È famoso (molto famoso) nel mondo come illustratore di fumetti di supereroi, da Batman a Spider-Man, dagli X-Men agli Avengers, ma ha passato parte degli ultimi anni a disegnare Inferno, Purgatorio e Paradiso di Dante. Impresa, fra l’altro, temeraria: e invece i volumi illustrati da lui e accompagnati dalle letture vitali e attualizzanti di Franco Nembrini sono popolarissimi, e hanno avvicinato al sommo poeta studenti e non-studenti che fino a poco prima consideravano la Divina Commedia nient’altro che un pedaggio da pagare alla frequenza nei licei.
Al Lucca Comics anche quest’anno, come ogni anno, migliaia di fan si sono affollati allo stand di Gabriele Dell’Otto per avere una sua tavola autografata e per sottoporgli i loro portfoli. Collabora stabilmente con Marvel e Dc Comics, pubblica in Francia, Germania, Stati Uniti, Giappone. Nel volume illustrato Tales ha disegnato le favole tradizionali attraverso dettagliatissimi e un po’ orrorifici disegni a matita: nel mondo delle paure più ancestrali che domina il nostro inconscio, personale e collettivo, si muove con la consapevolezza dell’esperto e l’immediatezza del bambino. Ha anche un continuo feedback con i suoi (in gran parte giovani) lettori, ed è dunque un sensore molto credibile calato nella temperatura interna delle nuove generazioni. Non bastasse, ha ben tre figli adolescenti – di 17, 15 e 11 anni – che lo tengono sulla corda, lo provocano, lo costringono a fare i conti con le loro paure e insicurezze.
I suoi tre volumi danteschi, con introduzione di Alessandro D’Avenia (Mondadori), a partire dal 2018 hanno venduto quasi 100mila copie e ora sono stati riproposti anche in una edizione deluxe che valorizza al meglio le cento grandi tavole (una per canto) di Dell’Otto, realistiche e al tempo stesso metafisiche, colte e immediate: un po’ come Dante, appunto.
Nel mondo del fumetto c’è una vena dark molto forte: in qualche modo il disegno di pura fantasia porta a galla le nostre paure, le raffigura e le esaspera. Però alla fine c’è una tensione di fondo educativa.
Assolutamente. Io vengo dalla cultura visiva degli anni Ottanta, che tante cose belle ce le ha fatte vedere, nonostante oggi si cerchi di cancellare tutto quello che è stato, perché non era “politicamente corretto”. Secondo me i ragazzi, quelli non manipolati, le persone che riescono ancora ad avere un pensiero libero, capiscono che soprattutto nei grandi classici della letteratura e dei fumetti c’era un messaggio positivo che arriva fino a oggi. E la storia che ha più qualità, non solo visiva, finisce per essere anche la più longeva: penso a Watchmen, ai grandi autori del fumetto anche italiani, a Tex, Dylan Dog, Martin Mistére, di cui mio padre era un grande appassionato; ai fumetti delle Edizioni Corno, Daredevil, I vendicatori, l’Uomo ragno e i Fantastici quattro. Io amo molto Wolverine, perché è semplice ma molto umano. Ci sarebbero migliaia di esempi da fare. Il pregio che hanno, che hanno sempre avuto e che continueranno ad avere i fumetti è quello di raccontare la società, in tutte le sue accezioni. Io, ad esempio, ho una formazione classica, dei grandi come Caravaggio, Michelangelo, in quello che disegno – me lo hanno fatto notare – resta traccia. Ma devo molto anche ad autori più moderni, ad esempio nella società americana dei primi del Novecento c’era Norman Rockwell, pittore e illustratore, oggi considerato a tutto tondo uno dei maggiori artisti americani, che ha lasciato un segno in tutta la società. Rockwell sentiva la responsabilità di portare avanti in un certo modo le copertine del Saturday Evening Post, settimanale estremamente popolare, sapeva benissimo che con le sue illustrazioni non poteva parlare di politica né di religione, perché quelle immagini dovevano andar bene a tutti, l’editore non voleva grane. E per tantissimi anni è riuscito a narrare la quotidianità della società americana con una profondità incredibile, senza mai essere banale. Anche nelle cose più stupide, c’era sempre in lui qualcosa che ti faceva non solo riflettere, ma ti dava anche uno sguardo positivo, ed è una cosa che oggi a noi manca tantissimo. Ecco, anch’io da un po’ di anni sento questa responsabilità. Ho attraversato un periodo più “dark”, le mie prime immagini erano molto più “efferate”, molto più forti di quelle di adesso, riportavo su carta quello che era il mio stato d’animo: ma questo a volte è anche un rischio.
Il fumetto nella nostra cultura è diventato una specie di riserva indiana in cui questa tensione esistenziale ancora sopravvive, circondata da un’aria molto scettica.
Sopravvive, ha usato la parola giusta, è ancora presente ma fa fatica a farsi largo. Se guardi le serie tv, quello che domina è un certo voyeurismo, una rappresentazione del male che tu non puoi fare in prima persona. I personaggi hanno spesso un profilo non negativo ma ambivalente, non sono più del tutto “buoni”. Partendo dal fumetto, che è il mio medium, ma in tutto il mondo della comunicazione e dell’entertainment, se non c’è la violenza che ti fa saltare sulla sedia, spesso i progetti non vengono neppure presi in considerazione. Negli ultimi anni mi sono ritrovato spesso di fronte a questa volontà di giustificare il male. C’è una lettura a tutto tondo di personaggi negativi, i villain, come li chiamano gli americani, come il Joker di Todd Phillips, piuttosto che Malefica per quanto riguarda la Disney. Si vuole far passare l’idea che se mi fanno del male, sono giustificato a essere cattivo. Invece la grande letteratura fantastica, da Tolkien a C.S. Lewis, l’autore de Le cronache di Narnia, proponeva un messaggio diverso. Oggi viviamo una polarizzazione, anche nel nostro lavoro, per cui personaggi li si vuole far diventare negativi. Io ho tre figli, sono tutti minori e vicini di età, quando abbiamo cominciato a fargli vedere dei film io e mia moglie abbiamo scelto quelli più vecchi, proprio perché lì c’era una distinzione netta tra bene e male, a mio avviso necessaria nella fase di crescita. Sicuramente davano il senso e la misura del giusto e dello sbagliato.
Se ai ragazzi di oggi fai vedere il film Superman con Christopher Reeve si entusiasmano nel riconoscersi in un personaggio che è completamente positivo. Oggi non è più così, perché si ha questa idea, soprattutto in molti adulti, che il bambino vada informato di tutto fin da piccolo, che debba maturare velocemente perché questo mondo è cattivo… Cinismo, appunto.
Sicuramente la vita non è facile, ognuno di noi incontra dei muri, e ogni tanto ci si schianta, però questa cultura del “tutto va male in questo mondo” negli ultimi anni, soprattutto dopo il Covid, sta diventando un vero delirio. C’è stato un cambio sostanziale a livello emotivo, i ragazzi sono disamorati alla vita stessa. Per cui lavorando nel campo della comunicazione di massa, se non si hanno delle immagini positive si rischia poi che tutto diventi… immondizia. Nulla vale. Una volta un amico molto più saggio di me mi disse: quando fai una cosa, non pensare mai “che male c’è?”, perché così fanno tutti. Poniti invece la domanda al contrario: che bene c’è in quello che sto facendo? Sembra una banalità, al momento ne ho sorriso, però ha cambiato la mia prospettiva.
Che aria respira lei, tra i ragazzi?
Le nuove generazioni hanno soltanto bisogno di qualcuno che gli voglia bene. Il problema è che adesso gli fanno credere che gli vogliono bene offrendo ogni tanto a qualcuno una grande importanza mediatica. In questa pseudo-libertà che è concessa, tutto è lecito e tutto va bene, poi però quando parli con i ragazzi ti accorgi che sono disintegrati. La cosa che vedo è che le problematiche più forti sono quelle relazionali. Ogni tanto vengono da me con i loro portfoli di disegni e mi chiedono delle valutazioni: io non amo molto questi momenti, non mi sento un “maestro”, non sono un insegnante, do il mio parere ma a loro dico sempre: prendetelo con le pinze. Quando parlo con i ragazzi la prima cosa che vedo è che sono molto sfiduciati, molto. Nessuno riesce a trasmettere loro questa fiducia nella vita, fiducia anche nelle qualità che sicuramente hanno, e che vorrebbero tirar fuori. Questa società non li aiuta a farlo, ti fa credere che se hai quei cinque minuti di gloria sei a posto. Ma non c’è uno sguardo sulle attitudini dei ragazzi. Purtroppo, soprattutto i talenti legati all’arte e alla comunicazione sono spesso e volentieri ignorati. E i social media sono un ambiente che ti fa in qualche modo credere di avere dei super-poteri, ma rapidamente ti accorgi che svaniscono.
Quali sono le loro paure?
La paura di tutti, nessuno fa eccezione (lo vedo di più in quelli che fanno fatica anche solo a tirarla fuori), è la paura di non essere visti. Più che per quello che sanno fare, per come sono realmente. Una ragazza molto giovane qualche anno fa mi portò un portfolio, le sue immagini erano tutte in bianco e nero. Non era male, molto grafica. Aveva creato un personaggio femminile, che sicuramente era lei stessa, immerso in un background sempre nero, ma la cosa interessante è che questa figura non era mai sola, c’era sempre una sagoma, che lei identificava con un gatto. Le teneva compagnia. Io a un certo punto le ho detto: “Hai un grandissimo potenziale, però sei in bilico tra una cosa che ti piace, che ti dà gioia e la realtà che ti circonda che è oscura. L’unica cosa che vedo positiva è che tu non sei mai sola”. Dopo un anno e mezzo questa ragazza mi ha mandato delle immagini nelle quali aveva cominciato a sperimentare il colore: era fiorita”.
Beh, ha tratteggiato con due colpi di matita una generazione. La trilogia della Divina Commedia è finita, giusto?
A meno che Dante non si risvegli e scriva qualcos’altro… Con Franco Nembrini però siamo al lavoro su molte cose. Quei libri su Dante li ho fatti per i miei figli: volevamo che arrivassero sui banchi di scuola, e mille sono le testimonianze che questa cosa sta funzionando. Una professoressa giovanissima che ho conosciuto nei giorni scorsi proprio a Lucca Comics mi ha ringraziato di aver fatto questi libri e mi ha detto che li usa costantemente in classe: “Il mio modo di insegnare ai ragazzi è completamente modificato, e loro sono felicissimi”. Questo è un po’ quello che volevamo. Ma con Franco non è mai finita, dopo le pubblicazioni abbiamo continuato con le mostre a Verona, il Comune ci ha aperto sedi prestigiose e le hanno visitate ventimila persone, grazie anche a Rivela, un’associazione che gestisce mostre didattiche in Veneto e in Lombardia, composta da gente molto in gamba.
Disegnare Dante è difficile. Come le è saltato in mente?
Quando ho detto agli altri fumettisti che avrei fatto questa cosa si sono preoccupati. A me Dante non era mai passato neppure nell’anticamera del cervello, l’ho studiato alle medie e mi era bastato quello che avevo non-imparato. Però un giorno ho incontrato qui in una parrocchia di Roma Franco (Nembrini), e mi ha subito colpito questa mediazione che faceva tra la realtà quotidiana che ci circonda e che viviamo e tutto quello che Dante ha scritto. Se oggi, dopo 700 anni, continuiamo a parlare della Commedia è perché ha ancora moltissime cose da dire a tutti noi.
Quando qualcosa mi colpisce io devo cercare di metterlo su carta, devo fissarlo in qualche maniera. Con un progetto così ambizioso era facile andare in affanno; invece, mi ha rieducato a livello di relazione proprio con il mio lavoro. Io credo che le tavole su Dante siano così potenti, arrivino così dirette perché sono ultimamente il frutto di un’amicizia non solo con Franco ma anche con tutte le persone che hanno collaborato al comitato scientifico, i miei familiari, gli amici. Una frase detta da mio figlio o dal mio grafico o da mia moglie, che non sono certo dei dantisti esperti, in qualche maniera viene metabolizzata e restituita attraverso i suoi versi, questa è la cosa incredibile del lavoro che abbiamo fatto: ed ecco perché ha avuto tutto questo successo. In queste immagini c’è qualcosa di mio personale, molto più che in tutte le altre opere che ho fatto finora. Il grande valore aggiunto, per quanto mi riguarda, è avermi messo in contatto con una serie di esperienze mie. Poi questo lavoro l’ho cominciato a quarant’anni, dunque proprio “nel mezzo del cammin” della mia vita... È stato anche faticoso, ma la fatica è ricompensata dalla tanta amicizia e dai tanti riscontri che abbiamo ancora oggi con le persone che ci leggono.
Nel fumetto bellezza e spavento convivono.
Su questo mi viene da dire solo una cosa: che oggi la bellezza fa paura. Spesso vedo che si eccede nelle cose non belle. Per arrivare a trasporre sulla carta la bellezza, invece, ci vuole fatica. E la fatica oggi è bistrattata, ti viene fatto credere che più una cosa la fai velocemente e più è ganza. In tutte le cose bisognerebbe recuperare questo aspetto della bellezza, che non è mai banale. La bellezza riesce veramente a trasformare un po’ tutto. Dostoevskij diceva che sarà la bellezza a salvare il mondo… Speriamo!