Trimestrale di cultura civile

La bolla
della paura

Di cosa parliamo quando parliamo di paura? Indagine conoscitiva di come questo sentimento primordiale ha tracimato mettendo in difficoltà, prima di tutto, l’individuo e le comunità. Una sofferenza esistenziale con drammatiche ricadute. Che colpisce tutti i livelli di una convivenza divenuta giorno dopo giorno sempre più difficile e a dir poco conflittuale. Perché il prevalere dell’individualismo sembra aver avuto la meglio sui rapporti fiduciari. Pillole introduttive dal nuovo monografico di Nuova Atlantide. Pensieri non solo indigesti

Quanto sia vulnerabile la vita di qualsiasi persona è nelle cose. Da che mondo e mondo è così. E il sentimento primordiale della paura è traccia evidente di quella vulnerabilità. Che non dovrebbe fare paura, però. E invece nella realtà, in moltissime situazioni, la paura ha preso una piega diversa, anche – se non soprattutto – una brutta piega. Pensiamo solo a come ne tengono in gran conto il cinema, la musica, le arti in genere. Questo numero della rivista ha fatto della paura oggetto di un’indagine. Difficile, perché spinosa la materia.

La selva oscura

I ragionamenti e le testimonianze che ospitiamo (molto toccante la comunicazione di un cappellano di carcere in rapporto di non scontata amicizia con gli impauriti condannati a morte) – per ovvie ragioni tutt’altro che risolutivi – da specifiche prospettive si soffermano, in modo esplicito o implicito, su come il sentimento primordiale della paura sia, per così dire, sfuggito di mano all’individuo. Con tutte le conseguenze del caso. Possiamo indicarla come una sorta di erosione interna al soggetto/persona prodotta da un suo cedimento strutturale alla paura. La fotografia è quella di un io impaurito oltre misura, un io slegato dalle relazioni, sospettoso, al fondo ostile a se stesso e quindi sulla difensiva rispetto agli altri. Il malessere generale è nella crisi dell’individuo. Laddove le paure del mondo ne sono l’evidenza più preoccupante. Paure, dunque. Da quella psicologica a quella sociologica; da quella educativa a quella dei social network; da quella storico-sociale a quella economico-finanziaria (assai intrigante l’analisi di Fulvio Coltorti sul tema paura e aiuti di Stato con particolare riferimento al caso del gruppo Stellantis); da quella ambientale a quella delle dipendenze. E poi, ma è soprattutto un “prima”, la paura nei giovani: con ogni probabilità i più colpiti dalla frattura esistenziale che incalza. Insomma, più fotografie per un unico album: un unico “scatto” impaurito.

Dunque, questo numero di Nuova Atlantide si dipana tra colpi e contraccolpi. L’agire umano aggredito da questa forma invasiva di paura è oggetto di riflessioni intense, documentate e plurali per ciò che attiene alla visione culturale degli autori. Un agire umano che riflette il nostro modo di pensare e di proporci a noi stessi e nella società. Oggi i cambiamenti sono rilevanti e rapidi; in questo contesto accelerato e pervasivo l’io pare vittima di una epidemica sensazione di insufficienza. Prodotta da cosa? Da fattori esterni? No, non solo, c’è dell’altro. Ecco allora che il leit motiv è quello di un io che non si sente all’altezza dei diktat sociali. La sua crisi è una sofferenza fisica e psichica. Che genera un comportamento auto-escludente. La paura avanza impetuosa non trovando resistenza: la fa da padrona. Ma la partita è ancora in corso. Lo è sempre stata. La storia è nota: la selva oscura non riesce a chiudere i giochi.

Io ho paura

Mi fa male il mondo. E allora, in una qualche misura, mi devo difendere. Allora azioniamo il clic, distorciamo la paura primaria, le diamo un’importanza spropositata, ed è con l’affermarsi di quella deformazione che si compie il passaggio: il mondo mi fa male perché lo avverto come il luogo malsano che attenta alla mia persona. Qualche motivo c’è, non proprio secondario, per viverlo così, con la paura che ti si appiccica, con l’ansia addosso. Enrico Giovannini (ASviS) ha posto l’attenzione sul fenomeno dell’eco-ansia, indicandolo tra le patologie che riguardano la salute e il benessere mentale della popolazione, con particolare riferimento ai giovani, riportando le seguenti considerazioni contenute in un documento UE: “I giovani sono estremamente preoccupati per i cambiamenti climatici e per la perdita di biodiversità. Da un’indagine recente è emerso che il 75% dei bambini e dei giovani rispondenti pensa che il futuro sia ‘spaventoso’. Allo stesso tempo, lo studio ha evidenziato che l’ansia e il disagio legati al clima sono correlati alla percezione di una risposta inadeguata da parte del governo e ai sentimenti di tradimento associati”. Un quadro che provoca angoscia.

La paura primaria sganciata dalla sua naturalità assesta il colpo: io ho paura di te, di più, ho paura punto. E quindi? Ecco l’anticipo inquietante di altre possibili derive: ansia, panico, angoscia. La crisi dell’io è assenza dell’io o scarsa strutturazione dell’io? Questione centrale. Ed è il nocciolo della riflessione di Cornaggia e Peroni. Scrivono, a un certo punto: “Non a caso, siamo nel tempo di Lucio Fontana: ci angoscia la tela bianca, non abbiamo più gli strumenti per rappresentare, per disegnare, per scrivere parole, ma possiamo andare oltre attraverso il taglio, al pari del taglio che il soggetto borderline si fa nel braccio, il taglio che apre a un dolore perché il dolore sgorghi, il dolore si risignifichi, perché sgorghi da un oltre che c’è, da una eccedenza, qualcosa al di là che non può essere ancora tradotto in parola. È come se dovessimo passare dal ‘davanti alla tela’ al ‘dietro la tela’. D’altra parte, abbiamo bisogno di riscoprire il limite come luogo e occasione di incontro con l’altro-da-noi. Non è infatti nelle nostre elucubrazioni che troviamo il senso di noi, ma nel luogo dell’incontro con l’altro”.

Dal canto suo, Luigi Zoja introduce una variabile assai incidente nella piccola come nella grande storia. Argomenta: “C’è una parziale sovrapposizione tra l’idea di paura e quella di paranoia. La paura è un concetto più largo, la paranoia è un caso specifico e focalizzato di paura. La paranoia in qualche modo è ineludibile, si ha paura di qualche tipo di nemico e si soggiace a dei processi mentali che fanno sì che questo nemico sia sempre presente, come ad esempio nel caso degli immigrati, un fenomeno che ha una tendenza di lungo periodo dovuta a squilibri mondiali economici ma anche climatici di cui non vediamo la fine. L’immigrazione continuerà e la paranoia da immigrazione continuerà”. Insiste Da Rold, riprendendo l’attualissimo scritto del sociologo statunitense David Riesman dall’inquietante titolo La folla solitaria: “Oggi pare proprio essersi depauperata la centralità dell’io. Si assiste in una progressiva situazione di complessità a un ‘di meno’ dell’umano, soggetto impaurito e quasi completamente assoggettato a un potere che lo dirige. Partecipe più o meno consapevole di un pericoloso fenomeno di eterodirezione”.

E Salvatore Abbruzzese aggiunge elementi che aiutano nella comprensione di un problema complesso come pochi altri: “La paura costituisce una dimensione sempre meno marginale nello scenario contemporaneo. L’affermarsi di una percezione inquietante della realtà, tale da generare paura, si fonda su una percezione della realtà della quale è possibile intercettare le ragioni. Volendo qui compiere una schematizzazione molto semplice ancorché efficace, restando nel perimetro del mondo moderno e dell’Europa, queste ragioni possono essere accreditate ad almeno tre diversi generi di esperienza. La prima è data dalla perdita dei riferimenti morali sul piano della società civile, la seconda dall’incertezza dello scenario prossimo venturo, la terza dall’imprevedibilità crescente dei comportamenti individuali. Nessuna di queste genera dì per sé paura ma tutte e tre, una volta sommate tra loro, vi contribuiscono in modo crescente”.

Esperienze quotidiane

I motivi esterni che possono giustificare l’aver paura della realtà non mancano proprio. Nel quotidiano proliferano offerte ingannevoli che promettono esperienze pacificanti. “I nostri giovani sono più esposti alle esperienze del consumo di sostanze. Perché di esperienze si parla, proposte che spesso vengono avanzate nel deserto di ogni altra alternativa che possa risultare attrattiva. Oltre alla diffusione massiccia, a questa cultura che normalizza l’uso delle sostanze e l’attitudine al piacere istintivo e immediato che i social media sviluppano, occorre considerare che il nostro è un mondo pieno di paure e di ferite. Ognuno ha nella propria esperienza o nella struttura della propria personalità traumi o fragilità, più o meno importanti. Chi utilizza sostanze sa di poter accedere a una esperienza di oblio, di pace” (Pietro Farneti).

E dall’osservatorio privilegiato del mondo della scuola, scrive Francesco Fadigati: “Gli anni della pandemia da Covid-19 hanno segnato, anche se non soprattutto, i giovani. In loro è lievitata la percezione di vivere dentro la bolla di una paura diffusa. Con l’amara scoperta di dover sopportare una preoccupante incertezza. La scuola è certamente il luogo privilegiato dove maggiormente è possibile rilevare questo clima di difficoltà esistenziale che, nei ragazzi, sta producendo una sorta di ritirata per nulla strategica. Piuttosto un ripiegamento ‘pauroso’, ansioso. Con una conseguente diffidenza verso il diverso da sé, verso gli altri”.

Ma è nella scuola che qualcosa di diverso può succedere. Proprio perché la partita è tutt’altro che finita. Si gioca ancora, insomma, pur tenendo conto dell’insidiosa e debordante presenza dello strumento tecnologico che pare proprio non aiutare a dipanare il garbuglio. “L’utilizzo non consapevole dell’offerta tecnologica digitale sta contribuendo in misura significativa allo sviluppo di malessere psicologico, isolamento sociale e dipendenza patologica. Perciò, per contrastare tale insidia sempre più impattante sulla vita reale e in modo particolare nei giovani, occorre predisporre percorsi conoscitivi basati sulla pedagogia, che favoriscano un approccio formativo diverso, responsabile, innovativo, sostenibile. Come sta accadendo con l’esperienza del“Liceo digitale” (Danila Aprea). E dagli Stati Uniti riflette Nicholas Dirks: “Gli studenti delle scuole superiori sono sottoposti a una forte pressione per entrare nelle migliori università, perché sono portati a pensare che altrimenti la loro vita sarà finita, mentre altri si chiedono perché dovrebbero andare all’università, se è piena di persone della sinistra radicale che cercano di distruggere la nostra società. Penso che gli umanisti debbano occuparsi di questioni come l’Intelligenza Artificiale, la sostenibilità, la politica, persino del regime economico neoliberale che ha prodotto le disuguaglianze che vediamo oggi. Sono cose che dovrebbero competere agli umanisti. Dobbiamo impegnarci in questi temi attuali e mostrare la nostra rilevanza in modi che ci permettano di non essere visti come nostalgici”.

Robert Peckham, autore del libro Fear: An Alternative History of the World, affronta il tema anche da una prospettiva diversa, per nulla scontata, cogliendo una crepa nel muro eretto dalla paura; o meglio nel muro che abbiamo eretto per dare un surplus di importanza, di protagonismo alla paura: “Quando si pensa alla paura, spesso la si associa a qualcosa di puramente negativo, una forza che limita la libertà e opprime. Nel libro, invece, osservo la paura nella sua complessità, in particolare esploro il modo in cui essa può fungere da catalizzatore per il cambiamento. La paura ha la capacità unica di sconvolgere lo status quo, di mettere in discussione le certezze che diamo per scontate e, in alcuni casi, riesce ad aprire nuove possibilità. Questo processo di rottura è spesso il preludio a un cambiamento significativo, sia a livello personale che collettivo”. Dunque, c’è spazio per il cambiamento, per provare a ricollocare le cose nella sede più naturale. E quindi la paura nell’alveo del sentimento primordiale che chiama il soggetto a conviverci. Pane al pane, vino al vino. In tal senso molto aveva compreso il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre a proposito di individuo relazionale e dinamiche esterne che provano a dividere, a polarizzare tutto: “Contro l’atomizzazione generata dalla società capitalista, per lui e per i filosofi communitarians si tratta da un lato di preservare le forme associative superstiti del passato, che sono la vera radice del vivere in società, che precede la formazione di uno Stato, e dall’altro promuovere forme intermedie di relazione, anche inedite, dal momento che ‘la società consiste appunto per sua natura non di individui staccati, ma di unità associative’” (Dignola).

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