Trimestrale di cultura civile

Per il ritorno alla civitas

  • GEN 2022
  • Stefano Zamagni

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Ovvero: alla città delle anime, secondo la celebre definizione di Cicerone. Dunque, quando si pensa e si costruisce la città del futuro occorre immaginarla come luogo di vita. Una città capace di ricostruire il senso di comunità. Perché la costruzione di luoghi è, prima di tutto, una costruzione di senso. E in questa prospettiva è virtuoso appoggiarsi creativamente all’esperienza relazionale che esprime la civiltà cittadina. Come raccontano pagine della nostra storia, solo temporalmente lontane. Un ripasso doveroso. Una lezione “dentro” il futuro.

Introduzione

Due sono i principali tipi di crisi che è possibile rintracciare nella storia delle nostre società: dialettica l’una, entropica l’altra. Dialettica è la crisi che trae origine da un qualche conflitto che prende corpo in una determinata società, ma che contiene, al proprio interno, le forze del proprio superamento. Il che non implica che necessariamente l’uscita dalla crisi rappresenti un progresso rispetto alla situazione precedente. Esempi famosi di crisi dialettica sono quelli della rivoluzione francese, di quella americana, della rivoluzione d’Ottobre in Russia.

Entropica, invece, è la crisi che tende a far collassare il sistema per implosione, senza essere in grado di modificarlo con le sue sole forze. Si pensi, ad esempio, alla caduta dell’impero romano; alla transizione dal feudalesimo alla modernità; al crollo dell’impero sovietico.

Perché la distinzione è importante? Perché sono diversi i modi di uscita dai due tipi di crisi. Non si esce da una crisi entropica solamente con provvedimenti legislativi, con aggiustamenti di natura tecnica, con l’immissione di risorse economiche – pure necessarie – ma affrontando di petto la questione del senso. Ecco perché ci vogliono oggi, come ieri, minoranze profetiche che sappiano indicare alla società la direzione verso cui andare, mediante un supplemento di pensiero e soprattutto di spirito. Ebbene, l’evento pandemico da Covid-19 ha innescato una crisi di tipo entropico, connotata da una pluralità di autentiche res novae, il cui tratto comune è quello di provocare un aumento, in forme varie, della vulnerabilità. È forse opportuno rammentare che la vulnerabilità ha a che vedere con il poter ricevere delle ferite. Essa, pertanto, non va confusa né con la fragilità, che concerne l’inconsistenza intrinseca delle cose, né con la precarietà, che denota il carattere transitorio di una determinata condizione di vita. Per quanto i pericoli della vulnerabilità siano assai più seri di quelli associati alla fragilità e alla precarietà, molto raramente nel dibattito pubblico e nell’azione di governo il riferimento è alla vulnerabilità, sistematicamente confusa con la fragilità.

In quel che segue, fisserò l’attenzione su una soltanto di tali novità, quella che riguarda il futuro della città, intesa quale luogo di vita, cioè a dire quale contesto culturalmente definito entro cui ogni persona è posta in grado di costruire la propria identità in relazione con l’altro. Non dunque la città quale mero spazio di transazioni economiche e finanziarie, ridotta a real estate da costruire, lottizzare e vendere come bene rifugio per qualificate élites (La speculazione edilizia è il titolo di un celebre romanzo di Italo Calvino del 1963, pubblicato da Einaudi).

Lo spazio urbano, infatti, è bensì un elemento essenziale della città, ma senza una comunità e un insieme di norme sociali ed etiche condivise, mai si potrà avere una città come civitas (la “città delle anime”, secondo la celebre definizione di Cicerone) ma solo un mero agglomerato di edifici e strade, cioè una urbs (la “città delle pietre”). È in ciò la differenza tra la città-comunità e la città-spazio urbano1. Osservo, di sfuggita, che la concezione della città-spazio è tributaria di un modello appropriativo ed estrattivo di economia, caratterizzato da fenomeni come la gentrificazione dei centri urbani e l’emarginazione dei ceti svantaggiati.

Una difesa della città come urbe e del modello della grande città post-industriale in quanto capace di espandere l’insieme delle scelte a disposizione delle persone, è quella di E. Glaeser2.
Per quanto elegante, la posizione di questo autore non è difendibile perché non riesce a comprendere che la concezione dell’architettura dipende dal senso che si dà all’esistenza. Come osserva E. Severino3, se si ritiene che esista una verità eterna, allora si progetta lo spazio ordinandolo e organizzandolo attraverso la misura e l’armonia geometrica, in modo che la configurazione architettonica stabilisca in anticipo i movimenti di chi dimora. Se invece si pensa che non esista alcuna verità, allora si seguirà il principio per cui la forma segue la funzione, lasciando liberi gli spazi interni. Una recente presa di posizione a difesa di tale linea di pensiero è quella dell’americano Doug Farr4, che suggerisce una pluralità di “modelli di cambiamento” in combinazione con diverse strategie di accelerazione della transizione ecologica.

Le note che seguono mirano a portare argomenti che valgono a sollecitare la società civile italiana ad avviare un processo trasformazionale – e non meramente riformatore – delle nostre città. Cuore della civiltà moderna, le città sono oggi di fronte a un bivio. Proseguire sulla via della crescita incontrollata del XX secolo o diventare il motore di un nuovo modello di sviluppo che metta in armonia sostenibilità, inclusività equa, pubblica felicità. Preoccupanti, infatti, sono le stime recenti della United Nations Population Division, secondo cui il 55,5% degli abitanti del pianeta vive in aree urbane, cifra che salirà al 68% entro il 2050.

Nel 2030, 43 saranno le metropoli con più di 10 milioni di abitanti. Già oggi le città consumano l’80% delle risorse alimentari, mentre occupano appena il 3% della superficie terrestre; questo sta a significare che, con il progressivo spopolamento delle aree rurali, sempre più persone si nutriranno del cibo prodotto da sempre meno persone. Donde la necessità di ripensare, su basi nuove, i sistemi alimentari urbani (si consideri che il 90% di chi vive negli slum del Sud del mondo soffre di insicurezza alimentare).

Come si può comprendere, la vulnerabilità dei sistemi urbani è ulteriormente peggiorata con la pandemia. Inventare una città capace di ricostruire il senso di comunità, nella quale alla prossimità funzionale ne corrisponda una relazionale è l’obiettivo cui tendere. Un obiettivo questo che mai potrà essere conseguito se ci si affida esclusivamente all’innovazione tecnologica. Invero, innovazione tecnologica e innovazione sociale devono procedere di pari passo se si vuole, una buona volta, andare oltre l’idea novecentesca di città efficiente. Tale sarebbe la città nella quale si attua la specializzazione: quartieri dove si abita separati da quelli degli uffici e separati pure da quelli del tempo libero. Il che ha favorito l’affermazione di uno stile di vita che accentua l’individualismo e riduce la comunità. Si rammenti che i luoghi, a differenza degli spazi, non sono dati, ma sono entità prodotte da chi li abita. La costruzione di luoghi, infatti, è una costruzione di senso.

Della nascita della città

Per cogliere la portata delle sfide oggi in atto, reputo opportuno fare un rapido cenno al periodo storico in cui nasce e si afferma il modello di civiltà cittadina, un modello squisitamente italiano, per il quale il nostro Paese è giustamente famoso nel mondo.

Il XV secolo vede l’irrompere dell’Umanesimo civile dapprima in terra di Toscana e poi nel resto d’Europa. La ripresa della vita culturale, emblematicamente espressa dalla nascita dell’Università a Bologna nel 1088, per un verso, e il successo straordinario della rivoluzione commerciale dell’XI secolo, per l’altro verso, sono all’origine di quel nuovo modello di ordine sociale centrato sulla “città” e noto come “civiltà cittadina”. Non però la metropoli capitale di imperi, come erano state Roma o Costantinopoli, luoghi del potere centralistico e crocevia di etnie diverse. Ma la città-comunità di uomini liberi che si autogovernano mediante istituzioni appositamente create e che si attornia di mura per tutelarsi da chi non è parte della comunità e dunque non meritevole di pubblica fiducia. Lo stesso spazio urbano è disegnato in modo da rendere visibile e da favorire lo sviluppo degli assi portanti della nuova convivenza: la piazza centrale intesa come agorà, la cattedrale, il palazzo del governo, il palazzo dei mercanti e delle corporazioni, il mercato come luogo delle contrattazioni e degli scambi, le chiese che ospitavano le confraternite, le anticipatrici degli enti di Terzo settore, come oggi sono chiamati.

Era entro questi luoghi, tutt’altro che virtuali, che venivano coltivate quelle virtù che definiscono una società propriamente civile: la fiducia reciproca; la sussidiarietà; la fraternità; il rispetto delle idee altrui; la competizione di tipo cooperativo. Questo impianto della città è qualitativamente diverso sia da quello dei villaggi agricoli, che erano spesso meri agglomerati di case senza un’urbanistica che rinviasse a pratiche di autogoverno, sia da quello dei villaggi annessi ai castelli dei signori feudatari. La cifra della città-comunità non è tanto la più grande dimensione, quanto piuttosto la capacità di realizzare coesione sociale e di esprimere un’autonomia politica ed economica. Ben l’aveva compreso Cicerone che nel suo Dei Doveri aveva scritto: “Le città senza la convivenza umana non si sarebbero potute né edificare né popolare; di qui la costituzione delle leggi e dei costumi; di qui l’equa ripartizione dei doveri e una sicura norma di vita. Da tutto ciò ne conseguì la gentilezza degli animi e il rispetto reciproco. Onde avvenne che la vita fu più sicura e noi, col dare e col ricevere, cioè con lo scambiarci a vicenda i nostri averi e i nostri poteri, non sentimmo mancanza di nulla”5.

L’economia delle città italiane era costituita di manifattori e di mercanti, oltre che di navigatori nelle città costiere. Ai mercanti spettò il ruolo di aprire nuovi mercati, anche a grande distanza, verso i quali riversare i prodotti della manifattura e dai quali importare materie prime e quanto di interessante essi avevano da offrire. I mercanti furono non solamente i più attivi produttori di innovazioni organizzative in campo aziendale, ma anche i più attivi soggetti di apertura culturale. Scrive, al riguardo, il mercante di tessuti Benedetto Cotrugli nel suo Libro de l’arte de la Mercatura, pubblicato intorno alla metà del Quattrocento: “Et habbino pazienza alcuni ignoranti li quali dannano il mercante, che è sciente. Anzi incorrono in maggiore insolentia volendo che il mercante debba essere illetterato. Et io dico che il mercante non solo deve essere buono scrittore, abbachista, quadernista, ma anche letterato et buon retorico”6.

photo © Frans Vandewalle

Verso la fine del XVI secolo, l’economia di mercato civile – finalizzata al bene comune – inizia a trasformarsi in economia di mercato capitalistica, anche se occorrerà attendere la rivoluzione industriale per registrare il trionfo definitivo del capitalismo come modello di ordine sociale. Al fine del bene comune, il capitalismo sostituirà, via via, quello del bene totale, cioè il “motivo del profitto”: l’attività produttiva viene finalizzata a un unico obiettivo, quello della massimizzazione del profitto da distribuire tra tutti gli investitori, in proporzione ai loro apporti di capitale. È con la rivoluzione industriale che si afferma quel principio “fiat productio et pereat homo” che finirà con il sancire la separazione radicale tra conferitori di capitale e conferitori di lavoro e che costituirà il superamento definitivo del principio “omnium rerum mensura homo” che era stato posto a fondamento dell’economia di mercato civile all’epoca della sua nascita.

Il declino della città-civitas

La diffusione e l’espansione delle città – conseguenza e causa, a un tempo, della fioritura del modello di civiltà cittadina – alle novità e ai punti di forza di cui si è detto, associano un esito del tutto indesiderato: lo spirito di fazione. Come suggerisce Francesco Bruni7, Dante fu tra i primi a intuire che ciò costituiva un fattore di estrema pericolosità, capace di minare le fondamenta stesse della coesione e dell’armonia sociale. Nel libro IV del Convivio, il poeta non esita a indicare nella cupidigia l’origine dello spirito di parte, tanto che la ben nota proposta dell’impero universale viene giustificata come rimedio estremo all’avanzata di tale vizio: solo un dominio esteso a tutto il mondo avrebbe potuto indurre l’imperatore a dar vita al migliore dei governi e ad amministrare con saggezza la giustizia. Ambrogio Lorenzetti, nella sua celebre Allegoria del buon governo (1338), rappresenta l’avarizia come la causa di tutto quello (ruberie, rapine, violenza) che non consente lo sviluppo armonioso della città. Poiché il buon governo è sinonimo di buon commercio – la civiltà, sembra voler dire il pittore, è il mercato – l’avarizia del mercante accresce la faziosità e quindi induce al malgoverno.

La cura da tutti invocata per contrastare lo spirito di fazione è il bene comune, che è l’esatto contrario del bene proprio. È ai francescani dell’Osservanza che si deve la prima sistematica traduzione della nozione di bene comune sul terreno propriamente economico. La figura che giganteggia a tale riguardo è quella di Bernardino da Siena che verrà proclamato santo da Pio II – il grande umanista Enea Silvio Piccolomini – già nella seconda metà del Quattrocento, a soli pochi anni dalla morte. In una predica senese del 1425, Bernardino incita alle pratiche di bene comune perché “Idio è comuno bene”; quanto a dire che la condanna dello spirito di parte trova il suo fondamento addirittura nella teologia. La nozione di bene comune, per il pensiero francescano, non riguarda la persona presa nella sua singolarità, ma in quanto essa è in relazione essenziale con l’altro. Comune è dunque il bene della relazione stessa fra persone; è il bene proprio della vita in comune. È comune ciò che non è solo proprio – è tale invece il bene privato – né ciò che è di tutti indistintamente – è tale il bene pubblico. Nel bene comune, il vantaggio che ciascuno trae per il fatto di far parte di una data comunità non può essere scisso dal vantaggio che altri pure traggono da esso. Quanto dire che l’interesse di ognuno si realizza assieme a quello degli altri, non già contro – il che è quanto succede col bene pubblico. Come già Aristotele aveva chiarito nell’Etica Nicomachea, la vita in comune tra esseri umani è cosa ben diversa dalla mera comunanza del pascolo propria degli animali. Nel pascolo, ogni animale mangia per proprio conto e cerca, se gli riesce, di sottrarre cibo agli altri. Nella società umana, invece, il bene di ognuno può essere raggiunto solo con l’opera di tutti e, soprattutto, il bene di ognuno non può essere goduto se non lo è anche dagli altri. Ecco perché il bene comune, che è il bene della città, è superiore al bene dell’individuo. Tommaso sarà ancora più esplicito quando scrive che il “bene comune è più divino perché più simile a Dio che è la causa ultima di tutto il bene”.

La realtà economica possiede, di per sé, capacità coesiva per la communitas christianorum, ma a condizione che gli individui, entro la communitas-mercato, non lascino prevalere l’avarizia e l’egoismo. Quanto a dire che communitas-christianorum e communitas-mercato non sono due realtà scindibili, perché l’una implica l’altra. È da questo convincimento profondo che Bernardino e, più in generale, l’Osservanza partono per la riorganizzazione etico-economica delle città. Furono proprio i francescani dell’Osservanza a progettare e a dare vita a quell’istituzione economico-finanziaria veramente notevole che sono stati i Monti di Pietà, il primo dei quali viene fondato a Perugia nel 1462. Nati con l’obiettivo di arginare il prestito feneratizio e di recuperare entro la comunità la trama di relazioni che l’usura andava distruggendo, i Monti di Pietà si posero a scalzare gli istituti di prestito su pegno privati, assumendo un ruolo di mediatori tra gli interessi delle varie categorie di cittadini: garantire l’accesso al credito dei meno abbienti; andare incontro alle necessità dei mercanti; favorire la creazione di opportunità di investimento per i risparmiatori. Inizialmente, i depositi sono gratuiti, ma poi si arriva fino a una remunerazione intorno al 4%, mentre per gli impieghi si può arrivare a un tasso del 6%. Il differenziale tra tassi attivi e passivi serve a coprire le spese di gestione, assicurando così la sostenibilità nel tempo del Monte.

Il declinare del XVI secolo vede l’inizio della secolarizzazione dell’Occidente e con essa della nascita dello Stato moderno. Dapprima si tratta di un movimento di idee messo in atto dai circoli del Rinascimento, da quello di Salutati a quello di Bessarione dopo il 1453, a quelli dell’accademia ficiniana, portatori di programmi di rinnovamento sia sociale sia economico. Poi, nel secondo Settecento, la secolarizzazione si diffonderà al di fuori dei circoli intellettuali fino a occupare gli spazi e i luoghi in cui si decide dell’esercizio del potere.

Età laicizzante la moderna, ma non contraria alla religione. Con l’umanesimo l’uomo era stato posto al centro dell’universo, mentre la filosofia si era emancipata dall’aristotelismo, auspice il volontarismo francescano con i filosofi nominalisti. William Ockham – il più famoso dei nominalisti – e i suoi allievi, Jean Buridan e Nicolas de Oresme, avevano ormai resa obsoleta la dottrina tomista degli universali mostrandone tutta l’irrilevanza (gli universali designavano le proprietà essenziali delle cose). La conoscenza – sostenevano i nominalisti – va cercata nello studio degli aspetti individuali, empirici delle cose, non già nella loro essenza universale. E mentre la politica con Machiavelli aveva cessato di essere una branca della filosofia morale, per diventare scienza, con la Riforma era la fede stessa che si emancipava dall’autorità costituita – “ognuno sacerdote di se stesso”, come dirà poi Nietzsche. Il Principe viene scritto nel 1513; l’inizio della predicazione di Lutero risale al 1517. Nel trattato Del commercio e dell’usura (1524), Lutero si dice desolato nel constatare che “il male [l’usura] ha fatto progressi enormi e ha preso il sopravvento in tutti i Paesi”. Sposando una concezione rigorista del prestito, scrive: “Scambiare una cosa con qualcuno facendo nel cambio un guadagno, non è compiere opera di carità, è rubare. L’usuraio merita di essere impiccato e chiamo usurai quanti prestano all’interesse del 5 o 6 per cento”. E le nascenti compagnie commerciali sono condannate senza attenuanti: “In esse, tutto è senza fondamento e senza ragione, avendo come fine solo la cupidigia e l’ingiustizia. Se proprio devono esistere le società o compagnie, allora bisogna che scompaiono giustizia e carità; ma se giustizia e onestà devono continuare a esistere, devono scomparire le compagnie”. È a dir poco sorprendente che parole del genere possano essere state dette dall’iniziatore di quell’etica protestante che di lì a un paio di secoli avrebbe costituito – secondo la ricostruzione di Max Weber – la matrice dello spirito capitalistico8.

Il ritorno in scena della città come luogo

Vengo ora al nostro tempo. Perché nell’attuale fase storica le città sono tornate, dopo un lungo periodo di ibernazione, a occupare un ruolo di primo piano ai fini del progresso spirituale, sociale ed economico di un intero Paese?

photo © Scott Webb_Unsplash

La ragione principale è che la globalizzazione ha fatto “risorgere” l’importanza della dimensione locale. Mentre nella stagione precedente era quello nazionale il livello di governo cui fare riferimento, oggi sono i territori i luoghi privilegiati in cui si sperimenta il nuovo e dai quali provengono i più significativi impulsi allo sviluppo.

La globalizzazione dunque non solo non ha fatto scomparire l’importanza del territorio, ma lo ha rilanciato, e ciò nel senso che la gara competitiva oggi si gioca a livello anche dei territori. Mentre in precedenza la competizione riguardava le singole imprese o i singoli gruppi d’impresa, che potevano uscirne vincitori o perdenti, ciò che sta succedendo oggi è che il destino delle imprese è legato a quello del loro territorio. Se un territorio “fallisce”, falliscono anche le imprese che in quel territorio operano e viceversa: il successo di un territorio è legato a doppio filo al successo delle imprese che in esso insistono. Si tratta di un cambiamento di prospettiva che ha colto di sorpresa non pochi, costringendo a un ripensamento radicale delle politiche nazionali che non possono non considerare che è il territorio che funge da attrattore per le attività economiche. Si pensi agli interventi programmati per il Mezzogiorno d’Italia, che si sono rivelati fallimentari proprio perché espressione della convinzione che lo sviluppo del Mezzogiorno dovesse essere pensato e governato dal centro secondo il modello del government. Simili logiche, se potevano avere un qualche senso un tempo, certamente non ne hanno alcuno nell’epoca attuale. Non può essere un livello lontano dai territori a decidere le linee di sviluppo degli stessi. Al contrario, è il livello locale che deve essere posto in grado di riacquisire la capacità di rigenerazione dei territori.

 

Cosa discende dalla presa d’atto che quella dello sviluppo locale rappresenta, nelle condizioni odierne, la via maestra allo sviluppo? Una prima conseguenza ha a che vedere con il modo di governare le città. Dobbiamo superare la concezione tradizionale di governo per muoverci verso quel modello teorizzato da Sabino Cassese e da Gregorio Arena9, noto come modello dell’“amministrazione condivisa”. L’idea di base è che l’ente locale non può più ritenersi l’unico soggetto titolato a governare il processo di sviluppo. Piuttosto, l’ente locale deve coinvolgere in tale processo i cittadini e le organizzazioni della società civile portatrici di cultura. Non è difficile darsi conto delle resistenze cui si va incontro quando si cerca di attuare questo passaggio. Esse sono legate principalmente al fatto che gli amministratori locali non sembrano intenzionati a cedere facilmente quote di sovranità conquistate per via elettorale. Eppure, dopo la sentenza 131 del 20 giugno 2020 della Corte Costituzionale non è più possibile eludere il principio di sussidiarietà quale si materializza nei processi di co-programmazione e di co-progettazione.

L’amministrazione condivisa richiede che siano realizzati dei “patti” tra l’ente locale e le espressioni della società civile non solo e non tanto per gestire, quanto piuttosto per progettare il processo di sviluppo. Tecnicamente questo esige che si faccia ricorso a strumenti nuovi di dialogo, come ad esempio i forum deliberativi, i piani strategici, le fondazioni di sviluppo – un esempio notevole di queste ultime è il Joint Venture Silicon Valley Network. Particolare attenzione merita lo strumento dei forum deliberativi che costituiscono il modo più corretto di realizzazione dell’ideale deliberativo, secondo cui le procedure democratiche attribuiscono ai cittadini il diritto di chiedere una giustificazione pubblica per le decisioni politiche cui sono soggetti. Ed è chiaro che il luogo ideal-tipico per saggiare la validità di esperimenti deliberativi è la città.

Il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni, predisposto da Labsus alcuni anni fa, è a oggi adottato da 233 città italiane e fornisce un quadro di regole chiare sulla cui base sviluppare la cooperazione per la cura dei commons, beni che – come si è scritto – sono beni né privati, né pubblici10. I piani strategici attuati nel corso dell’ultimo quindicennio confermano ad abundantiam che il fattore più importante di successo è stata la governance. Invero, le differenze di performance tra una città e l’altra non sono dovute tanto alla diversa qualità delle analisi tecniche o alla diversità delle risorse messe in campo, quanto piuttosto alla diversa capacità di tradurre in pratica il modello della partnership sociale.

In tutto ciò è chiara la responsabilità oggettiva del mainstream economico che mai – salvo rarissime eccezioni – ha preso in seria considerazione la città come luogo, cioè come civitas. E se ne comprende la ragione. Fin tanto che l’assunto antropologico di base resta quello dell’homo oeconomicus non ci sarà molto da sperare.

 

Se, dunque l’economista “vede” in questo modo, irragionevolmente riduttivo, gli agenti economici si capisce come faccia gran fatica a capire la città, dove invece normalmente nei comportamenti ci sono molte componenti non-strumentali, o espressive. Pensiamo alla partecipazione politica, o alla contribuzione per il finanziamento di beni pubblici, comportamenti questi che se letti attraverso la lente della razionalità strumentale non possono essere compresi appieno. Infatti il soggetto strumentalmente razionale – il fenomeno ampiamente noto con il nome di “free riding” – non dovrebbe né votare né contribuire ai beni pubblici. Non solo, ma molte scelte civili vengono attuate sulla base di un ragionamento non del tipo “quale è il comportamento più vantaggioso per me?”, ma “quale è il migliore per noi?”, per la nostra città, per il mio/
nostro quartiere, gruppo o comunità. È una razionalità del noi che ci porta a rispettare
l’ambiente o a contribuire ai beni pubblici anche quando sarebbe più conveniente non farlo.

Non è ovviamente un caso che i due fenomeni che ho nominato siano al tempo stesso tra i più tipici della vita civile, e tra quelli con i quali gli economisti incontrano i più seri problemi ermeneutici e analitici.

 

Una seconda conseguenza chiama in causa il nesso tra imprenditorialità e territorio. Rileggiamo un brano di Italo Calvino, tratto da Le città invisibili, che bene illustra il concetto di innovatività d’impresa. “Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra. Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede Kublai Kan. Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra – risponde Marco – ma dalla linea dell’arco che esse formano. Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi aggiunge: Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che mi importa. Marco Polo risponde: Senza pietre non c’è arco”.

Innovare significa imporre agli elementi (le pietre) nuove forme e nuovi ordini. Per creare novità occorre pensiero pensante, un pensiero cioè che sappia indicare la direzione di marcia; non basta il pensiero calcolante, che pure è necessario. E occorre anche non avere paura del futuro, non temere che il ponte possa crollare. L’imprenditore vero è un soggetto che si nutre di speranza, che non crede affatto che il futuro sia destabilizzante solo perché non è in nostro possesso.

Siamo entrati, da qualche tempo ormai, in una nuova stagione imprenditoriale, che si caratterizza sia per il rifiuto di un modello fondato sullo sfruttamento della natura e dell’uomo in favore di un modello centrato sul principio di reciprocità, sia per lo sforzo di dare un senso (purpose) all’attività di impresa, la quale non può ridursi a pensare se stessa come mera “macchina da soldi”. Ha scritto David Hevesi sul New York Times del 5 settembre 2008 (papa Francesco non era ancora salito al soglio pontificio!): “Sono triste e offeso per l’idea che le imprese esistano solo per arricchire i proprietari […]. Questo è il meno importante dei compiti che esse assolvono. Esse sono assai più onorevoli e più importanti di ciò”. In verità, un tale pensiero ha origini antiche. Ce lo dice Coluccio Salutati, umanista civile del primo Quattrocento, animatore del Circolo dello Spirito Santo, luogo di incontro e di dibattito tra i dotti fiorentini, quando scrive: “Consacrarsi all’onesta attività economica può essere una cosa santa, più santa che non vivere in ozio nella solitudine, poiché la santità raggiunta con una vita rustica giova solo a se stesso, ma la santità della vita operosa innalza l’esistenza di molti” (1437). Quanto a dire che l’agire economico è di per sé votato al bene comune.

Ebbene, è questa la cifra della figura dell’imprenditore civile, di chi cioè si sente parte della civitas. È missione propria dell’imprenditore civile quella di ricordarci che non è sostenibile una società di umani in cui si estingue il senso di fraternità e in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti e, per l’altro verso, ad aumentare i trasferimenti attuati da enti assistenziali di natura pubblica.

La seconda globalizzazione ha fatto rinascere la centralità della città luogo anche economico e sociale. Sono le cosiddette economie di agglomerazione a rendere le città attrattori sempre più credibili delle attività di impresa. Una città bene organizzata – sotto i profili della viabilità, dei servizi di welfare, della logistica ecc. – è oggi uno dei fattori di vantaggio competitivo più rilevanti. Non si dimentichi, infatti, che la nuova competizione riguarda non solo le singole imprese, ma pure il territorio in cui esse sono inserite. È un fatto che le attività produttive ad alto contenuto cognitivo sono, quasi sempre, attività cittadine.

Ciò implica che le “industrie creative” tendano a raggrupparsi attorno a quelle città che sanno offrire opportunità di natura culturale e sociale di alto profilo. Se ne trae che il governo di una “città creativa” non può replicare, sia pur con adattamenti, il governo di una “città imitativa”. Ma non possiamo dimenticare che la città è il luogo primario in cui si forma e si rafforza l’identità culturale di una comunità di persone e nel quale si coltivano quelle virtù civili che sole possono consentire di trasformare il progresso, certamente auspicabile, in sviluppo umano integrale. Il governo di una “città virtuosa” (e non solo creativa), allora, non può limitarsi a gestire l’esistente, né può accontentarsi di realizzare miglioramenti di tipo incrementale su vari fronti.

 

Un pensiero del celebre scrittore inglese di fine Ottocento Gilbert Chesterton descrive bene la distinzione tra imprenditore e manager, quando chiarisce la differenza tra l’atto del costruire e quello del creare. Scrive Chesterton: “Tutta la differenza tra costruzione e creazione è esattamente questa: una cosa costruita si può amare solo dopo che è stata costruita, ma una cosa creata si ama prima di farla esistere”11. L’ imprenditore civile è dunque un creatore in questo preciso senso e non già un mero costruttore.

Sul tema della creatività e del suo rapporto con la civica, ha scritto pagine interessanti Franco Ferrarotti12, che invita a recuperare il senso del luogo, il genius loci, se si vuole le potenzialità presenti nell’individuo (il talento naturale) siano aiutate a svilupparsi, a fiorire.

Una terza conseguenza, infine, concerne il fatto che la città è il luogo privilegiato per la creazione del capitale sociale – di tipo sia bonding sia bridging secondo la celebre distinzione di Robert Putnam – che è il vero motore di ogni processo di sviluppo sostenibile. In un saggio purtroppo poco noto di A. de Tocqueville, Il pauperismo (1835), si legge: “L’uomo civilizzato è… infinitamente più esposto alle vicissitudini del fato che non l’uomo selvaggio. Ciò che al secondo capita di tanto in tanto… al primo può succedere in ogni momento e in circostanze del tutto ordinarie. Con la sfera dei suoi godimenti egli ha allargato anche quella dei suoi bisogni ed espone così un più vasto bersaglio ai colpi dell’avversa fortuna. […] Presso i popoli di elevata civilizzazione, le cose la cui mancanza ha come effetto di generare la miseria sono molteplici; nello stato selvaggio è povero soltanto chi non trova da mangiare”. Ed ecco la proposta, veramente sorprendente considerati i tempi: “Esistono due tipi di beneficenza: la prima induce ogni individuo ad alleviare, a misura delle sue possibilità, il male che si trova alla sua portata. Essa è antica come il mondo… La seconda, meno istintiva, più ragionata, contraddistinta da minore passione ma spesso più efficace, indica la società stessa a occuparsi delle avversità dei suoi membri e a provvedere in modo sistematico all’attenuazione delle loro sofferenze”. Come si vede, è qui anticipato, in termini affatto moderni, l’argomento secondo cui un welfare all’altezza delle sue sfide postula l’intervento di tutta la società per “attenuare le sofferenze” dei cittadini e non solo di una sua parte come può essere la pubblica amministrazione.

Generalizzando un istante, questo implica che lo Stato non può preoccuparsi unicamente di soddisfare il benessere materiale dei cittadini a scapito delle transizioni culturali e religiose, capaci di temperare una libertà altrimenti priva di legami e di favorire la responsabilità dei singoli verso la comunità. Accade così che ci si preoccupi più di progettare i diritti individuali che realizzare l’autogoverno: si allarga la libertà del singolo ma si restringe quella del cittadino, poiché si restringe il “governo di se stessi”. Richard Sennett13, sottolinea come la riflessione sul “nuovo umanesimo” non può essere oggi disgiunta da quella sul nuovo urbanesimo.

La relazione inscindibile tra l’essere persona e il costituire comunità è bene evidenziata da Aristotele quando scrive: “Chi non può entrare a far parte di una comunità, chi non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città, ma è o una bestia o un Dio”14. E conclude: “La città non è una comunità solo per lo spazio che occupa o solo per difendersi da aggressioni o per agevolare gli scambi commerciali. Tutto questo è certo necessario che vi sia perché esiste la città, però anche una volta dato tutto ciò, la città ancora non esiste. La città infatti è una comunità di case e di stirpi nel viver bene, al fine di una vita compiuta e indipendente?”15.

Parole queste più attuali che mai se si considera che il processo globale di inurbamento è in forte sviluppo e l’homo civicus è destinato a crescere dai quattro miliardi attuali a circa sei miliardi e oltre di persone entro il 2050, su una popolazione globale di nove miliardi.
Già oggi il 75% di tutta l’energia consumata nel mondo è utilizzata dagli abitanti della città, che producono l’80% del reddito globale, ma pure tre quarti di emissioni nocive. Alla luce di ciò, si può dire che la difesa del clima comincia dalle città.

Anziché una conclusione

Desidero chiudere con un’annotazione di carattere generale. Sappiamo che ci sono due diversi paradigmi di razionalità utilizzati nelle scienze sociali e in economia in particolare. Il senso del primo paradigma è bene reso dalla celebre storia-metafora di Ulisse e le sirene.

Ulisse desidera ardentemente ascoltare il suono delle sirene; ma sa anche che ciò lo porterebbe alla morte. Adotta allora la strategia che ben sappiamo: si fa legare al palo della nave per non cadere vittima della conseguenza perversa che il canto delle sirene comporta. Quanto a dire che per ascoltare quel canto, e quindi per trarne un vantaggio, Ulisse deve rinunciare, sia pure per breve tempo, alla sua libertà. Infatti, quando si è legati al palo non si può certo dire di essere liberi. Quella di Ulisse è dunque una razionalità di tipo strumentale, perché aiuta a trovare il mezzo più efficace per conseguire un fine, che è buono in sé.

photo © Yiran Ding_Unsplash

L’altro paradigma è quello bene delucidato dalla metafora della storia di Orfeo. Giasone, quando con i suoi argonauti prende la decisione di andare alla ricerca del vello d’oro, si pone il problema se imbarcare o meno Orfeo, a tutti noto per la sua straordinaria bravura nel suono della lira. Non poche sono le difficoltà che Giasone deve affrontare per convincere della decisione i suoi argonauti, che non riescono a comprendere quale mai avrebbe potuto essere il contributo di Orfeo rispetto ai fini della missione. Ma Giasone, che è persona saggia, riesce a vincere la resistenza dei suoi compagni e lo imbarca. Quando la nave arriva in prossimità dell’isola delle sirene, Orfeo comincia a suonare la sua lira e accade che quel suono, unendosi al canto delle sirene, annulla l’effetto devastante di queste ultime. Gli argonauti riescono così a godere del canto delle sirene senza dover rinunciare, neppure temporaneamente, alla loro libertà di movimento. In entrambi i casi si deve parlare di comportamento razionale. Ma la differenza sta in ciò, che mentre la strategia di Orfeo, che attua il principio di reciprocità, tende a unire razionalità e ragionevolezza, la strategia di Ulisse chiama in causa la sola razionalità strumentale. Orfeo riesce così a fare stare insieme efficienza ed efficacia; non così invece Ulisse che si limita alla sola efficienza. Non solo, ma la strategia di Ulisse crea una diseguaglianza, perché ai suoi marinai non è concesso di godere del canto delle sirene16.

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Ebbene, la stagione della modernità – e in particolare il periodo che corrisponde alla piena affermazione della società industriale – è stata caratterizzata dalla dominanza del paradigma della razionalità strumentale nel senso di Ulisse, la cosiddetta razionalità mezzi-fini. La razionalità di Orfeo nota come razionalità espressiva, tuttavia, è più potente di quella di Ulisse perché riesce a rendere compatibili fini diversi, ognuno dei quali dotato di valore. E ci riesce perché non separa la ricerca dell’efficienza dalla pratica della reciprocità. È davvero motivo di soddisfazione sapere che delle due forme di razionalità è quella di Orfeo la forma superiore. È allora bene che chi ha la responsabilità di governo della città mai lo dimentichi, se vuole avere successo.

Una conferma autorevole ci viene da un celebre brano del Costituto di Siena del 1309: “[…]
chi governa deve avere a cuore massimamente la bellezza della città, per cagione di diletto e allegrezza ai forestieri, per onore, prosperità e accrescimento della città dei cittadini”.
Ma la filocalia, cioè l’amore del bello, deve essere diffusa a livello popolare e non ristretta a pochi e chiusi circoli. Alcuni anni dopo, nel 1338 sempre a Siena, Ambrogio Lorenzetti dipinge la Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo. Nella rappresentazione del buon governo appare la città coesa in cui ciascuno è impegnato in attività varie, ma tutte in una relazione di prossimità. È questo, invero, il prerequisito che va soddisfatto se si vuole che la città non sia solamente il luogo in cui si è, ma anche quello in cui si vorrebbe essere.

 

NOTE

1. Per una trattazione originale e stimolante, cfr. S. Bertuglia e F. Vaio, Il fenomeno urbano e la complessità. Concezioni sociologiche, antropologiche ed economiche di un sistema complesso territoriale, Bollati Boringhieri, Torino 2019.

2. E. Glaeser, Triumph of the city, Penguin, New York 2012.

3. E. Severino, Tecnica e architettura, Mimesis, Sesto San Giovanni 2021.

4. D. Farr, Sustainable Nation: Urban Design Patterns for the Future, Wiley, New York 2021.

5. Cicerone, Dei Doveri, II, IV.

6. B. Cotrugli, Libro de l’arte de la Mercatura, edizione critica a cura di V. Ribaldo, Edizioni Cà Foscari, Venezia 2016.

7. F. Bruni, La città divisa, il Mulino, Bologna 2003.

8. Per approfondire i temi qui accennati, rinvio a L. Bruni, P. Santori, S. Zamagni, Lezioni di Storia del pensiero economico. Dall’antichità al Novecento, Città Nuova, Roma 2021.

9. G. Arena, Cittadini attivi, Laterza, Bari 2006.

10. Si veda E. Granata, L’Italia del quarto d’ora. Ripensare i ritmi a partire dalle città medie, in Il Mulino, 4, 2020, pp. 639-646.

11. G. Chesterton, Prefazione, in C. Dickens, Il Circolo Pickwick.

12. F. Ferrarotti, Appunti intorno al genius loci e alla creatività, in M.C. Federici et al. (a cura di), Creatività e crisi della Comunità locale, F. Angeli, Milano 2021.

13. R. Sennet, Costruire e abitare, Etica per la Città, Feltrinelli, Milano 2018.

14. Aristotele, Politica, I, 1253 a, pp. 25-29.

15. Aristotele, Politica, III, 9, 1280, pp. 30-35.

16. E. Granata, cit., difende l’idea del passaggio dalla “smart city” alla “care city”, la città della cura.

 

Stefano Zamagni è un economista e accademico italiano, dal 2019 Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. I suoi interessi sono molteplici e comprendono: conomia del benessere, teoria del comportamento dei consumatori, teoria della scelta sociale, epistemologia economica, etica, storia del pensiero economico ed economia civile.

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