Trimestrale di cultura civile

Per una riforma generale del sistema educativo e formativo

  • AGO 2022
  • Mauro Ceruti
  • Carlo Dignola

Condividi

“La crisi dell’università non può essere affrontata con piccoli ritocchi. È una crisi strutturale, che dipende dai grandi cambiamenti sociali indotti dalla globalizzazione e dal rapido sviluppo delle tecnologie dell’informazione. […] Accelerazione, globalizzazione e imprevedibilità definiscono oggi una nuova condizione umana. Qualsiasi riflessione e qualsiasi intervento sull’università non possono non tener conto delle straordinarie trasformazioni che hanno coinvolto l’esistenza umana su tutto il pianeta. […] L’obiettivo dell’università non può essere quello di trasmettere singole competenze e singole tecniche; piuttosto, quello di formare saldamente le persone sul piano culturale”. Così Mauro Ceruti, tra i massimi esperti dell’elaborazione di un pensiero della complessità, che spiega: “La sfida antropologica urgente è formare persone e cittadini in grado di vivere la condizione umana planetaria e promuovere una intelligenza della complessità”. E aggiunge: “L’università deve fornire le chiavi per ‘apprendere ad apprendere’”.

In un periodo di crisi come quello attuale, non c’è il rischio che gli studenti preferiscano una formazione che conduca rapidamente al lavoro, piuttosto che un lungo impegno universitario?

Nelle società avanzate il valore e l’importanza della conoscenza si accompagnano inevitabilmente alla crescita dei costi della formazione. Quest’ultima rischia così di apparire troppo dispendiosa in tempi di crisi, soprattutto a motivo del fatto che gli investimenti in cultura sono destinati a ripagare in tempi lunghi. Di fronte a questa situazione, si è profilata nel nostro Paese la tentazione di una “scorciatoia”: puntare sulle idee di eccellenza e di meritocrazia. Sappiamo che gli investimenti riservati alla formazione in Italia sono del tutto inadeguati. La “scorciatoia” è pensare che l’eccellenza dovrebbe essere di pochi, e concentrarsi in luoghi limitati, ai quali spetterebbe la funzione di punta nella ricerca, nell’innovazione, nella creatività. Al resto della società, e degli stessi sistemi di formazione, spetterebbe il semplice compito di generare e trasmettere un sapere consolidato dalla tradizione, puramente tecnico, non generativo di idee ma di applicazioni. Anche quando questa “meritocrazia” non assume toni aristocratici, se si persevera nel concentrare finanziamenti verso poche istituzioni e poche persone, si istituisce di fatto una separazione fra chi può e chi non può studiare, fra chi ha la tranquillità per sperimentare e chi è condannato alla precarietà permanente. La via d’uscita dalla situazione stagnante in cui ci troviamo non può essere quella di dividere i pochi “salvati” e i molti “sommersi”: il rischio reale è che ciò risulti fatale per il sistema formativo stesso e produca così, da un lato, l’esodo in massa dei giovani, dall’altro, conformismo e standardizzazione degli stessi contesti di eccellenza. Dobbiamo impegnarci a invertire completamente l’attuale prospettiva adottata dalle istituzioni pubbliche, quella di un sostanziale, progressivo e irreversibile disimpegno dello Stato dalle sue storiche responsabilità di finanziatore del sistema universitario nazionale. Stiamo andando pericolosamente nella direzione contraria rispetto a quella degli altri Paesi d’Europa. Certo, la crisi economica è di una gravità eccezionale, ma proprio per questo molti Paesi europei tagliano in altri settori, ma non nella formazione e ricerca. Al contrario, hanno investito in modo significativo non “nonostante” la crisi, ma proprio “a causa” della crisi: nella società della conoscenza, uscire dalla crisi senza un forte investimento sull’istruzione, semplicemente non è possibile.

C’è bisogno di una riforma dell’università?

È indispensabile. È cambiato il mondo rispetto a quando, due secoli or sono, Wilhelm von Humboldt e Napoleone disegnarono l’università delle discipline, fondata sull’alleanza fra i nascenti Stati nazionali e le esigenze della produzione industriale. Il ruolo dell’università e la funzione sociale cui deve corrispondere, soprattutto negli ultimi vent’anni, hanno subito bruschi rivolgimenti: da strumento di formazione della futura classe dirigente, l’università si è trovata a far fronte alla domanda di formazione della maggioranza degli studenti diplomati. È evidente che, se ciò significa da un lato democratizzazione della cultura, dall’altro comporta anche una moltiplicazione e una profonda diversificazione delle richieste di formazione, senza che ciò abbia comportato mutamenti strutturali adeguati nell’organizzazione accademica. Occorre pertanto ripensare il sistema. Un proliferare di discorsi e di preoccupazioni investe da molto tempo il mondo dell’università, ma il dibattito si concentra il più delle volte su questioni inessenziali, proponendo indicazioni e cambiamenti che non incidono profondamente. Va messa in agenda una riforma generale del sistema educativo e formativo.

Cosa non va?

La crisi dell’università non può essere affrontata con piccoli ritocchi. È una crisi strutturale, che dipende dai grandi cambiamenti sociali indotti dalla globalizzazione e dal rapido sviluppo delle tecnologie dell’informazione. Le università sono giunte a un bivio. Sapranno elaborare risposte significative agli straordinari mutamenti in corso nel nostro tempo? Soprattutto: ci aiuteranno a governarli?

Cosa è cambiato nella cultura degli ultimi decenni, tanto da rendere necessaria una svolta?

Lo spazio di ogni esperienza individuale oggi ha come sfondo gli orizzonti dell’intero pianeta; una piccola causa locale può produrre effetti globali enormi e imprevedibili. Accelerazione, globalizzazione e imprevedibilità definiscono oggi una nuova condizione umana. Qualsiasi riflessione e qualsiasi intervento sull’università non possono non tener conto delle straordinarie trasformazioni che hanno coinvolto l’esistenza umana su tutto il pianeta. Globalizzazione e nuove tecnologie producono effetti dirompenti anche sul significato e sulla natura dei processi educativi.

Siamo sempre più interdipendenti.

E sempre più diversificati. La multiculturalità è nei fatti. Cresce la varietà delle conoscenze, delle esperienze e delle aspettative individuali. Si moltiplicano le microculture e le appartenenze a gruppi ristretti. Si producono sempre più approcci specialistici e suddivisioni disciplinari, e nel contempo si delinea una crescente interdipendenza fra questi stessi campi. Gli sviluppi di un particolare sapere sono spesso influenzati da sviluppi di saperi tradizionalmente lontani. Soprattutto, ineludibile è diventata la complessità, cioè la molteplicità di dimensioni propria dei grandi oggetti di conoscenza dei saperi stessi (quali ad esempio l’uomo, la mente, il corpo, la società, l’ambiente, la storia, il cambiamento, la Terra, la vita, l’universo...) e dei nuovi problemi planetari (ecologici, economici, tecnologici, energetici, sociali, culturali, politici). Questi problemi richiedono necessariamente la cooperazione di molti approcci e di molti punti di vista.

Le vecchie divisioni dell’università, i “dipartimenti” non funzionano più.

I confini fra le discipline non sono più concepibili come rigide barriere: sono invece aree di interazione, spazi intermedi in cui nascono i problemi più interessanti, gli approcci più originali. E anche le relazioni fra università e mondo del lavoro stanno rapidamente cambiando. Nell’esercizio di ogni professione diventa sempre più frequente la necessità di riorganizzare e reinventare le proprie competenze, che diventano obsolete nel volgere di pochissimi anni. Per questo l’obiettivo dell’università non può essere quello di trasmettere singole competenze e singole tecniche ma, piuttosto, quello di formare saldamente le persone sul piano culturale, per dar loro la possibilità di affrontare la mutevolezza degli scenari professionali, sociali e civili.

Il momento non è favorevole.

La crisi attuale, rivelando la complessità di un mondo in cui tutto è appunto connesso, può creare anche condizioni favorevoli per immaginare in modo audace e innovativo un’educazione all’altezza di questa complessità. Nella misura in cui esiste incertezza, esiste anche possibilità di cambiamento, di trasformazione, di sperimentazione, anche per l’insegnamento. La sfida antropologica urgente è formare persone e cittadini in grado di vivere la condizione umana planetaria e di promuovere una intelligenza della complessità. Nella didattica occorre praticare con coraggio sconfinamenti, ibridazioni tra le discipline. È tempo di aprire le porte e coltivare spiriti capaci di superare la divisione tra scienze esatte e scienze umane, nutriti di un pensiero che sa collegare. È tempo di invertire la biforcazione tra colti ignoranti (donne e uomini di lettere) e istruiti incolti (donne e uomini di scienza). E una missione dell’educazione futura è certamente insegnare ad accettare e a saper convivere con una condizione strutturale di vulnerabilità. Non possiamo sfuggire all’incertezza, come stiamo constatando anche con la crisi pandemica. L’educazione futura dovrà insegnare ai ragazzi ad affrontare questa incertezza. Ogni decisione diventa una scommessa, uno sforzo continuo e creativo di interpretazione della realtà, e comporta sempre dei rischi. Occorre insegnare ai ragazzi a modificare le linee d’azione in funzione delle informazioni nuove e dei casi imprevisti: se la “cultura del programma” era adatta a situazioni stabili e prevedibili, la complessità esige una “cultura della strategia”. Se il paradigma tecnocratico, come in una sorta di incantesimo “futurista” ci aveva illuso di essere sul treno di un progresso accelerato e inarrestabile, ora abbiamo scoperto che la corsa di questo convoglio si può interrompere, che possono scattare “interruttori della globalizzazione” – come li ha chiamati Bruno Latour. Il sistema può improvvisamente rallentare. Dunque, una missione dell’educazione futura sarà insegnare a tenersi pronti a gestire questi momenti, pensando creativamente strategie di resilienza, di autoesame critico, di riorganizzazione, di riconversione. La crisi sistemica inedita che stiamo vivendo e la necessità di uscire dal “trauma” che ha provocato possono diventare il forcipe per il pensiero nuovo, di cui si avvertiva già l’esigenza: un pensiero critico, inteso come razionalità aperta, perché il reale eccede il razionale, e la ragione calcolante è solo una componente dell’intelligenza.

Abbiamo bisogno di un pensiero più prudente?

Se ci lasciamo alle spalle l’utopia – o forse sarebbe meglio dire la hybris moderna – di un controllo totale del mondo (“padroni e possessori della natura”, diceva René Descartes) e accettiamo come irriducibile una quota permanente di “indisponibilità” del mondo che abitiamo, diventa essenziale educare a scendere a patti con il disordine. Insegnare, quindi, che dovremo navigare non solo nel web, ma, come ha pregnantemente scritto Edgar Morin nel suo Lezioni da un secolo di vita (Mimesis, Milano 2021), “vivere è navigare in un oceano di incertezza facendo rifornimento in isole di certezze”.

Quale sarà il “nocciolo duro” dell’università del futuro?

Fornire gli strumenti di pensiero necessari per imparare a selezionare informazioni e conoscenze in continua, rapida, spesso disordinata, evoluzione; favorire l’autonomia di pensiero. Unificare ciò che è frammentario è un problema non solo educativo e pedagogico, ma epistemologico, antropologico, sociale, etico di importanza decisiva per le giovani generazioni e per l’intera società.

È un progetto ambizioso.

Di lungo periodo e di importanza strategica: le istituzioni politiche sono sollecitate a investire concretamente in esso. E investire non significa semplicemente predisporre incentivi economici – peraltro oggi assenti – ma anche stimolare i docenti a rivedere e approfondire i propri stessi percorsi di formazione. Non basta stabilire “raccordi” fra discipline: è necessario un cambiamento di paradigma, di prospettiva. Nella nostra società l’università svolge il ruolo decisivo nella costruzione delle mappe cognitive. È in università che continuano a formarsi le nostre idee di fondo sull’umanità, la storia, la natura, l’universo, la società, la mente, sui problemi planetari, sul sapere stesso. La tradizione di pensiero che fino a oggi ha ispirato la formazione delle nuove generazioni, ha praticato il metodo che riduce il complesso al semplice, che separa ciò che è legato, che omologa ciò che è molteplice, che elimina tutto ciò che apporta disordine, conflitto e contraddizione. Il pensiero che taglia, riduce e isola porta certo gli esperti e gli specialisti a essere molto produttivi nei loro campi. Ma oggi la frammentazione dei saperi e la proliferazione dei linguaggi formali creano ostacoli e impedimenti alla comunicazione fra i ricercatori stessi, impedendo loro di spostare e di ampliare lo sguardo, e quindi di essere creativi. L’ultimo secolo ha sgretolato l’immagine di uno sviluppo cumulativo delle conoscenze. Ogni immagine statica, ogni visione panoramica del sapere, si è rivelata impossibile e, comunque, sterile. Oggi abbiamo bisogno di mappe cognitive flessibili, in grado di ampliarsi, mettersi in discussione, ristrutturarsi. L’università deve fornire le chiavi per “apprendere ad apprendere”.

Lei ha parlato della necessità di un “nuovo umanesimo”, non contrapposto, però, all’avanzare del sapere scientifico.

La vita umana non è solo biologica, ma anche psichica, economica, sociale, affettiva, spirituale... Per proteggere la vita abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo, capace di concepire l’“indivisibilità della vita”. L’educazione futura dovrà essere senz’altro inquadrata in questa cornice. Abbiamo bisogno di cogliere gli aspetti essenziali dei problemi, di comprendere le implicazioni, per la condizione umana, degli sviluppi delle scienze e delle tecnologie, e anche di valutare limiti e possibilità delle conoscenze. Ciò significa anche diffondere la consapevolezza che i grandi problemi di oggi – il degrado ambientale, il caos climatico, le crisi energetiche, la distribuzione ineguale delle risorse, la salute e la malattia, l’incontro e il confronto di culture e di religioni, i problemi bioetici – vanno affrontati e risolti attraverso una stretta collaborazione non solo fra le nazioni, ma anche fra le discipline e fra le culture.

Sviluppo economico locale, le skills delle persone, il welfare sociale, lo sviluppo culturale e del capitale umano.

La spinta all’innovazione delle politiche di sviluppo e rigenerazione locali è determinata dalla complessità delle sfide da affrontare oggi, molto diverse per la varietà di “comunità di luogo” di cui è composto il nostro Paese: la transizione ambientale, la digitalizzazione, la necessità di un welfare che affronti nuove sfide sociali (ad esempio le nuove forme di povertà), la città della prossimità, i distretti dell’innovazione, la riqualificazione dei territori diffusi, il recupero dei borghi, il cambiamento del panorama economico e occupazionale, in un mondo più connesso e globale ma anche più esigente, precario, mobile e liquido.

Mauro Ceruti insegna Logica e filosofia della scienza allo Iulm di Milano, dove è anche prorettore con una delega speciale alla transdisciplinarità.

Nello stesso numero

Contenuti correlati

VIDEO | Il Seminario di Matera del Dipartimento Istituzioni e PA

Percorsi di cambiamento
della pubblica amministrazione

11 AGO 2022 | Francesco Verbaro e altri 4

La crisi pandemica ha evidenziato fragilità e ingessature. Urgente fare leva sulla responsabiità personale e sul coinvolgimento dei corpi intermedi. Anche per una buona attuazione del Pnrr

Clicca qui!