Trimestrale di cultura civile

Le periferie tra forme urbane e forme di vita

  • GEN 2022
  • Renato Capozzi
  • Felice Iovinella

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La città dei mille colori per quella che è, tra realizzazioni mantenute e promesse disattese. Un costruire quartieri che doveva favorire la nascita di insediamenti residenziali pubblici in relazione con la natura e la campagna. Ma la presenza di alcune eccellenze non è riuscita a coprire il vistoso fallimento di operazioni attese. Dunque, nei quartieri sono emersi piani di vita abitativa dagli esiti opposti. Tra felicità e infelicità. Tra insorgenze di comunità e fratture perlomeno borderline. Tuttavia, nei luoghi più difficili, sono nate “dal basso” storie che ridisegnano un’architettura di relazione. Tentativi di città urbana. Ovvero: umana.

Forme urbane

di Renato Capozzi

Napoli è una città singolare, la sua storia è millenaria, come le sue contraddizioni. A partire dal primo dopoguerra con il Piano della grande Napoli di Francesco Saverio Nitti che le fa inglobare i casali agricoli a est, a nord e a ovest, la città si espande in tutte le direzioni, e poi per tutta la seconda metà del Novecento la città delira determinando, con caratteri diversi, le sue periferie.

Periferie e non un’unica periferia perché, in una città costretta tra la geografia delle colline e il mare, le forme insediative mutano, si diversificano per posizione e struttura, stabiliscono con quel centro, attorno a cui gravitano come una “corona di spine”, relazioni inedite e definiscono modi diversi dell’abitare.

Le periferie più interne, nate in relazione ai primi insediamenti di edilizia residenziale pubblica, rappresentarono, in una rinnovata relazione con la natura e la campagna, una promessa di felicità, spesso smentita e tradita, di un moderno e più salubre modo di abitare per le masse popolari espulse dal centro e per quelle lavoratrici ex agricole da poco inurbate. La stagione dei così detti “quartieri d’autore” a opera dei migliori architetti del moderno – da Luigi Cosenza a Marcello Canino, da Carlo Cocchia a Giulio De Luca, sino a Mario Fiorentino – lascia sul terreno rilevanti ipotesi di città, alcune riuscitissime, altre riuscite, altre fallite. Si pensi, tra le esperienze eccellenti, alle case per senza tetto di Cosenza a Fuorigrotta o al quartiere Soccavo Canzanella di Fiorentino, tra quelle riuscite alle case di Via Gemito o ad alcune parti del rione Traiano di Canino o “La Loggetta” di Cocchia e De Luca, oppure, tra quelle fallite, al quartiere di Barra o il Rione Cesare Battisti entrambi di Cosenza. Condizioni, principi insediativi e periferie diverse, con qualità dei progettisti indiscutibili a fronte di esiti che appaiono diametralmente opposti. Architetture di qualità con un gradiente di accettazione sociale profondamente variegato in cui la bellezza non sempre riesce a far sì che quelle “forme riuscite” siano capaci di rendere la vita e il rispecchiamento dei suoi abitanti “felice”.

Molte le ragioni che meriterebbero un’indagine socio-antropologica, ma alcune sono riferibili alle adeguatezze delle forme urbane. Il fatto che il quartiere di Barra, un’unità d’insediamento conforme, fosse stato realizzato solo per la parte residenziale e per nulla per i pur previsti servizi di comunità e le attrezzature o che al Cesare Battisti uno schematismo insediativo abbia di fatto prodotto un cannibalismo sulle architetture d’indiscussa qualità, come nelle avanguardistiche linee di Di Salvo, racconta di come un principio basato solo sulla ripetizione isonoma di edifici e un corretto assetto tipologico privo di gerarchie e luoghi rappresentativi sia destinato fatalmente a fallire.

A questa stagione seguirà, dopo il CEP Traiano – l’ultimo tentativo per la costruzione di unità satelliti autosufficienti sull’esempio delle New Towns inglesi – l’esperienza dei grandi e ipertrofici insediamenti ex Legge 167 e degli interventi fuori misura a seguito della Legge 219/80 del post-terremoto, che determineranno condizioni insediative e dell’abitare devastanti.

Le sperimentazioni formali, pur se proposte da architetti di riconosciuto valore come Francesco Di Salvo per le Vele di Scampia o Pietro Barucci per l’unità residenziale a San Giovanni a Teduccio, produrranno condizioni abitative inaccettabili congiunte all’assoluta mancanza di mixité economica e sociale degli abitanti spesso provenienti dai centri storici dei casali o, per le frequenti occupazioni, riferibili a un disperato sottoproletariato urbano senza futuro.

Se questi interventi rederanno insostenibili le aree a corona della città, nei comuni di cintura, “dietro le colline”, nella sterminata conurbazione napoletana oggetto del carico insediativo più forte negli ultimi trent’anni – un vero e proprio “sversatoio” delle contraddizioni non risolte della città centrale (dalla carenza di alloggi ai rifiuti) con un crescente e preoccupante consumo di suolo, con un carico infrastrutturale spesso inammissibile, con una assoluta mancanza di armature urbane e di servizi superiori e rari, di attività produttive sostenibili, di necessarie nuove centralità alla scala metropolitana (le uniche in grado di contrastare la condizione peri-pherica), di corridoi ecologici o di aree agricole sottratte alla speculazione – la condizione di marginalità diviene drammatica. In queste aree, si pensi ad esempio ai comuni a nord di Napoli, come Giugliano, Caivano, Calvizzano, Villaricca, gli insediamenti di ERP anziché rappresentare un antemurale o una possibile risposta alla speculazione o alla dissennata e selvaggia, spesso abusiva, proliferazione delle villette divengono, come nel caso del Parco Verde a Caivano (che di seguito si tratterà), dei luoghi indegni dell’abitare: disperanti moltiplicatori e attrattori della marginalità, centri propulsori della segregazione, teatro e rifugio della delinquenza organizzata che, come a San Giovanni, li elegge a vere e proprie roccaforti. La storia recente delle utopie macrostrutturali e delle ulteriori degenerazioni periurbane dei comuni di cintura, congiunte all’assenza cronica di chiare strategie per la città metropolitana, costruita non a partire da una definizione morfologica ma solo amministrativa, rende le periferie napoletane – a volte riuscite, spesso incomplete e molto spesso sbagliate – la patente dimostrazione che l’architettura, che resta marxianamente una sovrastruttura, e la bellezza di cui è senz’altro capace, non riesce da sola a donare la felicità, pur contribuendo certamente a realizzarla o a favorirne le condizioni di possibilità.

Nelle periferie di Napoli, agli insediamenti adeguati e misurati e alle belle architetture, bisogna associare rinnovate iniziative politico-economiche di ampio respiro e lungimiranza ma anche, e con costanza, rilevanti ed esemplari esperienze di sostegno e di “aiuto alle vite” di coloro che quella bellezza non l’hanno mai neppure intravista o che addirittura della sua assoluta mancanza sono state vittime quando avrebbero potuto, “assieme” alla bellezza e non solo “con” la bellezza, trovare finalmente riscatto ed emancipazione.

All’interrogazione finale di Fëdor Dostoevskij “Quale bellezza salverà il mondo?” si dovrebbe sempre rispondere: quella che legherà le forme alla vita.
 

 

photo © Alberto Barbarisi_Unsplash

 

Esperienze in periferia

di Felice Iovinella

In un recente intervento, Gianluca Guida, direttore dell’IPM di Nisida, ha avuto modo di testimoniare che a Napoli convivono due filoni culturali paralleli e non comunicanti tra loro, ognuno con i propri codici di linguaggio. Quello che manca è una cerniera che unisca questi due mondi diametralmente opposti per modalità di vita, valori e intenti. Spesso la divisione non è solo territoriale, con una convivenza di luoghi e di spazi, ma diviene un’infinita separazione d’intenti. Nel quadro urbanistico e architettonico sopra tracciato ove le periferie divengono una “corona di spine” che cinge la città consolidata, si vogliono riportare tre esperienze in tre luoghi di periferia, che raccontano di tentativi che, partendo “dal basso”, cercano con tutti i mezzi a disposizione di testimoniare una voglia di rilancio e di dialogo con quelle istituzioni, che invece – nel calare “dall’alto” le pur buone iniziative –, lavorano sempre “per” e mai “con”.

Nel quartiere di Scampia, tristemente noto grazie al film e alla serie Gomorra, da tantissimi anni il maestro di judo Gianni Maddaloni tenta di sottrarre i ragazzi agli artigli della criminalità organizzata educandoli alla disciplina sportiva. Alla sempre più crescente richiesta delle famiglie di partecipare alle attività comunitarie fa da contraltare la cronica mancanza di spazi per accogliere i giovani del quartiere. Nel 2000 con la dismissione della caserma Boscariello si realizza un impenetrabile “perimetro grigio” affacciato su un ricambio auto e animato solo da una fermata dell’autobus. Molte proposte e progetti ma, come accade spesso in politica, rimasti sulla carta: nuovo stadio della città di Napoli, Cittadella dell’artigianato, Campo rom per ospitare gli sfrattati dal campo abusivo di via cupa Perillo, Cittadella della sicurezza, Cittadella dello sport, etc. Progetti, rendering, video, consulenti ma nulla di concreto.

Nel 2013 l’unico a credere veramente alla realizzazione di “qualcosa” per i ragazzi del quartiere è proprio Gianni Maddaloni: si adopera per riunire attorno allo stesso tavolo Coni, Ministero della Difesa, Ministero dell’Interno e Agenzia del Demanio. Quattro anni dopo viene sottoscritto un Protocollo d’intesa secondo il quale parte dell’area sarà destinata alla realizzazione della Cittadella della sicurezza e parte, invece, ospiterà le attività del “Progetto Scampia” caratterizzato da una forte valenza sociale.

Sembrerebbe tutto risolto e che il traguardo sia a portata di mano ma per le difficoltà burocratiche sono stati mossi ben pochi passi. Intanto il maestro Maddaloni continua a girare per le scuole dei quartieri a rischio, a parlare ai bambini che in quelle realtà dimenticate sono “già grandi”. Nel 2000 per seguire il figlio alle Olimpiadi Gianni è costretto a vendere la moto appena comprata e, quando gli hanno chiesto se si aspettava la vittoria del figlio, lui ha risposto che nello sport non si può esser sicuri, ma ci si può allenare e prepararsi al meglio. E lui continua a farlo e a proporlo ai ragazzi del quartiere che considera tutti “figli suoi”.

 

Il Parco Verde di Caivano è un insediamento nato negli anni post-terremoto con la Legge 219/81, con lo scopo di ospitare, per lo più, sfollati della città di Napoli, con la promessa di un quartiere pieno di verde, che dopo oltre quarant’anni, di verde ha solo il colore delle facciate delle “stecche” di abitazioni collettive.

È l’epicentro della “Terra dei Fuochi”, alla ribalta nazionale per essere tra le piazze di spaccio più grandi d’Europa e per la crescita esponenziale di tumori per il continuo appiccamento di roghi tossici e l’inquinamento delle falde freatiche.

Don Maurizio Patriciello, parroco del quartiere e Bruno Mazza – un giovane che è stato in carcere poiché “preferito” di uno dei boss della zona, e oggi anima dell’Associazione “Un’infanzia da vivere” – tentano di far rivivere dignitosamente questo luogo in cui le organizzazioni criminose endemiche esercitano un forte richiamo sui più giovani, particolarmente suscettibili alle lusinghe alla radice dei fenomeni di devianza. Negli anni Bruno ha ottenuto dal Comune alcuni locali per ospitare un consultorio familiare e, grazie alla collaborazione di tanti genitori coinvolti, li ha rimessi “a nuovo”. Durante la mattina sono frequentati da adulti che cercano di socializzare per non restare barricati in casa, e nel pomeriggio brulicano di ragazzini che animano il laboratorio di pizzeria e friggitoria. Non tutti i ragazzi si coinvolgono: a pochi metri dalla sede ci sono i resti di quelli che, in origine, avrebbero dovuto essere gli spazi per il soddisfacimento degli standard urbanistici a servizio di una parte del parco, finiti però ben presto sotto il controllo della Camorra.

Ad un certo punto, Bruno viene a sapere che potrebbe accedere a un bando di Fondazione con il Sud per la creazione di spazi di aggregazione, ma è necessario presentare un progetto. Lui ha sempre fatto altro e i suoi amici al massimo sanno imbiancare pareti, pulire, mettere a posto. Un progetto proprio non è in grado di farlo, ma per partecipare al bando non è sufficiente presentare i disegni dei bambini che vorrebbero un parco più bello. Ottiene allora la disponibilità dello studio di architettura di un paese vicino e dice loro: “architè però avimma fa na cosa bella!”. Vengono accordati i fondi, ma l’attesa è estenuante. Bruno chiede all’architetto di avere le stampe del progetto da affiggere sulla recinzione, così può mettersi all’opera con i ragazzi impazienti di realizzare un luogo per loro e, in caso di possibili “controlli non istituzionali”, poter mostrare qualcosa di attraente, essendo certo che anche gli spiriti più contrari possano cedere al bello.

Di quella che Omero chiama Nesis l’isola di Polifemo, non una qualunque piccola isola, ma proprio quella davanti a Bagnoli, si vuole raccontare un percorso in cui i ragazzi ospiti dell’IPM sono impegnati in attività formative che hanno definito “Abbascio all’edile” per indicare la partecipazione al cantiere-laboratorio, posto a un piano sottostante a quello che frequentano.

“Il recupero di un luogo proibito”, vuole indicare il percorso fatto dai giovani detenuti, seguiti da un team costituito da architetti e capomastri coordinati dall’équipe educativa e dalla direzione dell’istituto, per il recupero e la riqualificazione del patrimonio architettonico esistente, interno all’istituto di pena. Spazi che negli anni erano stati completamente abbandonati. Si è trattato inizialmente di liberarli dal materiale di risulta che li occupava e di ideare un cantiere a impatto zero, attraverso il riutilizzo del materiale ritrovato. Il cantiere è stato, e continua a essere, una scoperta anche umana. Nel rifare l’intonaco, durante alcuni interventi di consolidamento “cuci e scuci” sulle pareti di tufo di un nuovo spazio espositivo, è stato liberato un varco che ha portato alla luce una vecchia cisterna, anch’essa piena di materiale di risulta che, opportunamente triturato è stato riutilizzato per il rifacimento dell’intonaco, davanzali, pavimentazioni, tinteggiature a calce, ecc. Tra i detriti è stato trovato il terminale del pozzo in piperno che, restaurato, ha ripreso vita nel cortile sovrastante la cisterna.

Da alcuni documenti e testimonianze sull’impegno di Eduardo De Filippo a Nisida, i ragazzi hanno scelto di destinare la cisterna a sala prove per il laboratorio teatrale. Attraverso la realizzazione di una struttura provvisionale in tubi Innocenti e pannelli di legno è stata realizzata una tribuna-spalto, il cui ultimo gradino funge da corridoio di collegamento con gli spazi destinati ad aule didattiche, con gli spazi espositivi e con le vecchie officine.
Anche queste ultime, ormai in disuso, sono state recuperate.

I ragazzi e le ragazze si sono sentiti coinvolti da un’idea-progetto mostrata loro con dei disegni architettonici che hanno innescato sogni e desideri su come dovesse essere quel posto. L’aspetto più interessante, per loro, è stato scoprirsi capaci di realizzare qualcosa per sé e per gli altri. Possono sembrare certamente aspetti marginali, ma ci è sembrato opportuno dare testimonianza di come un’esperienza nata attorno a un piccolo progetto di architettura di recupero e riqualificazione di spazi abbandonati, potesse portare alla scoperta di un patrimonio umano, un vissuto altrimenti inespresso.

photo © Mario Ferrara

Renato Capozzi, attualmente è professore associato di Composizione Architettonica e Urbana, presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Giovanni Felice Iovinella, architetto libero professionista. Lavora nel campo della progettazione architettonica e urbana e del restauro. Dal 2012 coordina il Laboratorio edile nell’Istituto Penale per Minorenni di Nisida (Napoli), ed è coinvolto in diverse esperienze di “architettura sociale” nelle periferie di Napoli.

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