Nuova Atlantide N.12 - Giugno 2024
Secondo la Banca Mondiale, negli ultimi decenni il mondo ha compiuto progressi significativi nella riduzione della povertà globale. Nel 1990 vivevano in condizioni di estrema povertà 1,9 miliardi di persone, pari al 36% della popolazione mondiale. Nel 2019, questo numero è sceso al 9,2%, ovvero circa 703 milioni di persone.
Per alcuni, questa è una prova inconfutabile dell’efficacia di quella forma particolare di economia di mercato che si identifica nel capitalismo. Altri, invece, ritengono che le politiche neoliberali, espressione di questa concezione, stiano esacerbando le disuguaglianze economiche che sarebbero alla base di tanti fenomeni di rottura.
La crescita del populismo, l’elezione di Donald Trump, la destra filonazista in Germania e xenofoba nel Nordeuropa, la Brexit, i gilet gialli in Francia, indicherebbero una incrinatura del “patto sociale” basato sull’assunto che il capitalismo “funzioni” per tutti.
Chi ha ragione? Ne abbiamo parlato con Branko Milanovic, economista tra i più autorevoli al mondo in tema di disuguaglianza.
Perché dedicare tanto studio alla disuguaglianza? Non ci sarà mai una crescita uguale per tutti. L’importante non è la diminuzione della povertà e un aumento equilibrato dello sviluppo?
La disuguaglianza ha un impatto sulla crescita economica di cui ancora il grande pubblico non è consapevole. Anche grazie a una capacità di indagine che si è fatta più sofisticata, dalla fine degli anni Novanta abbiamo iniziato a raccogliere sempre più prove del fatto che alti livelli di disuguaglianza rallentano la crescita del reddito totale. E l’impatto non è solo di tipo economico.
Quindi il costo è per tutti “salato”?
La disuguaglianza economica ha effetti su quella politica. La democrazia è basata sul principio che una persona vale un voto, ma un sistema con un ampio gap tra ricchi e poveri diventa una plutocrazia in cui, potremmo dire, un dollaro a valere un voto. Lo osserviamo empiricamente già da tempo. Se la democrazia è pensata per garantire a tutti un’influenza più o meno uguale sugli affari pubblici, allora la disuguaglianza di reddito e di ricchezza deve avere dei limiti rigorosi.
La disparità nella distribuzione della ricchezza non può essere compensata da investimenti più mirati in servizi di welfare?
Il problema è il medio-lungo periodo. La disuguaglianza di reddito è strettamente legata alla disuguaglianza di opportunità. Questo è noto e appare evidente, ma sta crescendo il numero di studi che dimostrano tale correlazione. I giovani che provengono da famiglie più agiate hanno nella vita opportunità migliori e questa nuova disuguaglianza produce un’ulteriore crescita di reddito per loro e per i loro figli.
Quindi la mancanza di uguali opportunità diventa un problema serio per la crescita economica dell’intera società…
Esatto. È dannosa sia perché rallenta i miglioramenti materiali per la società, ma anche per una ragione antropologica: nega l’uguaglianza fondamentale degli esseri umani, principio stabilito dalla Carta universale dei diritti dell’uomo (come anche dall’idea di un ordine divino) che va sempre più affermandosi. John Rawls sosteneva che un’equa distribuzione delle risorse deve essere difesa facendo appello a un principio superiore. Poiché abbiamo tutti uguale valore, dovremmo tendere ad avere le stesse opportunità di sviluppare le nostre capacità e condurre una “vita buona e felice”.
C’è un’emergenza-disuguaglianza nel mondo?
Negli ultimi venticinque anni, la disuguaglianza tra i circa otto miliardi di cittadini che popolano la Terra è diminuita. Questo per effetto della crescita di Paesi come la Cina, l’India, l’Indonesia, il Vietnam e altri ancora. Al contrario però, essa sta aumentando all’interno dei singoli Paesi. Cina, Stati Uniti, Italia, Regno Unito, Russia, India, e molti altri sono interessati da questo fenomeno.
Quindi la disuguaglianza potrebbe aumentare all’interno delle nostre società, anche se il dato globale indica una diminuzione?
Esattamente. È quello che sta accadendo. La disuguaglianza sta aumentando in ogni singolo Paese, ma visto che negli ultimi decenni i Paesi poveri sono diventati più ricchi, o meno poveri, e visto che sono molto popolosi, hanno impattato sensibilmente e positivamente sulla disuguaglianza complessiva. Inoltre, i segmenti medio-bassi delle nazioni più ricche stanno scendendo nella classifica globale e questo genera forte preoccupazione, soprattutto tra le classi medie che, anche se osservano ancora una certa crescita del loro reddito reale, si sentono impoverire di fronte a una comunità globale che si evolve rapidamente.
In definitiva, hanno ragione i neoliberisti che sostengono un mercato con meno regole possibili, o chi li critica?
L’affermazione secondo cui la disuguaglianza è incrementata dall’approccio neoliberale è valida se si esclude l’impatto della Cina.
Quali dimensioni ha il fenomeno?
Gli anni dopo la crisi finanziaria del 2008 sono stati caratterizzati da una mancanza di crescita della classe media occidentale e dal rallentamento della crescita dell’1% più ricco a livello globale. L’1% più ricco del mondo è ancora popolato principalmente (l’82%) da ricchi provenienti dall’Europa occidentale, dal Nord America e dall’Oceania.
In questo 1% dei più ricchi, i Paesi con la quota più alta al mondo sono: Lussemburgo (14%), USA (12%), Hong Kong e Singapore (circa 10%), e Svizzera (9%). I Paesi dell’Europa occidentale si collocano tra il 3 e il 5%.
Quale trend prevede nei prossimi anni?
La situazione in prospettiva è imprevedibile. La Cina gioca un ruolo ambivalente: è diventato un Paese di classe medio-alta e la sua crescita non può più guidare la riduzione della disuguaglianza globale. In India si sta verificando una diminuzione sostanziale del reddito e anche un aumento della disuguaglianza. È impossibile inoltre prevedere i tassi di crescita dei grandi Paesi africani, mentre l’attenzione sta passando proprio dalla Cina all’Africa.
E la povertà cresce o aumenta?
Fino alla crisi legata al Covid è diminuita. Ma bisogna comprendere che il calcolo della povertà viene fatto dagli economisti sulla base di una cifra molto bassa, irrealistica per qualsiasi Paese ricco: un dollaro al giorno, portato adesso a due dollari, ma si tratta comunque di una cifra irrisoria, meno del 10% della popolazione mondiale è sotto questa cifra, mentre duecento anni fa era l’80 per cento: un miglioramento che sembra notevole. Se però considerassimo 5-6 dollari al giorno come tetto, allora la diminuzione della povertà è molto meno marcata. In sostanza, le persone che duecento anni fa vivevano con meno di un dollaro, adesso posseggono qualcosa in più, ma non riescono in ogni caso a superare i 5 dollari.
Oggi la grande rivoluzione in cui siamo immersi è quella tecnologica e dell’Intelligenza Artificiale, quali prospettive vede rispetto a questa realtà e quale impatto potrebbe avere l’AI sull’ineguaglianza?
Non sappiamo come andrà a finire. Siamo solo all’inizio di questo fenomeno. Non è irragionevole pensare che l’Intelligenza Artificiale possa sostituire mansioni ad alta o media specializzazione. La produttività risulterà aumentata, ma molte persone potrebbero trovarsi costrette a cambiare lavoro. Prendiamo il caso dei docenti: se solo registrassero le loro lezioni e gli studenti le seguissero da casa, scegliendo solo i migliori tra loro, non avremmo bisogno forse neanche del 90 per cento dei professori di scuola superiore e universitari.
E l’effetto sulla disuguaglianza?
Le imprese che si avvarranno dell’Intelligenza Artificiale faranno soldi, quindi la quota del capitale crescerà. E l’aumento della quota di capitale è da sempre legato all’aumento dell’ineguaglianza perché chi ha il capitale ha la tendenza ad accumularlo. Quindi l’Intelligenza Artificiale potrebbe avere due impatti negativi: sostituisce il lavoro e aumenta l’ineguaglianza. Dall’altra parte, però, l’effetto positivo potrebbe essere l’aumento del PIL complessivo. È una prospettiva molto complessa.
La tradizione europea considera il welfare parte integrante dello sviluppo. Ora l’idea che domina è che l’unica cosa che conta sia lo sviluppo economico.
È una buona domanda. È senz’altro vero che la gente si focalizza maggiormente sull’economia, ora, e lo sviluppo sociale è considerato meno. La gente ne può parlare, ma se confrontiamo gli anni Settanta e Ottanta con oggi, penso che ci fosse più consapevolezza. La politica economica esiste ancora, ma ha ridotto il suo impatto, perché sta diventando più simile agli affari.
Sta riemergendo il sospetto che la crescita economica e la battaglia per l’uguaglianza siano in contraddizione?
Molti esperti economici lo credono. Ritengono che per diminuire la disuguaglianza sia necessario crescere di più per poter fare maggiori investimenti in welfare. Lo vedono come uno scambio. Io credo invece che ci siano parecchi esempi che mostrino l’opposto. Esistono società con fortissime ineguaglianze, in cui tante persone povere non possono andare a scuola, o lavorare. Tanti casi dimostrano che la disuguaglianza si erge contro la crescita economica. In altre parole, per crescere a livello economico, bisogna diminuire la disuguaglianza. È il caso di Paesi come la Colombia, il Brasile, il Sudafrica e altri, in cui la riduzione dell’inuguaglianza migliorerebbe le cose. O persino la Cina.
Le attuali istituzioni sono all’altezza di affrontare il porblema della disuguaglianza?
Non credo. Penso che le istituzioni odierne siano o ingombranti o ininfluenti. Ad esempio, le Nazioni Unite sostanzialmente non influiscono sulle persone. Nemmeno l’Unione Europea. Tutti parlano troppo, e fanno poco. A livello mondiale, dalla fine della Guerra fredda non abbiamo concepito nemmeno una nuova istituzione. A parte Internet.