecipano, operano con efficienza, si assumono responsabilità, prestano la loro capacità organizzativa e il loro lavoro, in nome dell’interesse generale e della solidarietà.

Si può dire, insomma, che, fissando il principio di sussidiarietà orizzontale, il costituente ha perseguito l’obiettivo di garantire, attraverso la gestione solidale ed economica del bene comune da parte dei soggetti privati, quelle condizioni di benessere e di sviluppo della persona che lo Stato o l’ente locale da soli non sono in grado di assicurare pienamente.

In quest’ottica, sussidiarietà non è perciò solo libertà di scelta fra servizi offerti da terzi privati affidatari sia for profit che non profit, non è solo la riduzione delle burocrazie pubbliche, spesso frutto di inefficienza e di clientelismo. È anche garanzia per gli stessi cittadini interessati, sia di una libertà di organizzazione e di gestione solidale, attiva e responsabile, sia di una libertà diretta a soddisfare le esigenze della loro vita, non tanto perché essi sono utenti, quanto perché sono cittadini attivi, in relazione tra loro e, perciò, ispirati al principio di solidarietà.

2. Se ci si guarda intorno, ci si rende però facilmente conto che resta ancora molto da fare se si vuole valorizzare il principio di sussidiarietà in tutta la sua potenzialità riformatrice.

Nell’attuale contingenza, sarebbe già sufficiente se si riuscisse quanto meno a finalizzare la gestione privata dei “beni comuni” alla riduzione dell’eccesso di burocrazia e della mala organizzazione pubblica, che sono tutti fattori negativi che hanno concorso a collocare il nostro Paese negli ultimi posti nelle graduatorie internazionali sulla libertà economica.

Non nego che i tentativi di cambiare finora fatti e che gli obiettivi perseguiti dopo la crisi pandemica con il PNRR stiano andando nella direzione giusta. Deve, però, riconoscersi che il sistema pubblico non è stato ancora capace di fare quel salto di qualità verso la de-burocratizzazione che i tempi, le imprese e i cittadini richiedono nell’ottica della sostenibilità e del concetto di capability definito da Amartya Sen.

Si sono tagliate le leggi, si è delegificato e semplificato, si sono anche avviate buone pratiche, ma spesso, troppo spesso, i processi e i metodi adottati non sono stati risolutivi; tanto è vero che ancora – direi, quasi perennemente – si discute di riforma della pubblica amministrazione, si indicano gli interventi necessari e si spera in un diverso futuro.

L’obiettivo da raggiungere è, nella sostanza, sempre lo stesso: un’amministrazione più leggera, capace di far fare, più che fare direttamente. Un’amministrazione in grado di interagire col contesto sociale ed economico senza espandersi in personale e strutture, senza richiedere quegli alti costi che costringono la cittadinanza a sostenere una forte pressione fiscale. Bisogna evitare, ad esempio, quanto è accaduto a molti italiani, i quali hanno dovuto attendere più di un anno per ottenere una concessione edilizia, per poi venire a scoprire che nel nostro Paese già esistono un milione di “case fantasma”, fatte emergere dalla mappatura aerea effettuata dall’Agenzia del Territorio, confrontando i risultati di essa con i dati catastali.

Ciò è purtroppo frutto della solita prassi: da una parte, pesanti controlli ex ante realizzati attraverso un gran numero di regole e procedure; dall’altra, controlli successivi quasi nulli, al punto che le case abusive hanno raggiunto le ben note dimensioni. Speriamo che l’attuazione del PNRR concorra in qualche modo a ridurre questi svantaggi e questi inconvenienti.

Dall’individualismo alla solidarietà

L’auspicio che viene spontaneo fare è, comunque, che ciò che nella complessità della società contemporanea lo Stato o il mercato non possono fare separatamente per la limitatezza dei mezzi, lo facciano i cittadini attivi consorziandosi, organizzandosi, associandosi, riunendosi in cooperativa, erigendo fondazioni, integrando l’intervento pubblico. E si capisce quanto ciò sarebbe utile – anzi, necessario – per attuare politiche di riduzione della spesa pubblica e, nello stesso tempo, rilanciare progetti di formazione e di ricerca.

La gestione in forma privata dei beni comuni, condotta con uno stretto controllo di economicità e con la partecipazione delle amministrazioni statali e periferiche, costituirebbe, del resto, un ottimo antidoto sia contro i difetti dell’impresa pubblica molto (troppo) legati ai cicli elettorali, sia contro i timori che le società private affidatarie privilegino il tornaconto personale, sia contro il rischio di contrasti tra l’interesse dei cittadini ad avere tariffe congrue o servizi di qualità elevati, da una parte, e l’interesse delle imprese che hanno invece la principale preoccupazione di massimizzare il profitto, dall’altra.

È evidente che, però, la sussidiarietà orizzontale così intesa, per essere realizzata, dovrebbe comportare un profondo cambiamento culturale che, seguendo la stessa via dei movimenti di volontariato, segni il passaggio dall’individualismo economico e proprietario alla solidarietà e all’individuo sociale. Con l’importante avvertenza che essa, così come l’abbiamo fin qui interpretata, inerisce pur sempre al settore pubblico. Non delimita, cioè, il campo privato rispetto a quello pubblico nella logica del mercato, ma indica la dinamica di un processo “interiore”. Ciò significa, in via conclusiva, che la sussidiarietà non ci pone dinanzi al dilemma pubblico-privato e non ha il significato di individuare un criterio di efficienza utile a identificare le funzioni da sottrarre alla sfera pubblica. Rimane, al contrario, sempre dentro la sfera pubblica e mette semmai sul tappeto un’altra questione, e cioè pubblico “come”.

In questo senso, la sussidiarietà fonda una diversa forma di Stato a venire, che non è più solo la risultante dell’insieme dei diversi livelli di governo territoriali, ma l’insieme dei rapporti Stato-cittadini, singoli e associati. Solo il futuro, però, potrà dirci se questo disegno costituzionale sarà un giorno effettivamente realizzato.

Franco Gallo è presidente emerito della Corte Costituzionale e presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani

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