Trimestrale di cultura civile

La Cina di oggi: economia rallentata e disuguaglianze

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L’economia di Pechino è fortemente condizionata da problemi strutturali e congiunturali. Il governo ha previsto per il 2024 una crescita del PIL del 5%. Come l’anno precedente. Ma il quadro generale è cambiato. In queste condizioni è molto difficile che l’annuncio trovi conferma nella realtà. La società nel suo complesso è in sofferenza per uno Stato sociale inesistente. La politica del figlio unico ha fallito, la popolazione invecchia e il sistema pensionistico langue; un invecchiamento che pesa e peserà sempre di più sul mercato del lavoro. Una superpotenza che fa registrare un incremento rilevante del fenomeno delle disuguaglianze. Insomma, un grande Paese attraversato da più difficoltà interne. Una realtà complessa che necessita di radicali riforme. Il partito comunista ne sta prendendo atto?

In questo tempo si scrive, si legge, si discute molto di Russia per ovvie ragioni. Molto più complicato trovare nei ragionamenti riferimenti al fatto che si sta parlando di Federazione Russa. Questo modo di addentrarsi quali rischi comporta in termini di comprensione di quella realtà?

Lei pone una questione importante, troppo spesso sottovalutata. Siamo abituati, in maniera un po’ automatica, a considerare Russia qualunque Russia che sia, appunto, l’impero russo, l’Unione Sovietica o l’attuale Federazione, come il Paese dei russi. Ciò non è falso, ma è solo una parte della realtà.

Nell’impero russo, quando ci fu il primo censimento moderno, nel 1897, i russi risultarono essere il 45% della popolazione. Si arrivava al 60% solo sommando anche ucraini e bielorussi. La stessa percentuale c’era in Unione Sovietica che, non a caso, non si chiamava Russia ma Unione Sovietica ed ebbe una struttura federale dalla quale poi sono emerse 15 repubbliche indipendenti, una di esse è la Federazione Russa. Adesso nella Federazione Russa – assai più che in passato – i russi sono la netta maggioranza, circa 80% della popolazione; però vi sono minoranze numerose e stimabili che sono intorno al 20%, soprattutto musulmane ma anche buddiste, ebraiche oppure di altre chiese cristiane come molti armeni che vivono in Russia. Questo rende il quadro della situazione ricco e complesso. Ad esempio, molti dei leader della attuale Federazione Russa hanno origini non russe, a partire dal ministro degli Esteri Sergej Lavrov che è armeno di famiglia. A tale notevole complessità etnica dovremmo prestare più attenzione perché non è solo una curiosità, ma è veramente una parte integrante della storia e dello stesso funzionamento dell’attuale Federazione, come già degli Stati che l’hanno preceduta.

Quindi è semplicistico e riduttivo parlare oggi di russificazione?

Si tratta di un termine, di una categoria, che non applicherei. Nel senso che la russificazione implica politiche deliberate di imposizione della lingua russa e di abbandono della lingua nazionale. Nel corso dei secoli queste politiche nell’impero russo, in Unione Sovietica e oggi nella Federazione Russa sono state applicate sporadicamente. Non costituiscono la norma, piuttosto l’eccezione. Certo, nell’attuale Federazione Russa il russo è la lingua di tutti, ma le varie entità repubblicane conservano la propria lingua, la propria cultura, oltre a praticare la propria religione. E questa non è solo tolleranza, ma anche protezione delle culture nazionali. Ed è uno degli aspetti più positivi della Federazione Russa, ereditato dalle esperienze precedenti: prima l’impero russo, poi l’Unione Sovietica. Il fatto che l’Unione Sovietica si sia strutturata in maniera federale e abbia dato ampia autonomia territoriale e culturale alle tante popolazioni del suo interno è forse un dato positivo della storia sovietica; anche il più duraturo, perché il comunismo non c’è più, mentre quelle frontiere, quelle autonomie rimangono ancora in vita.

Quel che ha appena spiegato ho avuto modo di riscontrarlo dalla lettura di “La nuova Russia” (Adelphi, 2024) il reportage di I.J. Singer realizzato in Unione Sovietica dal novembre 1926 e per alcuni mesi dell’anno successivo. L’autore mette proprio in evidenza come l’essere parte della Federazione permetteva di conservare un certo tipo di autonomia. Lui, in particolare, racconta del permanere della cultura yiddish pur in un contesto di obiettiva difficoltà.

Il libro di Singer è stato scritto in un’epoca specifica. Dopo, come noto, sono successe tante cose che hanno portato alla repressione di gran parte della comunità ebraica. E certo vi ha concorso, e in misura determinante, il fenomeno dell’invasione nazista.

Oggi, pur in una situazione di debolezza che investe però un po’ tutti gli imperi, si può ancora parlare con cognizione di causa di impero russo?

Io sto scrivendo una storia dell’impero russo, perciò sono pienamente addentro a queste tematiche. A mio giudizio è lo stesso termine “impero” che, per la sua complessità, può essere interpretato in modi diversi. Forse sarebbe più opportuno parlare di impero solo in presenza di un imperatore vero e proprio. E non esistono imperi senza una sacralizzazione del potere. Pensiamo all’impero cinese. L’imperatore riceveva il suo mandato dal cielo. Ogni imperatore era un unto del Signore. A seconda delle diverse tradizioni, il califfo musulmano a sua volta derivava il potere da una visione religiosa. Questo per dire che se noi utilizziamo il termine impero solo per indicare una grande potenza, il quadro diventa più difficile da ordinare. Tuttavia, è un’interpretazione diffusissima con la quale forse è inutile lottare perché vige la consuetudine a definire imperi l’Unione Sovietica, la Russia e anche gli Stati Uniti. La Russia, poi, è un caso specifico. Essa è nata non come un impero, ma come una federazione di città-Stato che si dedicavano principalmente al commercio. In seguito, dopo la caduta di Kiev, c’è stata la nascita del Gran Principato di Mosca; quindi dell’impero moscovita, e quello di Pietroburgo. Quello sì che è stato un impero enorme, multietnico e, in epoca zarista, con una fortissima connotazione religiosa.

Ma l’Unione Sovietica è stato un impero oppure no? Non è stato un impero perché ha negato di esserlo, ha sterminato la famiglia imperiale e, dunque, non vi era più la persona e la figura dell’imperatore. E, pur essendo atea, l’Unione Sovietica era comunque retta da un’ideologia forte, quasi para-religiosa. Totalizzante. Tendente alla missione di una rivoluzione universale. In quel periodo l’Unione Sovietica ha espresso una capacità di proiezione globale enormemente maggiore di quella che aveva l’impero russo; infatti, se l’impero russo voleva conquistare un territorio, doveva inviare un esercito.

In epoca sovietica, Mosca godeva della grande facilitazione di poter annoverare comunisti entusiasti e collaborativi in tutto il mondo. Ma l’Unione Sovietica, in realtà, non si è molto servita dell’ideologia comunista per espandere il proprio potere, che era quello di uno Stato che nella tradizione russa e nella geografia russa aveva il suo fondamento, ma che si espandeva su base ideologica, se vogliamo in maniera “imperiale”, pur negando di essere un impero; anzi condannando l’imperialismo, controllando il colonialismo, considerandosi portatrice di una visione del mondo né imperiale né coloniale. Esiste però l’eterogenesi dei fini. Perciò si può dire che, per molti aspetti, l’Unione Sovietica sia divenuta una sorta di impero sui generis, basato su un’ideologia forte. In specie durante il periodo di Giuseppe Stalin che, non a caso, amava presentarsi sempre in uniforme. E che, nel celebre discorso del 1937 per i vent’anni della rivoluzione, espresse anche qualche giudizio positivo sull’epoca degli zar. Dunque, nel periodo staliniano, una certa continuità imperiale è possibile riscontrarla. Ma, nel complesso, la questione impero sì o impero no è molto complicata, difficile da riassumere con una formula.

Cosa pensa oggi la società russa della democrazia? Come vive il putinismo?

La Russia non è un Paese semplice da comprendere. Bisogna conoscere la lingua, parlare con le persone, girarla. Perché non è la stessa cosa vivere a Mosca, a Pietroburgo, oppure sul Caucaso, sugli Urali, in Siberia. E poi i russi, com’è normale, hanno idee diverse, approcci differenti. I russi storicamente non sono abituati alla democrazia, non l’hanno mai avuta in modo sostanziale. Pensiamo alle epoche degli zar fino ai settant’anni di totalitarismo comunista. Al caos distruttivo del decennio di Boris Eltsin che ha presentato ai russi il peggio della democrazia: nella realtà dominava una corruzione spaventosa. I russi non hanno grandi rimpianti per quel periodo, nel momento in cui è arrivato l’uomo forte la maggioranza della società russa ha apprezzato la novità Putin. C’è una minoranza che viene calcolata fra il 10 e il 25% che vorrebbe una Russia diversa e una buona parte di essa è emigrata. Ho conosciuto tanti russi che non sono d’accordo con il putinismo e per questo sono emigrati. Chi sta in Russia, per lo più, non credo abbia una propensione decisa verso un cambiamento reale e profondo dello Stato in senso democratico, proprio perché non possiede le categorie politiche e culturali necessarie per desiderarlo. Ma questo non certifica per la Russia un destino ineluttabile e che nulla possa cambiare nella direzione di una autentica democrazia.

Ci sono valori condivisi o anche qui bisogna tenere conto che parliamo di una Federazione?

Prima di tutto, c’è il discorso culturale di Putin che – in modo particolare a partire dal 2011-2012, quando il contrasto con l’Occidente si è aggravato – sta portando avanti un disegno politico conservatore fondato sui valori tradizionali, in particolare quelli religiosi di matrice cristiano ortodossa; ma anche musulmani ed ebraici. La fotografia dominante vede la Federazione Russa in netta e ostile contrapposizione con un Occidente che ha perso di vista i suoi valori originari, in primis quelli cristiani. Invece i russi sono ben saldi sulla propria tradizione. Il che, detto da un ex dell’Kgb, crea un po’ di sconcerto. Ma fino a che punto la popolazione o le popolazioni della Federazione corrispondono al discorso di Putin? Questa è una domanda alla quale non è facile rispondere. La Federazione Russa non è certo un monastero e non è certo così ligia ai valori tradizionali; la frequenza nelle chiese o nelle moschee rimane piuttosto limitata. I sette decenni di ateismo di Stato hanno colpito duramente, qualcosa è rinato. Infatti, la popolazione su molti temi è sicuramente più conservatrice rispetto all’Occidente. L’opposizione all’omosessualità, per esempio, è ampiamente condivisa. Detto ciò, ritengo che le popolazioni della Federazione Russia non vadano certo identificate in toto con l’ideologia valoriale e conservatrice di cui il potere russo si serve – in modo strumentale – da dieci e più anni.

E fra i giovani la fotografia è simile?

I giovani figli di anziani educati in epoca comunista faticano moltissimo ad accostarsi alla religione; molti non se lo sognano neanche. Tuttavia, si può essere conservatori anche senza una pratica religiosa, anche solo per abitudine o per un determinato quadro di riferimento. In campagna e, più in generale, tra le popolazioni periferiche rimangono vive strutture gerarchizzate che oggi in Occidente definiremmo, con un termine forse abusato, patriarcali. E questo aspetto contribuisce al mantenimento di determinati assetti mentali conservatori. Però la Federazione Russa è una realtà gigantesca e complessa. Chi vive nelle grandi città e nella fattispecie a Mosca e San Pietroburgo ha una mentalità e una quotidianità assai diverse da chi vive nelle piccole città della provincia.

Dove guarda oggi la Federazione Russa di Putin?

La Federazione Russa di Putin – una realtà complessivamente in decadenza – esprime un discorso politico che rifiuta l’egemonia occidentale, non intende più inseguire l’Occidente. La Russia ha ormai la visione di un mondo multipolare – al pari di altre realtà come Cina, India, Brasile, eccetera – nel quale l’Occidente è solo una parte, non quella dominante e non l’unica che abbia diritto di esistere e di imporre i propri valori. Quello che sta avvenendo è la nascita di un mondo post occidentale, il che non vuol dire necessariamente antioccidentale, ma post occidentale sì. Ormai i poli sono tanti. Questo mi sembra un esito intellettuale e politico di rilievo del quale, a mio giudizio, l’Occidente dovrebbe tenere maggiormente in conto anziché difendere le proprie posizioni acquisite senza prendere atto che il mondo sta cambiando. Ovviamente, questo non vuol dire che la Russia abbia ragione.

Nell’ottica del multilateralismo, come va letto il rapporto di vicinanza e lontananza tra Russia e Cina?

È un rapporto molto complicato. Russi e cinesi non si amano appassionatamente. Tutt’altro. Perché, comunque, i russi sono di cultura europea, leggono libri europei, guardano film europei, ascoltano musica europea. I russi sono venuti a contatto con i cinesi a metà del Seicento. Da allora – e sino a oggi – a parte alcune scaramucce di frontiera in epoca sovietica, questi due grandi imperi o Stati, poi comunisti, ora Stati post comunisti – anche se in Cina c’è ancora un partito comunista al potere – hanno secoli di convivenza positiva. L’espansione imperiale è stata abbastanza simile, specie negli ultimi secoli. In entrambe le realtà vi è una forte centralizzazione del potere, una forte disciplina sociale, un forte patriottismo. E mostrano di sapersi relazionare bene, e con reciproco vantaggio. Ma il punto è un altro. Durante l’epoca sovietica i russi guardavano i cinesi dall’alto in basso. Poi le cose sono venute a modificarsi. Oggi il traino è cinese, pur nella concordanza di interessi sorretta da una radicale contestazione dell’egemonia occidentale a guida statunitense. Certo, magari ci saranno e ci sono già adesso elementi di contrapposizione o di rivalità, per esempio in Asia centrale. Ma le leadership di Russia e Cina sembrano avere la capacità di trovare un linguaggio comune, cosa che evidentemente Russia e Occidente non hanno più.

Nel nuovo ordine mondiale è pensabile una Russia senza Europa e un’Europa senza Russia?

Purtroppo sì. Perché un’Europa senza Russia perde ma una Russia senza Europa perde ancora di più. Ed è molto grave per noi occidentali che sempre più ci stiamo schiacciando sulla prospettiva statunitense. E sempre meno siamo capaci di iniziative autonome, al punto che non riusciamo neanche più a pensarle. Chiediamoci: ma era questa l’idea della Russia quando Putin è andato al potere nel 2000? Lui, nativo di Pietroburgo, insieme a Romano Prodi, parlava allora di una grande Europa. E in alcuni discorsi dei primi anni 2000 rafforzava tali convinzioni. Negli anni, però, si sono messe in atto tante scelte che hanno aperto a un processo di divaricazione sempre più accentuato e grave. Oggi la Russia volge lo sguardo a Oriente. Un rapporto strettissimo con la Cina nel quale la Russia è un socio di minoranza. Allo stato attuale non mi sembra possibile invertire la tendenza di un’Europa senza Russia e di una Russia senza Europa. Anzi, questa tendenza si va via via consolidando. Ma nessun russo ha voglia di stare con la Cina. I russi continuano a guardare culturalmente, psicologicamente a Occidente; è la situazione politico-strategica che li sta dirottando nell’altra direzione. Io credo che la definizione che meglio caratterizza la Russia di oggi sia quella di un Paese eurasiatico. Vale a dire, con il corpo e gli interessi largamente proiettati verso l’Asia, ma con la testa e il cuore rivolti ancora oggi verso l’Occidente.

Alessia Amighini è professoressa di Economia all’università del Piemonte Orientale e co-head dell’Asia Centre e associate senior research fellow dell’Ispi.

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