Trimestrale di cultura civile

Il valore dell’università e il suo contributo allo sviluppo

La domanda è d’obbligo: conviene investire nell’università? La risposta non può essere un sì “a priori”. Quella più sensata suggerisce di ricorrere a un termine che solo in apparenza può generare stati di insoddisfazione: “dipende”. Quel “dipende” apre le porte a un secondo termine, maggiormente chiarificatore, “a quali condizioni”. Già. Perché è fondamentale comprendere e verificare a quali condizioni un ateneo è fonte di valore e sviluppo. E, solo nel caso di riscontro affermativo, diventa opportuno, per il Sistema Paese, avviare politiche di investimento. Secondo un percorso articolato che ruota, per l’appunto, attorno al concetto assai concreto – che è poi metodo conoscitivo – di opportunità. Opportunità che significa risposta ai bisogni reali (culturali e sociali) dei territori. Laddove per territori sono da intendersi tutti i soggetti che lì si esprimono e concorrono alle dinamiche di costruzione.

Nella cultura odierna – pervasa da incertezze e insicurezza, in cui si fa quindi fatica a prendere decisioni individuali e collettive, e c’è una diffusa resistenza ad assumersi rischi – si è spesso orientati “per contrappasso” a cercare risposte “deterministiche e automatiche” alle nostre domande ed esigenze.

L’esempio delle scelte e delle politiche per l’università ne è un esempio probante: alle domande che molti si fanno – l’università crea valore e sviluppo ai territori e al Paese? e, quindi, “conviene” investire nell’università e realizzare un ateneo sul proprio territorio? – si vorrebbe che qualcuno desse risposte “univoche”: sì, no o, al massimo, abbastanza (per lasciare ancora indefinita la risposta).

Invece occorrerebbe rispondere: sì, l’università crea valore e sviluppo; sì, conviene investire nell’università, se si verificano certe condizioni. Dunque, “dipende”.

Questa risposta, ben lungi dall’essere relativista e qualunquista, assume un senso costruttivo se alle domande di base se ne accompagna anche un’altra più approfondita: a quali condizioni l’università crea valore e sviluppo e, quindi, a quali condizioni conviene investire? Non esiste una ricetta o una risposta univoca. L’università crea indubbiamente delle opportunità, ma che crei valore e sviluppo dipende dalla responsabilità (dal latino “respondeo”) con la quale la si progetta e la si gestisce e per far fronte a quali bisogni.

Nelle considerazioni che seguono, proprio per evitare di dare risposte generiche e generali, si cerca di articolare le riflessioni su quattro registri: 1. Per chi l’università rappresenta una opportunità?

2. Che cosa deve fare l’università per creare opportunità? 3. Quali impatti può generare l’università? 4. Last but not least, dove l’università offre delle opportunità di valore e sviluppo?

Dalle diverse combinazioni e interdipendenze di queste condizioni e contesti dipendono, di volta in volta, risposte chiare alla domanda se l’università generi impatti positivi e convenga quindi a un Paese e ai suoi territori investire nell’università. Con queste indicazioni si cerca perciò di offrire una guida e dei criteri per chi deve progettare o gestire una università che effettivamente ed efficacemente crei valore e sviluppo.

1. Per chi l’università rappresenta una opportunità (cioè per quali stakeholder)?

Gli stakeholder dell’università sono evidentemente molteplici e le opportunità sono perciò molto diverse.

Gli studenti beneficiano dell’esistenza dell’università perché essa li può aiutare ad approfondire le loro conoscenze, a formarsi culturalmente e ad aprire loro sbocchi per un successivo lavoro.

Le imprese e le istituzioni pubbliche possono attingere agli studenti laureati selezionando quelli che offrono loro competenze e professionalità aggiornate e qualificate e disporre quindi di una rinnovata classe dirigente.

Sul piano macro, economico e sociale, il Paese e la società in quanto tali hanno interesse all’università per il valore aggiunto che i laureati offrono loro in termini di rinnovamento della leadership, di innovazione e competitività.

Infine, l’università offre opportunità a un rilevante numero di altri soggetti economici e di servizi (fornitori, editori, operatori immobiliari, imprese di trasporto, commercio al dettaglio…) di supportare le attività universitarie in senso stretto.

Una banale, ma non sempre ovvia esperienza, è dunque capire a chi “serva” l’università in diversi contesti. Se la si progetta e gestisce senza sapere e capire “a chi serve” è evidente che il valore e lo sviluppo creati, semplicemente, non esistono!

2. Che cosa fa l’università per creare opportunità di valore e sviluppo?

È nota la classificazione delle attività “core” delle università: formazione, ricerca e cosiddetta “terza missione”, è attraverso di esse che l’università può creare valore e sviluppo.

Valore e sviluppo – sia economico che sociale – sono evidentemente incorporati nelle attività di formazione delle persone. Gli studenti – che compiano un ciclo breve o lungo di formazione (laurea magistrale o specialistica) sono destinatari di nuove conoscenze e competenze (non solo quindi “cognitive”, ma anche non cognitive skills). Facendone tesoro, diventano protagonisti di processi produttivi e sociali di indubbio valore per la loro persona e per le future attività lavorative in cui saranno impegnati. Sostanzialmente l’università, con le attività di formazione, intraprende un “investimento in capitale umano” (termine un po’ economicistico ma che rende l’idea), di cui i laureati trarranno personalmente beneficio nel corso di tutta la loro vita, attiva e anche non attiva, soprattutto se le attività di formazione sono ricorrenti (long life learning).

Le persone coinvolte nelle attività accademiche non sono evidentemente solo quelle che – una volta laureate – “andranno per le vie del mondo” o sono già inserite nel mondo del lavoro. Anche coloro che rimangono in università (insegnanti e ricercatori) creano valore e sviluppo attraverso le attività di ricerca che l’università rende possibile. Tale valore è apparentemente immateriale e le ricadute della ricerca spesso non si manifestano nel breve periodo e quindi la loro “valorizzazione” è procrastinata e diluita nel tempo. Quando tuttavia la ricerca (si noti, non solo quella tecnico-scientifica, ma anche culturale e sociale) produce risultati visibili e misurabili, essa è fonte di attrazione per nuovi studenti, ricercatori e docenti, e quindi sortisce effetti “cumulativi” anche per l’università che la ospita e la svolge.

Un’altra fonte di creazione di valore e sviluppo dell’università è quella attribuibile alla cosiddetta “terza missione”. Lasciando ad altri contributi di questo stesso numero della rivista il compito di approfondirne contenuti ed estensione, vale tuttavia la pena richiamare qui l’impatto che la terza missione esercita. Se per terza missione ci si riferisce – come fa l’ANVUR (Associazione Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario) –“all’insieme delle attività di trasferimento scientifico, tecnologico e culturale e di trasformazione produttiva delle conoscenze, attraverso processi di interazione diretta dell’università con la società civile e il tessuto imprenditoriale”, si comprende quanto essa possa “promuovere la crescita economica e sociale del territorio, affinché la conoscenza diventi strumentale per l’ottenimento di benefici di natura sociale, culturale ed economica”.

Non è difficile, pertanto, riconoscere tra gli effetti della terza missione la produzione di beni pubblici, economici e sociali che aumentano il benessere della società in ambito educativo (educazione degli adulti, life long learning, formazione continua, post laurea), culturale (eventi e beni culturali, gestione di poli museali, divulgazione scientifica), sociale (salute pubblica, attività a beneficio delle comunità, consulenza tecnico/professionale, di consapevolezza civile e di dibattito e controversie politiche, expertise scientifica).

Con la terza missione l’università è dunque in grado di valorizzare gli stessi prodotti della didattica e della ricerca, favorendo il dialogo, lo scambio e lo sviluppo reciproco (capitale sociale) tra l’università e gli stakeholder dei territori e i contesti sociali di riferimento, per costruire una società della conoscenza (knowledge society).

3. Quali impatti può creare l’università

Come si evince da quanto detto, non esistono dubbi sul fatto che l’università possa creare numerose opportunità di valore e sviluppo, sia per le singole persone che per le comunità che con essa interagiscono.

La crescita personale – un fattore che forse consideriamo immateriale, proprio perché non disponiamo ancora di strumenti consolidati e condivisi di misurazione e valutazione – si manifesta in termini di maggiore consapevolezza e responsabilità del proprio ruolo nella società; nell’apertura mentale a fronte di innovazione e cambiamenti culturali e sociali; in una maggiore “curiosità” e attenzione verso la realtà e il suo divenire; nell’intrapresa di “percorsi di vita”.

In sintesi, un possibile cambiamento di mentalità che “apre” l’individualismo drammatico del nostro tempo verso “capacità relazionali” sempre più necessarie. L’esperienza di chi ha vissuto e vive “bene” l’università e ne ha saputo far tesoro, è la conferma di questo impatto positivo.

Ancora più evidenti e valutabili sono alcuni impatti visibili che la presenza dell’università in un Paese e nei suoi territori può generare sulle comunità – civili, produttive e istituzionali. Guardando anche solo agli ambienti urbani in cui le università nascono e operano, si constatano facilmente effetti come quello dell’urbanistica prossima agli atenei (campus universitari), incluso quello della composizione demografica dei quartieri dovuta alla presenza dei giovani che frequentano l’università come “fuori sede” e vivono in residenze universitarie. Questa presenza “anima” pezzi di città con effetti positivi per le attività commerciali e i servizi che chi frequenta l’università domanda: ristorazione, tipografie, librerie, cartolerie, servizi di assistenza legati alle telecomunicazioni…

Un impatto più selettivo – e legato soprattutto alle facoltà tecniche ed economiche – è quello relativo all’ innovazione. Le start-up e gli incubatori sono un fenomeno antico che negli ultimi decenni ha subito, tuttavia, un’accelerazione, dovuta alla rapidità con cui avviene il cambiamento tecnologico e organizzativo, la cui origine è spesso di tipo accademico, frutto proprio delle attività universitarie di formazione e ricerca. Alla “creatività” – di cui spesso si parla come elemento di sviluppo sociale e produttivo – contribuisce in larga misura la presenza dell’università.

Infine, ma volutamente lasciato per ultimo perché non necessariamente di natura strutturale come quelli precedentemente ricordati, un fattore di impatto sullo sviluppo e la creazione di valore da parte dell’università è quello legato alla spesa pubblica, sia corrente che di investimento, legata alla realizzazione di infrastrutture e all’implementazione di servizi: un fattore comunque non marginale per molte città e territori.

4. Dove e quando l’università crea valore e sviluppo?

La considerazione finale sulla creazione di valore e sviluppo dell’università è quella che riguarda il “caveat” iniziale sul quale ci si è interrogati. L’università crea sempre e ovunque valore e sviluppo? Vale la pena di investire sempre e comunque nella creazione di un ateneo? Oppure l’università crea valore e sviluppo “a certe condizioni” territoriali?

Le risposte, per quanto detto finora e per l’interdipendenza tra le attività svolte dall’università e i contesti in cui opera, indicano chiaramente che non esiste una risposta univoca. Anzi! Talvolta invece – secondo una logica meccanicistica (ed economicistica) – si è programmata la realizzazione di atenei “perché un territorio – una regione, o addirittura una provincia – ne era privo”! Come se avere l’università sotto casa fosse un “diritto” (e non un’opportunità); magari senza una sufficiente accessibilità a essa; senza una verifica della potenziale domanda specifica di formazione da parte del territorio su essa gravitante; per poter valorizzare immobili spesso inadatti; e attuando progetti che non raggiungono le “dimensioni di soglia” minime, sia dal punto di vista qualitativo che funzionale e didattico.

Questa logica ha condotto alla nascita di un certo numero di atenei che si sono rivelati successivamente “insostenibili”. Questo non vuol dire che non si possa pensare anche alla realizzazione di progetti “piccoli”, ma solo se capaci di attrarre studenti, docenti e ricercatori qualificati e motivati. Ne sono esempi città e territori anche geograficamente marginali e bisognosi di promozione e sviluppo: ma allora la condizione è la specializzazione (addirittura internazionale!) delle loro attività di formazione e ricerca di natura “glocale”, cioè al tempo stesso capaci di rispondere a bisogni di sviluppo locale e all’immanenza in un sistema di relazioni scientifiche e culturali di livello globale.

Si vedano gli esempi virtuosi di “best practices”, riportati in questo numero della rivista, come Bolzano; o del percorso di crescita di alcune città universitarie (come Trento, Bergamo, Macerata, Urbino o Lucca) che hanno ospitato originariamente “liberi istituti universitari”, poi diventati poli di attrazione accademica significativi.

Ciò che ha garantito il “valore” (successo) di questi centri universitari è stata proprio la loro capacità di intessere relazioni cooperative – nazionali e internazionali – almeno in alcuni indirizzi di formazione e ricerca.

In altri casi è interessante vedere il ruolo della terza missione svolto dalle università nate e prosperate per “servire” e accompagnare le dinamiche produttive di certi territori, caratterizzati da un’alta densità di piccole e medie imprese (ad esempio la LIUC, Libero Istituto Universitario di Castellanza, in provincia di Varese).

Ancora diverso è il ruolo delle università presenti nelle grandi città (Milano, Roma, Napoli, Palermo, Torino, Firenze, Bologna, Genova, Venezia, Bari) dove il “fattore vincente” è rappresentato dall’elevata densità demografica esistente (di studenti, locali e fuori sede), per i quali il “valore” della formazione è integrato da quello della disponibilità di tutti i servizi complementari irrinunciabili (come quelli già ricordati in precedenza).

Tutta la valutazione sul valore e lo sviluppo creato dall’università – come si vede – dipende dal progetto perseguito e dalle “esigenze” che si vogliono soddisfare: non quindi progetti burocratici e statalisti (“esamifici”), ma orientati a rispondere a bisogni veri, vicini e lontani, in modo lungimirante ed efficiente, e a valorizzare le risorse esistenti sui territori. È solo questo che può rendere l’università un grande fattore di valore e sviluppo, duraturo e sostenibile nel tempo.

Lanfranco Senn è Professore emerito di Economia regionale presso l Università Bocconi di Milano.

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