Un luogo spropositato di 27 milioni di abitanti e l’impresa fallimentare di chiuderla in griglie interpretative occidentali. La fotografia, emotiva e razionale, di chi l’ha vissuta per cinque anni. Un corpo a corpo quotidiano con una realtà sconfinata e sempre in costruzione. Shangai, pur frenetica e in perenne movimento nel suo reticolo attorcigliato intorno alla funzionale rete di trasporti, viene percepita come una realtà assai tranquilla da vivere. Con le sue bellezze architettoniche e gli ampi spazi verdi. E un inquinamento fuori controllo. Contraddizioni di una Cina contraddittoria.
Senza dubbio alcuno, se dovessi riportare una delle sensazioni più affascinanti e destabilizzanti della permanenza quinquennale mia e di mio marito nella città di Shanghai, mi riferirei alla profonda messa in crisi di una certa prospettiva fissa sulle cose, bagaglio culturale d’Occidente, con il quale siamo atterrati all’aeroporto di Pudong nel 2016.
Arrivati in Cina, in una megalopoli di 27 milioni di abitanti, abbiamo subito compreso che le nostre griglie interpretative e la nostra naturale propensione a trovare un principio di intellegibilità per fronteggiare il “diversissimo” umano e urbano che ci si mostrava davanti, sarebbe stata un’impresa fallimentare. Districare questa fittissima matassa era però una questione di sopravvivenza, tanto più necessaria in quanto ad accompagnarci in questa nuova avventura c’erano le nostre bambine, ancora piccole, che avevamo appena sradicato da un ambiente familiare e rassicurante. Per tutto il primo anno, e per la prima volta nella mia vita, ho provato un’intensa sensazione di malessere nei confronti di tutto ciò che, a Shanghai, mi circondava. A partire dall’aria che respiravamo. Nel 2016, nonostante la comunità di stranieri già residenti da anni sul territorio ci avesse descritto una situazione molto migliorata, il livello di inquinamento della città era per me spaventoso e intollerabile. Coltre simile a nebbia nei giorni peggiori, in particolare nel periodo invernale, con valori massimi di PM 2.5 oltre i 400. Per contrastare questi folli livelli di inquinamento, intere famiglie di espatriati si erano munite di purificatori per l’aria da tenere accesi all’interno delle abitazioni tutto il giorno e di mascherine con valvole per proteggersi all’esterno nei giorni peggiori. Quando il livello di contaminazione dell’aria superava una certa soglia era consigliato rimanere in casa, e questo aspetto quotidiano della vita a Shanghai era per me durissimo da accettare. Secondo: l’acqua. All’inquinamento dell’aria si aggiungeva quello dell’acqua, per cui era vietatissimo bere da qualsiasi fonte che non fosse una bottiglia di plastica importata. Ovviamente qualche domanda sul livello di inquinamento del terreno, e di conseguenza della frutta e della verdura che si comprava tutti i giorni, era lecito porsela.
L’imperativo del business
La sensazione era quella di vivere in una città velenosa e pericolosa per la salute nostra e, soprattutto, per quella delle nostre figlie. Il senso di spaesamento nel 2016 era legato alla repentina cancellazione di tutti i nostri punti di riferimento: acquisizioni date per scontate in madrepatria ci si sgretolavano inesorabilmente davanti agli occhi, principi elementari di igiene e di sicurezza alimentare venivano disillusi ogni giorno. Al loro posto – in uno scenario simultaneamente post-atomico, iper-futuristico, ma anche arretrato e poverissimo – subentrava prepotentemente l’elemento cardine della vita della città: il business. Il nuovo imperativo che ci si stava profilando davanti, chiave di lettura di questa nuova realtà, era uno scandalosamente spinto concetto di “commercio a qualsiasi costo”, basato su regole del gioco fluide e aliene al nostro mondo. L’orizzonte di “non pensabilità” di questa nuova realtà, ovvero l’impossibilità di catalogare secondo regole a noi note l’organizzazione fluttuante delle persone e delle cose che ci si srotolava davanti, è stato il primo aspetto che ha scombussolato per sempre il nostro rassicurante ordine disciplinato.
Non solo. Elemento ancora più inquietante, la potenza e peculiarità di questo nuovo assetto non si è mai piegata ad alcuna sintetizzazione o riconciliazione attraverso categorie conoscitive a noi note. Una volta compreso che, per la popolazione locale, non solo i limiti di validità delle nostre progettazioni occidentali, fatte di regole ferree e condivise, non erano la verità assoluta e che, anzi, il nostro vivere fatto di arrangiamenti a priori e certezze eterne rappresentava solo un falso storico di fronte alla Nuova Storia che il Paese stava disegnando, la nostra vita a Shanghai è iniziata davvero. Disinseriti i nostri freni culturali, ci siamo avventurati in un mondo sconosciuto dalle potenzialità infinite, a tratti molto più semplice e fruibile del nostro, ma per sua natura inafferrabile e a noi inesorabilmente precluso.
La vivibilità smart: pregi e incognite
A un primo impatto, prima di poterne cogliere la bellezza architettonica, il reticolo urbano di Shanghai appare come un’attorcigliata rete di trasporto e consegna di qualsiasi tipo di merce.
La fiumana di indaffarati trasportatori in motorino elettrico, pericolosamente silenzioso, si accalca disegnando movimenti simili a sciami di api. I trasportatori sherpa gestiscono il circuito alimentare e consegnano il cibo pronto per essere consumato, i kuadi qualsiasi altra cosa. Ciò che anima questo incessante andirivieni di mezzi è la domanda e l’offerta di milioni di cinesi che comunicano all’interno di un mercato virtuale, esclusivamente attraverso i loro telefoni cellulari, 24 ore su 24, 7 giorni su 7.
Le piattaforme di e-commerce sono molteplici, ma la più importante e diabolica è sicuramente Taobao, gestito da Alibaba group. Su Taobao si trova tutto il regno del desiderabile materiale: dallo scialle di cachemire fatto a mano nella regione dello Yunnan, alle copie contraffatte di qualsiasi prodotto (abbigliamento, scarpe, borse, accessori), al cibo importato, al tavolo in marmo fatto su misura da artigiani locali, agli animali vivi.
Per un occidentale è impensabile che possa esistere un luogo virtuale di questo tipo, dove, senza vincoli di copyright e limiti alla fantasia, si possa comprare qualsiasi cosa, e, soprattutto, la si possa ricevere a casa alla velocità della luce. La rapidità con cui avvengono questi scambi commerciali è folle, e tutte le operazioni si svolgono attraverso messaggi e pagamenti dal proprio smartphone, in qualsiasi momento, da qualsiasi posto.
In effetti, non si può pensare di afferrare l’essenza della realtà quotidiana a Shanghai senza considerare il ruolo del telefonino e delle applicazioni che servono per navigare e decifrare la città. La possibilità, introdotta nell’ultimo periodo della nostra permanenza, di tradurre i messaggi dal cinese all’inglese e viceversa attraverso l’applicazione WeChat – un analogo super potenziato del nostro WhatsApp – ha accelerato qualsiasi tipo di comunicazione. Sempre attraverso WeChat, o mediante QR code con il circuito Alipay, in tutta la Cina è oggi possibile effettuare qualsiasi tipo di pagamento dal proprio smartphone: transazioni da persona a persona, inclusa l’elemosina al mendicante, così come cene al ristorante, acquisti nei negozi, biglietti aerei e bollette della luce. Inutile dire quanto la possibilità di effettuare tutti i tipi di pagamenti dal proprio telefono semplifichi la vita e riduca i tempi di attesa (che per i miliardi di cinesi sarebbero impossibili e paralizzanti). Anche la possibilità di spostamento all’interno della città può essere gestita attraverso un’applicazione, chiamata DiDi. Dovunque ci si trovi, mediante geolocalizzazione dell’app, è possibile contattare un mezzo privato, sia esso un taxi, una macchina a sei posti o addirittura una limousine, inserire direttamente l’indirizzo di destinazione e conoscere anticipatamente il costo della corsa sulla base della distanza da percorrere. La vivibilità “smart” della città ha innumerevoli pregi e una grandissima incognita.
Vivere ogni spazio al massimo del suo potenziale
La possibilità di svolgere simultaneamente più operazioni e di organizzare la propria vita attraverso il telefono rappresenta un assaggio di futuro ipertecnologico, ma il contraltare di questo lusso è il potenziale controllo su tutte le informazioni che riguardano la vita di un individuo. Se per la popolazione cinese questo aspetto è parte implicita del patto che ha stipulato con il proprio governo, per cui le proprie vite vengono affidate a un sistema che, di contro, deve garantire loro un certo sviluppo e tenore di vita, per noi in Occidente le cose sono ancora molto diverse. Nella nostra parte di mondo la privacy ha ancora un valore sacro. Queste visioni contrapposte collidono e risaltano soprattutto nella condivisione degli spazi e nelle relazioni quotidiane con gli abitanti. Milioni di cinesi affollano strade e metropolitane, ridisegnando le regole prossemiche d’Occidente, invadendo spazi che a noi sembravano destinati alla quiete di una certa intimità. La popolazione cinese è abituata a convivere con l’enorme massa di impatto umano che rappresenta, quindi occupa e vive ogni spazio al massimo delle sue potenzialità. Per salire in metropolitana, ad esempio, bisogna abituarsi a subire costanti pressioni e spinte, perché a nessun cinese verrà mai in mente che può lasciare un piccolo spazio davanti o dietro a sé per la pura comodità del prossimo. Lo stesso vale per qualsiasi fila si formi in uno spazio pubblico, per mangiare, per comprare qualcosa, tutti si abbandonano al lento movimento ritmico dell’avvicinarsi il più possibile l’uno all’altro. La non osservanza delle distanze interpersonali, che per noi occidentali è di rilevanza assoluta, favorisce fin da subito una riflessione sulle regole della convivenza e un repentino ripensamento del concetto di buone maniere.
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Purtroppo alcuni usi molto diffusi a Shanghai sono difficili da assimilare, specialmente perché colgono sempre alla sprovvista. Espettorare le secrezioni, in maniera anche molto rumorosa, o esplorare i meandri del proprio naso, sono attività considerate fondamentali al fine di una corretta respirazione. Per chi è abituato ad altre regole di coabitazione dello spazio pubblico, sia esso un marciapiede, un museo o un mercato, queste pratiche sono facilmente inquadrabili come mancanza di rispetto nei confronti dell’altro.
Tuttavia, a Shanghai si impara molto presto che “l’altro” come lo intendiamo “noi” in Occidente, non esiste. E non si tratta solo di spazi interpersonali o buona educazione. Con il passare del tempo, qualcosa di estremamente più profondo viene alla luce. È lo spazio inalienabile del singolo, come soggetto di diritti, come spazio di espressione della libertà personale, della creatività soggettiva, a non sussistere alla maniera occidentale.
Tutto a Shanghai è sotto controllo: le telecamere sono istallate ovunque, le conversazioni all’interno dei taxi possono essere registrate, i messaggi privati su una chat possono essere esaminati. Aleggia una cappa asfissiante di sorveglianza, a opera (strategicamente) non si sa mai bene di chi e con quale scopo. Questo sistema capillare di controllo, indefinibile per contorni e profondità, agisce efficacemente per far rigare tutti dritti e i numerosi racconti di locali e stranieri andati incontro a pene severissime od oscure e inappellabili sentenze di condanna, funzionano alla perfezione come deterrenti.
Per un occidentale medio, questa logica del “sorvegliare e punire” risulta non solo inconcepibile, ma psicologicamente avvilente. Questo soprattutto in virtù dell’impossibilità di fissare, con la controparte locale, i contorni dei concetti di “vero” e “falso”. Con il passare del tempo ci si pacifica mentalmente con questa assenza di libertà personale, e con la pericolosa incertezza giuridica che ne deriva, con un pensiero un po’ bieco (spiatemi pure, non ho niente da nascondere) e con un valore ben più importante: l’estrema sicurezza della città. Shanghai è, al contrario della maggior parte delle metropoli occidentali, una città estremamente tranquilla da vivere, e questo aspetto favorisce il desiderio di scoprirla e lasciarsi conquistare dalla sua meravigliosa imprevedibilità, antropologica e urbana.
L’indole della popolazione è estremamente pacata, nonostante l’altissimo tono di voce adottato negli scambi comunicativi quotidiani faccia supporre il contrario. Nelle relazioni con le persone locali sbalordisce l’impossibilità di condividere un sistema di significati comuni, per cui, giorno dopo giorno, occorre sempre rinegoziare qualsiasi sfumatura, partendo da un “nucleo zero” di senso, necessariamente elementare. L’atteggiamento calmo e inconsapevole dei singoli individui è talvolta disarmante, e questo affranca l’occidentale medio (anche se non sempre) dal suo iper-aggressivo registro volitivo. A Shanghai si comprende che sfogare la propria rabbia verso il prossimo o verso le cose che non funzionano alla “nostra” maniera è una pura perdita di tempo. La sfida che la città lancia al nostro orizzonte di pensiero è una nuova e preziosissima percezione del tempo e del senso degli eventi, che cessano improvvisamente di essere inquadrati nella dicotomia “si”/“no”, “bianco” o “nero”, per liberarsi invece in un continuum dove fluttuano sospesi.
A Shanghai è possibile abitare magicamente un corso nuovo delle cose, dove lo strumento intellettivo giudicante, inebriandosi, cessa di attecchire, lasciando spazio all’indefinito e all’imprevedibile. La città è una risorsa infinita di scoperte: si estende su una superficie amplissima, e le zone da visitare sono molte e diverse l’una dall’altra. C’è il Bund, Wall Street d’Oriente, con la sua passeggiata sul lungofiume Huangpu, e i suoi ristoranti lussuosi con vista sullo Skyline. C’è l’ex Concessione francese, con i suoi bellissimi viali alberati, le case basse e le piccole boutique, uno dei pochi luoghi dove è ancora possibile scorgere tracce della Shanghai del XIX e XX secolo. C’è la old town di Zhujiajiao, che con i suoi canali ti trasporta fuori dal tempo e la futuristica Century Avenue, con l’Oriental Pearl tower, simbolo della Shangai contemporanea. Ogni giro nella città si rivela sempre un’immersione unica e irripetibile.
Sempre in trasformazione
Questo perché, giorno per giorno, anno per anno, tutto si trasforma a una velocità impressionante. Per questo risulta azzardato affermare di conoscere la città. Si può invece sostenere, dopo un tempo ragionevole, di riuscire finalmente a inquadrarne il fare e disfare incessante, e ammettere la meraviglia di essersi sentiti privi di bussola, trasportati da un ritmo sconosciuto, in un flusso caleidoscopico di rappresentazioni provvisorie.
A ripensarla oggi, l’esperienza di vita in Cina è stato l’esercizio (mentale e fisico) più entusiasmante che mi sia mai capitato di fare. È difficile trovare oggi nel mondo un popolo tanto alieno. La diversità è tale che non solo provoca un profondo stordimento, ma favorisce, grazie all’annientamento di qualsiasi velleità etnocentrica occidentale, una rilettura critica della propria parte di mondo, che appare, improvvisamente, meno sensata e perfetta di prima. Ma è proprio nello spazio di questa stessa destrutturazione che simultaneamente emergono anche le acquisizioni più grandi e importanti che, del nostro mondo, fanno parte. Vivere a Shanghai ha significato – almeno per me – non pacificarsi mai all’interno una dicotomia inconciliabile, esistere in un mondo nuovo e ripensare quello da cui si proviene. In Cina ci siamo abituati a vivere in uno stato di incertezza più elevato di quanto non accadesse nella nostra parte di mondo. Ma non è stato solo questo. C’è un aspetto di fondamentale importanza che si comprende solo quando è possibile osservarlo da un certo orizzonte temporale.
Vivere a Shanghai significa abitare una metamorfosi continua, osservabile e palpabile quotidianamente. Per questo motivo risulta nocivo per la propria salute mentale, e riduttivo della realtà, pensare in termini assoluti; conviene piuttosto sospendere il giudizio e accogliere con stupore questa mutazione continua.
A partire dal flusso di informazioni che arrivano e si elaborano giorno per giorno, fino alla conformazione di un certo spazio urbano, alla gestione degli spazi verdi, alla mobilità, tutto a Shanghai sembra far parte di una rappresentazione che si rinnova incessantemente. L’estetica delle configurazioni, che può rivelarsi meravigliosa oppure orrenda, sollecita costantemente la curiosità e stimola una forma precaria e temporanea di partecipazione. Lo spazio pubblico, più che abitato e condiviso, viene attraversato e consumato nell’immediatezza della sua nuova forma. La possibilità di affezionarsi a un luogo, e di riscoprire in esso un certo senso di familiarità, è limitata. Aleggia sempre un senso straniante di cancellazione dello spazio emozionale legato ai luoghi della città. Forse perché per propria natura imprevedibili, e possibili detonatori di azioni contrarie alle regole, le emozioni, specie quelle più intime, devono essere tenute sotto controllo o addirittura nascoste. Al contrario, il focus dev’essere mantenuto sulla fruibilità effimera delle cose; Shanghai è un’officina infinita di esperienze estemporanee. La chiave di lettura di ciascuna nuova rappresentazione, la trasformazione repentina di un nuovo spazio nella città, sia essa un nuovo shopping mall, un nuovo grattacielo, o l’apertura di un ristorante stellato, ma anche la riorganizzazione estetica del verde, va riletta alla luce di un messaggio di benessere e ricchezza indirizzato ai propri abitanti.
La popolazione viene così guidata nella fruizione della propria prosperità economica e invitata a godere dei beni originati nel resto del mondo, senza muoversi dai propri confini e senza stravolgere gli usi e i costumi autoctoni.
Del nostro mondo ai cinesi non interessano le etichette comportamentali, i valori morali e gli slanci empatici; i diritti umani vengono considerati delle debolezze. Del nostro mondo interessano i prodotti, specie lussuosi, come parte di un catalogo di “cose” che si possono possedere grazie all’elevatissimo benessere economico. L’utilizzo che, di queste “cose”, i cinesi fanno, rimane sempre legato a una prospettiva metamorfica. La percezione è che affermino se stessi nei beni materiali del mondo senza addentrarsi in nessun significato, senza abbracciarne mai le regole d’uso.
Per noi occidentali, questo esercizio infinito di possesso materiale con il tempo risulta un po’ sterile, a tratti riduttivo, sicuramente alienante. Per questo motivo, io ritengo che una delle condizioni per poter apprezzare davvero Shanghai sia la certezza di potersene allontanare. Nel corso dei nostri cinque anni di permanenza, un elemento imprescindibile per il nostro equilibrio mentale è stato quello di sapere di poter sempre evadere da questa “organizzazione delle cose” per poterci rispecchiare nuovamente in forme di significato e orizzonti etici a noi più affini. I Paesi asiatici limitrofi che abbiamo visitato negli anni ci hanno permesso temporaneamente di scendere da questa giostra velocissima, riprendere fiato, e, al rientro, vivere meglio la Cina.
Tuttavia, questo nostro equilibrio, così come le nostre elaborate strategie di sopravvivenza, hanno subito una profonda trasformazione a ridosso delle festività per il Capodanno Cinese 2020, anno del Topo. L’annuncio di una nuova forma di SARS, con epicentro a Wuhan, ha cominciato a diffondersi nelle chat locali e in quelle degli espatriati già nel mese di dicembre 2019. L’enorme distanza chilometrica tra questa città e Shanghai sembrava rappresentare per noi ancora una solida barriera geografica al contagio. Non avevamo capito nulla. In brevissimo tempo la rete di sorveglianza epidemiologica internazionale ci ha tolto qualsiasi dubbio, e la pericolosità di questa nuova forma di virus si è insinuata in maniera terrificante nelle nostre menti, sfondando qualsiasi argine di protezione. Grazie ai nostri VPN (virtual private network) installati sugli smartphones, abbiamo potuto aggirare i blocchi sull’informazione operati dalla censura locale e controllare i dati relativi ai numeri di nuovi casi in Cina. Dato il ritmo incalzante con cui la curva saliva, abbiamo deciso di riparare nella vicina Thailandia per un paio di settimane, e poi di rientrare in Italia. Lo scoppio della pandemia ha rappresentato l’evento che ha cambiato per sempre la mia relazione intellettiva ed emotiva con la città. Shanghai ha gestito in maniera ineccepibile il contenimento del virus, e questo, ça va sans dire, è stato possibile grazie alla rete di controllo capillare operata sui suoi abitanti. Il lockdown è stato spietato e, per tutto il periodo stabilito dalle autorità, in città non si è mossa una foglia. I risultati sono stati grandiosi e quando, nel marzo 2020, siamo rientrati in Cina, non ci sembrava vero di poter condurre una vita normale, poter mandare le nostre figlie a scuola e vedere i nostri amici. Ma il prezzo da pagare per il raggiungimento di questa tranquillità è stato altissimo, specialmente per noi stranieri. Improvvisamente, e in maniera ancora più nitida, abbiamo percepito una nuova frontiera della distanza tra “noi” e gli “altri”. Abbiamo toccato con mano cosa significava dover abdicare al nostro essere, individuale o familiare, ai diritti così assodati nella nostra parte di mondo, al nostro sistema di valori.
photo © Christie Kim_Unsplash
Il Paese, con la pandemia, si era chiuso al resto del mondo, e con esso si erano chiusi tutti i canali, anche diplomatici, con il Nostro Mondo. Noi eravamo dentro, al sicuro dal virus, ma assimilati a un feroce sistema locale di controllo e impossibilitati a muoverci liberamente, pena l’abbandono della nostra vita in Cina. Molte famiglie si sono ritrovate spezzate, con coppie separate in continenti diversi, e minori affidati a un solo genitore, senza possibilità di ricongiungersi. Altri hanno dovuto celebrare i funerali dei propri parenti morti in Europa via Skype. Così, improvvisamente, lo spazio occidentale del nostro “essere umani”, i nostri valori affettivi, fino alle intoccabili questioni di vita o di morte, hanno perso la loro forza ontologica. Ed è proprio qui, di fronte alla scotomizzazione della sofferenza profonda degli individui e all’impossibilità di condividere un “sistema umano” fatto di significati condivisi, di assunzioni di responsabilità, o di ricerca di una verità riconciliante per il bene di tutti, che ho compreso la mia stonatura più profonda verso il Paese. Per questo, per quanto sollecitati dal “diversissimo” da noi, quando è giunto il momento di lasciare definitivamente Shanghai, non abbiamo provato dispiacere all’idea di abbandonare una routine fatta di effimere esperienze materiali.
Ancora meno ci è dispiaciuto abbandonare il compromesso quotidiano che aveva ormai reso il nostro pensiero sulle cose farraginoso e censurato nella sua autenticità. Ci ha provocato dolore lasciare le persone con cui abbiamo avuto un autentico scambio umano, nei tempi e negli spazi che Shanghai ci ha regalato, donandoci pace, e facendoci sentire, per un momento, in una nuova casa.
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