Trimestrale di cultura civile

Sussidiarietà circolare e welfare di comunità

  • MAR 2023
  • Stefano Zamagni

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Oggi la sussidiarietà incontra ancora non poche difficoltà nella possibilità di attuazione pratica. Si scontra con resistenze culturali e perdurante confusione di pensiero. Tali fratture non impediscono però l’affacciarsi di un modello di sussidiarietà che insiste sul significato ultimo che attiene alla sussidiarietà circolare. Essa prevede il passaggio dal modello bipolare di ordine sociale fondato su Stato e mercato a quello tripolare che, accanto al pubblico e al privato pone, con pari dignità, il civile. Là dove il fruitore-cittadino è un soggetto che può esprimere il suo punto di vista circa il servizio e coopera per l’individuazione delle soluzioni migliori. In ciò è il nucleo della sussidiarietà circolare. Che apre a relazioni nuove fra Stato, mercato e comunità. “Nel modello di welfare di comunità l’interazione fra i diversi stakeholder interviene in tutte e quattro le fasi del ciclo di produzione dei servizi di welfare: programmazione, progettazione, erogazione e valutazione. E, come si può intuire, non tutti riescono ad accettare le implicazioni concrete di tale modo di procedere”. E un primo guadagno tangibile e certo “del welfare di comunità è quello di favorire il reperimento delle risorse necessarie al suo funzionamento dal momento che il soggetto portatore di bisogni è anche un portatore di risorse – monetarie e non”.

1. L’universale riconoscimento del valore e della importanza della sussidiarietà si scontra oggi con una preoccupante caduta delle sue possibilità di attuazione pratica. Sono dell’idea che ciò dipenda, oltre che dal ben noto ritardo della cultura italiana su tale fronte, da una perdurante confusione di pensiero tra le tre versioni del principio in questione: quella verticale, che chiama in causa la regola di distribuzione della sovranità tra i diversi livelli di governo (in buona sostanza, si tratta del decentramento politico-amministrativo); quella orizzontale che, invece, ha a che vedere con la regola di attribuzione di compiti operativi a soggetti diversi da quelli della pubblica amministrazione così da realizzare una cessione di sovranità; quella circolare su cui mi soffermerò tra breve e che costituisce una forma, ancora inedita nel nostro Paese, di condivisione di sovranità. Se la sussidiarietà in senso verticale dice del rifiuto del centralismo e del dirigismo e parla dunque a favore del decentramento amministrativo, la sussidiarietà in senso orizzontale attiene piuttosto al criterio con cui si ripartisce la titolarità delle funzioni pubbliche tra enti pubblici e corpi intermedi della società civile, suggerendo in tal modo che la sfera del pubblico non coincide, pari pari, con la sfera dello Stato e degli altri enti pubblici.

Che dire della versione circolare della sussidiarietà? Si tratta di un principio la cui prima elaborazione risale alla fine del XIII secolo e che deve molto al pensiero di Bonaventura da Bagnoregio e di altri importanti autori della Scuola francescana. Giova ricordare che l’idea di sussidiarietà compare già nella Politica di Aristotele, in riferimento al ruolo dei vari attori sociali e ai rapporti di questi con il potere politico. Come noto, si è soliti attribuire il merito della “scoperta” della sussidiarietà al celebre giurista Ugo Grozio (1583-1645) e al filosofo Johannes Althusius (1557-1663) che nel 1615 coniarono il termine. Ciò è bensì vero, ma il concetto e soprattutto la pratica della sussidiarietà risalgono a oltre tre secoli prima, quando in terra di Toscana e di Umbria sorgono le famose confraternite (si pensi alle Misericordie, tuttora in attività) e le corporazioni di arti e mestieri. È tuttavia alla Dottrina Sociale della Chiesa che si deve la rielaborazione del principio in termini di regola applicata alle relazioni tra Stato, persona e comunità1.

Al solo scopo di fissare l’idea, si pensi a un triangolo, ai cui vertici si collocano l’ente pubblico, la comunità degli affari, cioè il vasto mondo delle imprese, e il variegato mondo degli enti di Terzo settore, espressione della società civile organizzata. I tre soggetti devono interagire tra loro in modo sistematico, non sporadico, sulla base di predefiniti protocolli operativi, per decidere sia le priorità degli interventi da realizzare, sia le modalità di esecuzione degli stessi. In altro modo, è questa una specifica forma di governance basata sulla co-programmazione e sulla co-progettazione degli interventi, il cui fine ultimo è la rigenerazione della comunità.

A ben considerare, si tratta di un modo di impegno politico complementare (non alternativo) a quello tradizionale basato sui partiti – un modo che consente alle persone, la cui voce mai verrebbe altrimenti udita, di contribuire ad allargare lo spazio dell’inclusione sia sociale che economica. Quella dell’organizzazione della comunità (“community organizing”) è una strategia né meramente rivendicativa né tesa a creare movimenti di protesta. Piuttosto, è una strategia la cui mira è quella di articolare in modo nuovo le relazioni tra Stato, mercato, comunità.

In buona sostanza, si tratta di applicare, per un verso, il principio di non ingerenza (Stato e altre autorità non devono impedire ai corpi intermedi della società di agire liberamente in vista del bene comune) e, per l’altro verso, il dovere in capo allo Stato di favorire e sostenere, con strumenti e risorse adeguate, le iniziative degli enti di Terzo settore.

È in ciò il senso ultimo della sussidiarietà circolare: consentire di passare dal modello bipolare di ordine sociale basato su Stato e mercato a quello tripolare che accanto al pubblico e al privato pone, con pari dignità, il civile. La sentenza 131 del 26 giugno 2020 della Corte Costituzionale ha, per così dire, “costituzionalizzato” tale principio, chiarendo che l’interpretazione degli articoli 118 e 111 introdotti nella Carta nel 2001 (come noto, la Carta del 1948 neppure menzionava il termine sussidiarietà!) va intesa come comprensiva delle tre versioni del principio e non solamente delle versioni verticale e orizzontale, come purtroppo si continua a sostenere.

Giova sottolineare che – mentre le pratiche di sussidiarietà verticale e orizzontale hanno natura additiva e ciò nel senso che si aggiungono alle pratiche già in esistenza attuate da Stato e mercato, subendone pertanto un doppio isomorfismo – le pratiche di sussidiarietà circolare hanno natura emergentista: l’entrata in campo del pilastro della Comunità va a modificare, col tempo, anche i rapporti preesistenti tra Stato e mercato, oltre che al loro stesso interno. La grande virtù nascosta della reciprocità – che è un dare senza perdere e un prendere senza togliere – è la sua capacità di mutare sia la logica del comando, dell’obbligazione (Stato) sia la logica dello scambio di equivalenti (mercato).

Il concetto di co-produzione

2. Un modo spedito di saggiare la robustezza sul piano delle policies del principio di sussidiarietà è quello di metterlo alla prova su un banco specifico: quello del nuovo modello di welfare verso il quale, con grande stento, si cerca di avanzare – un modello che ha nel concetto di co-produzione il suo pilastro portante. Se si analizza l’evoluzione delle politiche di fornitura dei servizi di welfare (assistenza, sanità, educazione, previdenza) è possibile individuare, dal dopoguerra a oggi, tre distinte fasi.

La prima ha avuto inizio a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso ed è nota in letteratura come “Old Public Administration”. L’obiettivo era quello di aumentare i livelli di efficienza delle organizzazioni pubbliche (dando maggiore autonomia ai dirigenti, responsabilizzandone il comportamento). Questo modello si basa su tre pilastri: regole, controllo e, soprattutto, gerarchia. La burocrazia è l’elemento chiave che tiene assieme i tre pilastri e quella verticale è l’unica versione della sussidiarietà che è ammessa. In questo modello prevale la concezione del fruitore dei servizi come utente, ovvero come un soggetto che, secondo la ben nota distinzione di Albert Hirschman, può esercitare esclusivamente l’opzione “voice” (letteralmente “protesta”). In altri termini, l’utente che ha accesso ai servizi ma non è soddisfatto può solo protestare, manifestando in un modo o nell’altro il proprio dissenso. Oggi, la concezione del fruitore-utente è respinta perché non più all’altezza delle nuove sfide.

La seconda fase inizia negli anni Settanta ed è nota come “New Public Management”. L’idea che ne è alla base è quella di inserire all’interno delle organizzazioni pubbliche elementi di mercato, nella forma dei quasi-mercati, ovvero mercati in cui la proprietà rimane pubblica ma la gestione è di tipo privatistico. Questa seconda fase ha dato importanti risultati sul fronte del recupero dei livelli di produttività e di efficienza (privatizzazioni, sistema del contracting out e devoluzioni sono stati gli strumenti più utilizzati in esplicita applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale). Tale modello, inoltre, postula l’idea di un fruitore di servizi percepito non più come utente ma come cliente. Il cliente, a differenza dell’utente, può esercitare l’opzione “exit” (letteralmente “uscita”): il cliente, se non è soddisfatto, smette di usufruire del servizio e si rivolge ad altri fornitori.

Infine, con l’inizio del nuovo secolo, si apre una terza fase della co-produzione (anche se per l’Italia bisogna aspettare gli anni 2005-2006 prima che se ne inizi a parlare). Si tratta del terzo modello noto come “New Governance Model”. L’idea alla base di tale modello è quella di considerare il fruitore come un portatore di bisogni che non può essere spogliato degli attributi di cittadino. Il fruitore-cittadino è un soggetto che può esprimere il suo punto di vista circa il servizio e coopera per l’individuazione delle soluzioni migliori. Come sopra si è scritto, è in ciò il nucleo duro della sussidiarietà circolare. Va sottolineato che, mentre il passaggio dal primo al secondo modello non è stato quasi avvertito, ed è avvenuto in modo piuttosto indolore, il passaggio alla terza fase della co-produzione va incontrando diverse sacche di resistenza. Parecchie sono le ragioni che si possono suggerire. Certamente, una di queste è il ritardo culturale dovuto alla persistenza presso gli operatori sociali di antiche e ormai obsolete mappe cognitive. Un’altra ragione è di tipo ideologico. Il fatto è che nel modello di welfare di comunità, l’interazione fra i diversi stakeholder interviene in tutte e quattro le fasi del ciclo di produzione dei servizi di welfare: programmazione, progettazione, erogazione e valutazione. E, come si può intuire, non tutti riescono ad accettare le implicazioni concrete di tale modo di procedere.

Ad ogni modo, è la crisi sistemica del Welfare State a dare ragione dell’interesse crescente che da qualche tempo viene rivolto al welfare di comunità. In quest’ultimo, è l’intera società, e non solo lo Stato, che deve farsi carico del benessere di coloro che la abitano. Se è la società nel suo complesso che deve prendersi cura di tutti coloro che in essa vivono, senza esclusioni di sorta, è evidente che occorre mettere in relazione i tre vertici del triangolo di cui si è sopra detto: la sfera degli enti pubblici (Stato, regioni, comuni, enti parastatali ecc.), la sfera delle imprese, ovvero la business community, e la sfera della società civile organizzata (associazioni di vario genere, cooperative sociali, organizzazioni non governative, fondazioni).

Un primo guadagno certo del welfare di comunità è quello di favorire il reperimento delle risorse necessarie al suo funzionamento dal momento che il soggetto portatore di bisogni è anche un portatore di risorse – monetarie e non. Quando si dice “mancano le risorse” ci si riferisce a quelle pubbliche, non certo a quelle private. D’altro canto, l’alternativa al welfare di comunità sarebbe solo una: l’avvicinamento al modello del “welfare capitalism”, un modello inaugurato negli USA nel 1919 che affida alla sensibilità sociale delle imprese, in modo affatto discrezionale, il soddisfacimento dei bisogni dei loro dipendenti e collaboratori. Ecco perché è urgente porre in atto un welfare nel quale imprese, enti pubblici e cittadini con le loro organizzazioni concorrano, in proporzione alle rispettive capacità, a definire protocolli di partenariato per la programmazione e gestione degli interventi.

Il tranello del welfare capitalism

Le ragioni finora addotte nel nostro Paese per ostacolare la realizzazione del welfare di comunità sono quelle ormai familiari: insufficienza di risorse monetarie; inadeguata capacità dell’apparato burocratico-amministrativo di far fronte a nuovi compiti; eccessiva eterogeneità dei punti di partenza tra le diverse regioni italiane ecc.

C’è certamente del vero in tutto ciò, ma questo non basta a spiegare il fin de non recevoir nei confronti dell’accettazione della sussidiarietà circolare. La ragione vera, piuttosto, è la difficoltà, di natura basicamente culturale, di far comprendere ai cittadini che l’abbandono del modello neo-statalista di welfare (nel quale lo Stato conserva il monopolio della committenza), non significa affatto cadere nelle braccia del modello neoliberista di welfare (il “welfare capitalism”). E destatizzare non implica necessariamente privatizzare, perché resta sempre aperta la via della socializzazione. In altro modo, il motto è: depubblicizzare socializzando e non privatizzando. questa la cifra del welfare di comunità.

Quale elemento dell’infrastrutturazione concettuale in economia deve cambiare perché la via della soluzione sussidiaria al problema del welfare possa risultare pervia? L’abbandono di quel pessimismo antropologico che risale a Guicciardini e Machiavelli, passa per Hobbes e Mandeville e giunge fino alla moderna sistemazione del mainstream economico. Si tratta dell’assunto secondo cui gli esseri umani sono individui troppo opportunisti e autointeressati per pensare che essi possano prendere in qualche considerazione, nel loro agire, categorie come i sentimenti morali, la reciprocità, il bene comune e altre ancora.

Essere in comune

È su tale cinismo antropologico – fondato, si badi, su un assunto e non già su riscontri oggettivi – che si è andato costruendo quell’imponente edificio dell’homo oeconomicus che è tuttora il paradigma dominante in economia. È chiaro, o così dovrebbe risultare a una attenta riflessione, che entro l’orizzonte dell’homo oeconomicus non ci può essere spazio per il recupero della sussidiarietà circolare. Infatti, per questa prospettiva di discorso, quello umano è un essere unidimensionale, in grado di muoversi per raggiungere un solo scopo. Le altre dimensioni, da quella politica a quella sociale, emozionale, religiosa devono essere tenute rigorosamente in disparte o, tuttalpiù, possono contribuire a comporre il sistema di vincoli sotto i quali va massimizzata la funzione obiettivo degli agenti. La categoria del “comune” conosce due dimensioni: l’essere-in-comune e il ciò che si ha-in-comune. Ebbene, non v’è chi non veda come per risolvere il problema di ciò che si ha-in-comune occorre che i soggetti coinvolti riconoscano il loro essere-in-comune. Se dunque l’obiettivo cui tendere è lo sviluppo umano integrale, la sussidiarietà circolare è la precondizione irrinunciabile.

 

NOTE

 

1. Cfr. il n. 7 di Quadragesimo Anno, 15 maggio 1931, di Pio XI.

 

Stefano Zamagni è un economista e accademico italiano, dal 2019 presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. I suoi interessi sono molteplici e comprendono: economia del benessere, teoria del comportamento dei consumatori, teoria della scelta sociale, epistemologia economica, etica, storia del pensiero economico ed economia civile.

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