Trimestrale di cultura civile

Come mettere in sicurezza e rigenerare i pilastri del sistema universitario

  • AGO 2022

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Il futuro del nostro Paese passa da una profonda riflessione sul modello di università che si intende rigenerare. Cambiamenti di sistema, dunque concreti, finalizzati. E non astratti e ideologici. Urge un percorso di investimenti. Con una politica razionale. Bisogna concentrarsi su poche università “elette” oppure è opportuna una riconsiderazione che valorizzi le presenze territoriali in un equilibrio virtuoso? Le risorse finanziarie sono, appunto, risorse e quindi devono andare a buon fine. È una questione di coesione. Di coesione che apre il territorio allo sviluppo nel dialogo con chi “è fuori” dal perimetro degli atenei. Questa è la fase per una scelta di lungo periodo del modello di sistema. E per costruire un’architettura coerente, a partire dall’architrave fondamentale del finanziamento.

L’università italiana sta vivendo un’occasione importante, che può contribuire a cambiare la sua fisionomia per un lungo periodo di tempo. C’è nel Paese, seppure in modo differenziato, una volontà di cambiamenti strutturali importanti in tanti ambiti, tra cui quello universitario, che possano consentire uno sviluppo economico e sociale della comunità nazionale, più efficiente e di qualità, e che potrebbero trovare nel PNRR lo strumento per la loro realizzazione. E sempre grazie al PNRR, nonché alle maggiori risorse di finanza pubblica impegnate durante la pandemia, l’università italiana ha la possibilità di godere di un investimento finanziario senza precedenti (perlomeno, a confronto con quanto avvenuto negli ultimi quindici anni). È, dunque, questo un momento in cui è importante riflettere su quale università vogliamo costruire per il futuro del nostro Paese, e con quali cambiamenti dell’attuale sistema intendiamo coerentemente realizzarla.

Il dibattito sull’università tende, invero, ad attardarsi su modelli “astratti” e ideologicamente contrassegnati di organizzazione del sistema universitario. Mi riferisco, in particolare, all’ormai vexata quaestio di trasformare il nostro sistema universitario in un sistema a doppia velocità, con una strategia che persegua l’“eccellenza” per alcuni (pochi) atenei, sui quali concentrare risorse finanziarie affinché essi possano migliorare significativamente la propria performance di ricerca e acquisire, così, una posizione di rilievo nei ranking internazionali.

Le policy di un sistema universitario pubblico, finanziato con le risorse pubbliche, non possono, tuttavia, essere definite su concezioni, astratte e ideologiche, di quale sia l’organizzazione dell’università più “utile” al Paese, prescindendo dagli obiettivi che questo, attraverso le sue istituzioni, intende darsi. Il PNRR, oltre a offrire un’opportunità straordinaria di investimento per i nostri atenei ed enti di ricerca nonché essere un “contenitore” importante per realizzare, in tempi accelerati, riforme strutturali, fornisce, per l’appunto, anche un riferimento esplicito e di lungo periodo agli obiettivi strategici che il (sistema) Paese intende perseguire.

Vorrei, dunque, iniziare la mia analisi partendo da quest’ultimo aspetto, per ragionare, in primo luogo, sulla configurazione di un sistema universitario, a mio avviso, più coerente con gli obiettivi di lungo periodo del Paese, così come emergono da un Piano che rappresenta il più “vasto” programma di cambiamento dell’Italia. Mi soffermerò successivamente sull’analisi dell’attuale meccanismo di finanziamento degli atenei, sia perché esso rappresenta un pilastro fondamentale di qualsiasi architettura di sistema, sia perché esso è un elemento trascurato dalle riforme previste dal Piano.

Configurazione del sistema universitario e contesto nazionale

Uno degli assi strategici del PNRR è costituito dall’innovazione. Per valutare la relazione tra l’efficace perseguimento di questo obiettivo e la configurazione del sistema universitario, che è uno dei protagonisti della sua realizzazione, si può ragionare in modo astratto, avulso cioè del nostro contesto nazionale?

È ragionevole ritenere che lo sviluppo di alcune (poche) università di “classe mondiale”, ad esempio, in grado di realizzare ricerca altamente innovativa, nei termini dei criteri tipicamente legati alla valutazione dell’attività scientifica, sia condizione sufficiente per garantire lo sviluppo del nostro Paese? A parte il fatto che lo sviluppo di campioni mondiali della ricerca non è operazione di breve lena, non è detto che la concentrazione di risorse che una tale strategia richiederebbe, potrebbe portare anche gli attuali migliori atenei italiani a ottenere un posizionamento internazionale sufficientemente elevato, tenendo conto della loro prevalente natura “generalista”. È ben difficile, infatti, che la produttività delle risorse possa essere la medesima in tutte le aree scientifiche in cui un ateneo è impegnato, quando lo spettro di tali aree è molto ampio. Più in generale, poi, sebbene alcuni studi empirici mostrino l’esistenza di una correlazione tra PIL e posizionamento nei ranking, essi, tuttavia, non chiariscono la relazione di causalità.

In ogni caso, e questo è l’aspetto cruciale, affinché l’innovazione realizzata nei “laboratori” universitari sia utile allo sviluppo del Paese, di tutto il Paese, in presenza di una realtà economica molto differenziata geograficamente, essa non può fare a meno di una produzione differenziata di conoscenze innovative, che può essere garantita da una presenza diffusa delle istituzioni di ricerca sul territorio. Già nel 2003, il rapporto Lambert1 sulla collaborazione tra imprese e università sottolineava come la concentrazione di risorse potesse ridurre la capacità di ricerca del sistema e le collaborazioni con le imprese.

Il problema della coesione sociale e territoriale

Comunque si voglia considerare la relazione tra eccellenza, innovazione e sviluppo economico e sociale, è necessario tenere conto dell’altro rilevante asse strategico del PNRR, quello della coesione sociale e territoriale. Il progressivo superamento dei divari territoriali, in tanti ambiti della vita civile, sociale ed economica dell’Italia è condizione fondamentale per la sua coesione. Le istituzioni della formazione hanno un ruolo cruciale per il superamento di tali divari, in quanto da esse scaturisce un asset fondamentale per lo sviluppo, sia a livello sociale sia a livello dei singoli individui. Spesso si ritiene che il problema fondamentale, sotto questo profilo, sia esclusivamente quello di garantire pari opportunità di accesso, affinché la provenienza sociale e territoriale delle persone non costituisca un ostacolo. L’esperienza internazionale, tuttavia, ci dice che l’accesso dipende anche dalla struttura territoriale dell’offerta, tant’è che, negli Stati Uniti, le aree geografiche nelle quali sono assenti istituzioni di formazione terziaria, sono indicate come “deserti educativi”, perché una quota significativa di giovani di quei territori, a causa di tale assenza, non accederanno all’università, perché non intendono muoversi altrove.

La presenza di un’istituzione universitaria in un territorio, dunque, offre una più efficace opportunità di formazione del capitale umano e, inoltre, può anche contribuire alla crescita di attività economiche che finiscono per alimentare la domanda di tale capitale, creando così un circolo virtuoso. Il perseguimento dell’obiettivo della coesione sociale e territoriale è, dunque, ancora una volta, intimamente ricollegabile a un sistema di istituzioni universitarie diffuse sul territorio. Anche in questo caso, esiste l’evidenza empirica che riguarda gli effetti del programma tedesco dell’eccellenza, che dimostra come la concentrazione di risorse rischi di aumentare le disparità regionali, in quanto si favoriscono le università più grandi, con maggiori rapporti con il settore privato, che si trovano, generalmente, nelle regioni più sviluppate.

Sistemi di finanziamento e rischi di non sostenibilità del sistema universitario

La storia recente del nostro sistema universitario, purtroppo, ci mostra rischi di non sostenibilità di un’offerta universitaria e di ricerca diffusa sul territorio. La dinamica centro-periferia, come è stata da più parti chiamata, vede un centro sempre più in grado di attrarre capitale fisico e capitale umano di qualità e una periferia in ritardo a causa dei divari infrastrutturali, dei gap territoriali di ricchezza e occupazione, della stagnazione demografica. Così, gli atenei dei territori periferici, a tutte le latitudini geografiche del Paese, hanno riscontrato negli ultimi anni crescenti difficoltà in termini di immatricolazioni, reclutamento e capacità di intercettare fonti di finanziamento ordinarie e straordinarie. Questa dinamica, tuttavia, non è soltanto ricollegata a fattori strutturali esterni al sistema universitario, ma è in parte determinata endogenamente, in particolare, dalle regole che presiedono all’allocazione delle risorse finanziarie tra gli atenei.

La rilevanza del sistema di finanziamento e, soprattutto, la necessità del suo cambiamento sembrano, purtroppo, sottovalutate e, difatti, esso non rientra tra quegli aspetti di sistema che il PNRR ritiene di dover riformare. L’attuale meccanismo di finanziamento degli atenei è prevalentemente basato sul Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), la cui natura è codificata dalla norma istitutiva, l’art. 5, comma 1, lett. a) della legge 537/1993: finanziamento, di natura budgetaria, senza quindi vincoli di destinazione del trasferimento ricevuto, delle “spese per il funzionamento e le attività istituzionali delle università, ivi comprese le spese per il personale docente, ricercatore e non docente, per l’ordinaria manutenzione delle strutture universitarie e per la ricerca scientifica, a eccezione della quota destinata ai progetti di ricerca di interesse nazionale”.

L’indebolimento dell’autonomia finanziaria

Nel tempo, si sono succedute diverse norme che hanno inciso sia sulla sua natura di finanziamento budgetario, sia sui criteri della sua ripartizione tra gli atenei. Con riferimento al primo punto, una parte crescente delle risorse finanziarie è assegnata al di fuori del budget in senso stretto, quello legato al trasferimento liberamente disponibile da parte degli atenei (l’ammontare corrispondente alle attuali quota base, premialità e quota perequativa), senza alcun vincolo di destinazione. Nel 2008, la parte liberamente disponibile ammontava a 7.266 miliardi di euro, corrispondete a circa il 95% del finanziamento complessivo (a quel tempo, alcune quote di finanziamento vincolato, come dottorato, programmazione triennale e altri, erano iscritte in capitoli del bilancio dello Stato diversi da quello del FFO, che, successivamente, a seguito del decreto-legge 69/2013, le include). Nel 2021, tale quota risulta essere di 6.483 miliardi, pari a poco più del 78% dello stanziamento iscritto nel capitolo del FFO.

La parte liberamente disponibile delle risorse trasferite agli atenei si è, dunque, ridotta nel tempo, addirittura in valore nominale, e il dato è ancora più “drammatico” quando si osservi che, nei primi anni di questa serie, con tali risorse, gli atenei non hanno dovuto far fronte agli aumenti stipendiali, mentre negli ultimi sì. Questo dato ci fornisce una lettura diversa dell’attenuamento del sottofinanziamento del sistema universitario, che si sarebbe realizzato negli ultimi due anni rispetto agli anni successivi alla crisi finanziaria del 2008. L’incremento del finanziamento del sistema sta, infatti, passando attraverso un sostanziale indebolimento dell’autonomia finanziaria degli atenei, in quanto ormai circa un quarto delle risorse di cui dispongono sono a destinazione vincolata, con una sorta di “ritorno al passato”, al periodo precedente all’avvio del processo di autonomia, seguito alla legge 168/1989.

Per quanto riguarda i criteri di ripartizione del FFO, essi sono il risultato di interventi normativi (primari e secondari) che si sono succeduti e “sovrapposti” nel tempo e che non sempre sono coerenti tra di loro. A oggi, la ripartizione fa riferimento, oltre che a un residuo, ancora significativo, di quota “storica”: al costo standard per studente; a una premialità, prevalentemente basata sui risultati VQR e, in misura minoritaria, su alcuni indicatori della programmazione triennale; e a una quota cosiddetta perequativa, perlopiù legata a una clausola di salvaguardia, che garantisce gli atenei contro riduzioni eccessive del trasferimento rispetto agli anni precedenti. È importante aggiungere che le risorse finanziarie addizionali, con finalità d’uso vincolata, sono state generalmente ripartite con ulteriori criteri, non sempre convergenti con quelli di distribuzione del FFO.

Asimmetrie territoriali

Le modalità di ripartizione del Fondo hanno fatto sì che la riduzione del finanziamento universitario abbia prodotto effetti asimmetrici tra gli atenei, non soltanto in ragione della loro localizzazione geografica (Nord, Sud) ma anche tra atenei grandi e piccoli, e tra atenei centrali (localizzati in aree metropolitane a forte attrazione) e periferici. Non si tratta soltanto dell’effetto della premialità e, quindi, della diversa performance degli atenei in termini di VQR. Anche il criterio del costo standard per studente, sulla base del quale, nel 2021, è stato distribuito il 28% del FFO liberamente disponibile (e il cui peso è destinato ad aumentare nel tempo e a sostituire in toto il criterio di ripartizione di tipo “storico”, raggiungendo il 70% del FFO), si traduce in un ulteriore discapito competitivo per gli atenei che servono le aree svantaggiate.

La forte correlazione che il criterio stabilisce tra livello del finanziamento e numero degli iscritti sfavorisce, infatti, tali aree a causa del loro progressivo spopolamento, che rende, peraltro, più difficile il raggiungimento di quei criteri di efficienza che la sua introduzione vuole perseguire, nonostante i correttivi perequativi previsti dalla legge che si sono rivelati incapaci di ridurre gli squilibri. In particolare, nonostante tali correttivi, la determinazione del costo non tiene conto a sufficienza dei costi fissi degli atenei, penalizzando così quelli di dimensione medio-piccola e, più in generale, quelli per i quali il numero delle iscrizioni, a causa della migrazione dal proprio territorio, non “riempie” a sufficienza i vari corsi di studio. Le stesse ragioni che penalizzano alcuni atenei nella ripartizione del finanziamento statale finiscono, peraltro, per essere all’origine di una limitata capacità di compensare una riduzione della quota di FFO con entrate di fonte diversa (contribuzione studentesca, progetti, conto terzi).

L’analisi sintetica di alcune criticità dell’attuale meccanismo di finanziamento degli atenei fa chiarezza, a mio avviso, sul fatto che esse rendono tale meccanismo poco coerente con una visione del sistema universitario italiano caratterizzata da una presenza diffusa sul territorio, in linea con gli assi strategici del Paese, a partire da quello relativo alla coesione sociale e territoriale. Più in generale, esse indeboliscono la capacità del FFO di corrispondere ad almeno due finalità di qualsiasi sistema di finanziamento budgetario di istituzioni autonome: soddisfazione di un fabbisogno finanziario standardizzato e trasmissione di incentivi per il perseguimento di un insieme selezionato di obiettivi prioritari di sistema.

Da dove ripartire: alcune proposte

Da dove ripartire allora, per avere un meccanismo di finanziamento coerente con un sistema diffuso? In primo luogo, da un meccanismo di finanziamento che garantisca la sostenibilità del sistema nel suo complesso e delle singole istituzioni che lo compongono. Ciò comporta un livello di finanziamento complessivamente adeguato ai costi, programmato su base triennale, sul modello del finanziamento della sanità, con una revisione complessiva del modello di determinazione dei costi efficienti delle istituzioni universitarie, che tenga adeguatamente conto dei costi fissi della loro attività istituzionale, al fine di determinare in modo più rigoroso quale sia il livello di finanziamento minimo da garantire a ciascuna istituzione. Ovviamente, un moderno meccanismo di finanziamento non può limitarsi a fare pervenire a ciascun ateneo risorse per sopravvivere, indipendentemente dai risultati.

La premialità, tuttavia, non può essere parte di un Fondo che serve a finanziare le “spese per il funzionamento e le attività istituzionali delle università”. Essa andrebbe scorporata dal Fondo e basata su una logica di valutazione della performance che non può essere quella della VQR, di tipo cioè comparativo tra gli atenei e, per di più, con una fotografia ferma per quattro-cinque anni. La logica dovrebbe essere quella di una comparazione della performance nel tempo per singolo ateneo, premiando i suoi miglioramenti, e tenendo conto, naturalmente, che la difficoltà di migliorare aumenta con il livello dei risultati che si raggiungono. Uno strumento utile potrebbero essere gli accordi di programma pluriennali tra il Ministero e ogni singolo ateneo, nei quali, sulla base di una programmazione strategica pluriennale degli atenei, si “contrattano” risultati relativi alle loro attività istituzionali utili per il sistema universitario nazionale ma anche per i territori in cui le istituzioni operano, e la parte premiale è erogata in relazione al conseguimento di tali risultati. Si uscirebbe così da una logica meramente algoritmica della valutazione delle performance, possibile soltanto con un impegno serio di Ministero e atenei a definire obiettivi e azioni della propria attività, nel medio-lungo periodo.

Un cambiamento del meccanismo di finanziamento di questa portata richiede modifiche normative e una fase di transizione che assicuri la stabilità finanziaria delle singole istituzioni. Questo è, tuttavia, il momento opportuno per una scelta di lungo periodo del modello di sistema e per costruire un’architettura coerente, a partire dall’architrave fondamentale del finanziamento, che sappia, finalmente, coniugare autonomia (garantita dalla nostra Costituzione) e responsabilità.

Giacomo Pignataro è Professore ordinario di Scienza delle finanze presso l’Università degli Studi di Catania di cui è stato anche rettore.

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