Trimestrale di cultura civile

Riprendere in mano l’autogoverno delle società

  • GIU 2024
  • Redazione di Nuova Atlantide
  • Nadia Urbinati

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La frammentazione e il disordine globale. Le debolezze di Stati Uniti, Russia e Cina e il riassetto dei blocchi. Il possibile protagonismo dei Paesi del sud del mondo. Gli attori politici e sociali oggi nelle democrazie e nelle autocrazie. Quel che resta del popolo. La crisi dei partiti e delle rappresentanze. L’ineguaglianza di intermediazioni. La storia “creativa” della democrazia. La post industrializzazione, la rinascita del sociale e la buona politica. Dialogo a tutto campo con la docente di Teoria Politica alla Columbia University di New York.

Negli ultimi quattro anni, a livello mondiale, è successo un po’ di tutto. Tra le altre cose una pandemia globale, una guerra di invasione, una crisi energetica senza precedenti, un arretramento degli Stati rispetto alle disuguaglianze che incrementano, il numero degli abitanti del mondo retti da governi democratici che diminuisce; e ancora dal 7 ottobre 2023 un conflitto in Medio Oriente che si è già esteso in maniera preoccupante, oltre a un numero di guerre – che vengono definite a bassa intensità ma comunque guerre – sparse per il mondo di cui ci si occupa nulla o quasi ma che a loro modo contribuiscono allo stato di alterazione del pianeta. Ce n’è a sufficienza per affermare la crisi conclamata della globalizzazione per come l’abbiamo fin qui conosciuta e vissuta. Siamo nel pieno della frammentazione, del disordine. Noi avvertiamo l’urgenza di dare spazio a una domanda di comprensione. Professoressa Urbinati, a suo avviso questo tentativo di messa a fuoco su cosa dovrebbe concentrare prima di tutto l’attenzione?

Per provare a comprendere quel che sta succedendo a livello globale, occorre porre l’attenzione, innanzitutto, sulle debolezze di Stati Uniti, Russia e Cina. È in corso un processo di trasformazione di questi poli, di questi blocchi, diciamo di questi imperi, che sta mettendo in discussione la loro capacità di dominio sull’intero mondo. E di misurazione delle loro rispettive forze o debolezze, preludio a un nuovo ordine mondiale. Che, difficilmente, sarà bipolare. Forse tripolare; un ordine che imponga una sorta di autocontrollo che agisca su interessi incrociati o timori reciproci dei tre soggetti.

Va detto che le decisioni che si assumono a livello mondiale risentono e dipendono dalle debolezze interne di questi Paesi. Negli Stati Uniti (dove, a differenza degli altri due Paesi, le questioni politiche sono di dominio pubblico) lo si vede in misura eclatante. La prevedibilità che vi era in passato sembra oggi svanita a causa della “scheggia impazzita” che si chiama Donald Trump, un fattore di incertezza e di eccezionalità di cui non si può non tener conto. Un elemento di altrettanta imprevedibilità domina la Russia. Ovviamente la politica di Putin è assai meno aperta all’imponderabilità, poiché quello che di essa sappiamo è quello che il Cremlino vuole farci sapere.

Circa la Cina, essa sta attraversando una fase di trasformazione non solo politica (ulteriore accentramento del potere del leader), ma anche demografica ed economica. Il declino delle nascite e la necessità di aprire all’immigrazione sono fenomeni destinati a mutare il volto di quel Paese. Un processo trasformativo che toccherà anche il livello di consenso e di armonia che, in una qualche misura, nel bene e nel male, finora la società cinese ha avuto. Dunque, la questione del nuovo ordine internazionale è strettamente correlata al disordine o alle trasformazioni interne agli Stati imperiali.

E nello scenario prospettico appena disegnato avranno un ruolo i Paesi del sud del mondo?

L’Asia sente in misura molto conflittuale, preoccupata, il ruolo della Cina. L’India, in modo particolare, non accetta di essere una realtà subalterna a Pechino. Il metodo cinese prevede la creazione di rapporti di dipendenza e di alleanze con i Paesi che domina, come in America Latina (con il Cile come pure, in parte, con l’Argentina) e in Africa.

La Cina compra e costruisce: le relazioni di stretta dipendenza le attiva soprattutto per via mercantile. Pensiamo alla sua presenza nel Golfo Persico, laddove oggi ha un’influenza molto significativa mentre gli Stati Uniti – lo vediamo nel disordine in Medio Oriente – ha difficoltà a controllare i propri Paesi di riferimento o a tenere sotto controllo i conflitti. Lo stesso vale per la Russia, ad esempio, presente in Medio Oriente ma non più con un ruolo di protagonista.

Qual è il nesso tra la crisi delle democrazie all’interno e l’incapacità di governare all’esterno?

Io cercherei di usare la parola “crisi” con oculatezza. Nel senso che le democrazie sono il governo della crisi, da quando esistono, perché aperte alle possibilità di diverse maggioranze, perché aperte positivamente al conflitto e quindi alla contestazione. Tutto quello che si sa delle democrazie, non si sa, invece, dei Paesi autocratici. Ad esempio: cosa sappiamo noi della Cina rispetto a quello che sappiamo degli Stati Uniti? Ciò non significa che in Cina, perché non lo sappiamo, non vi siano crisi. Questo per ribadire che utilizzerei la parola “crisi” riferita alle democrazie con molta parsimonia: sono governi della crisi.

Il problema, semmai, è se riescono a governare le contestazioni interne; il problema riguarda i protagonisti della crisi, gli attori politici e sociali.

Gli Stati Uniti si trovano oggi in questa contingenza che è segnata da una polarizzazione che appare impermeabile al compromesso e quindi può essere destabilizzante. il problema sta negli attori, non nelle istituzioni. Ecco perché tra i democratici si riscontra una rivalutazione del ruolo indipendente dello Stato rispetto alle maggioranze politiche.

Se Donald Trump dovesse diventare di nuovo presidente la sua prima azione, facendosi forte del precedente mandato, sarà sostituire i giudici, soprattutto quelli che si occupano della giustizia elettorale; e gestire così, in pratica, non solo le campagne elettorali, ma anche il giudizio sulla legittimità delle stesse, come abbiamo visto in Georgia e altrove. Ci si deve aspettare che Trump attui misure molto problematiche per lo Stato di diritto; tenterà di infiltrarsi nella macchina dello Stato, destabilizzandola.

L’America oggi dimostra di avere più una crisi a livello di leadership politiche piuttosto che nelle istituzioni. È una crisi dei partiti e, per il partito repubblicano, è una crisi di sistema. Trump ha messo in discussione il concetto di opposizione legittima e lo ha voluto manifestare in molti modi e in diverse occasioni. Si tratta di un tentativo di erosione della possibilità della normale alternanza elettorale che si era venuta a costruire nel corso della storia americana e che trova riscontro teorico nell’idea di Schumpeter di democrazia come metodo di competizione e selezione della leadership. Cioè come normale circolazione della classe politica di governo, attraverso le elezioni e non con il ricorso alla violenza.

Questo è il problema serissimo della crisi della democrazia americana. Trump, per la prima volta, ha messo gli elettori di fronte al problema della non accettazione del loro voto nell’eventualità di un esito elettorale non favorevole. Un processo di vera e propria destabilizzazione.

Ciò non succede nella democrazia, dove non si fa saltare il tavolo se si perde e non si abusa della propria vittoria se si vince. Trump ha cercato di far saltare quel tavolo. Quando rivendica l’immunità per i disordini del 6 gennaio 2021, dopo aver perso le elezioni presidenziali, lui compie un gesto nella direzione della tirannia, che significa mettere qualcuno al di sopra della legge. Trump tira la corda su un aspetto che i costituzionalisti chiamano “tirannofobia”, sulla quale è nata la Repubblica americana. Questa situazione è l’espressione di una crisi profonda della classe politica statunitense. Una situazione che non può non preoccupare.

In tutto questo si avverte un grande assente: il popolo. O, perlomeno, una trasformazione del suo ruolo, della sua funzione; un deciso minor protagonismo nelle democrazie che nella sostanza si riduce all’esercizio del voto.

Questo è un tema assai importante. E riguarda l’interpretazione della democrazia che, nella sua versione più minimalista, entro la quale noi tutti ci muoviamo, ha collocato il popolo nella Costituzione come fictio iuris, come finzione giuridica necessaria per stabilire la legittimità delle decisioni che vengono prese da chi opera nelle istituzioni. Però il “Popolo” e il “popolo” non sono la stessa cosa; politicamente parlando, il popolo non è uno, ma è plurale e diviso, bisognoso di intermediazione, di associazioni e di partiti per aggregarsi in interessi e prospettive politiche con le quali concorrere al governo del Paese. E, in questo modo, pur in maniera indiretta, il popolo plurale partecipa alla vita pubblica.

Il problema del nostro tempo è che molta di questa ricchezza politica è deperita, per cui è rimasto il “Popolo” della Costituzione che, senza la sua parte pratica e politica acquista il carattere di una finzione più che giuridica – una finzione vera.

Eppure, non è propriamente esatto dire che oggi non vi siano intermediazioni. Il problema è che assistiamo, piuttosto, a un’ineguaglianza di intermediazioni, a un’ineguaglianza di potere sociale in grado di influire sul potere politico. Ineguaglianza perché una parte della società – la classe media e la classe alta ben strutturate, preponderanti economicamente e socialmente – beneficia di intermediazioni. È l’altra parte della popolazione – i più poveri o i più disagiati – che viene privata di questa forza e quindi la sua voce non è sentita e misurata. Pertanto, disponiamo di una democrazia nella quale la parte sociale più solida e più organizzata riesce ad avere una reale influenza politica. È questo schema che Trump ha esaltato diventando il leader populista che abbiamo imparato a conoscere; egli è stato capace di catturare i voti di coloro che non avevano intermediazioni forti, in grado di influire sul potere di Washington.

Questa è la fotografia della società postindustriale. Gli effetti che sta producendo sono drammatici. Il professor Angus Deaton, premio Nobel per l’Economia, nel suo libro Deaths of despair and the future of the capitalism, scritto insieme ad Anne Case, offre un resoconto puntuale di come negli Stati Uniti sono aumentati, nella fascia socialmente più fragile della popolazione, i suicidi per disperazione economica ed esistenziale. Una popolazione dell’America di mezzo, cioè dal Montana all’Illinois, abbandonata a se stessa. È un’America che non ha più lavoro; un’America priva di luoghi di incontro, di realtà di mutuo soccorso, con la caduta verticale della partecipazione alla vita delle chiese e dei sindacati. Vi è una solitudine sociale vera, un’assenza di relazioni umane e politiche che è diventata – per questa popolazione – anche una questione di salute mentale. Di qui l’incremento di suicidi e depressioni e l’uso massiccio di oppiacei, ormai una piaga sanitaria e sociale.

Il popolo oggi è come diviso in due parti. Una parte impotente, impoverita, abbandonata; una plebe ormai senza alcuna struttura associativa. Mentre l’altra parte si ritrova ancora nel Popolo della Costituzione perché, in un certo qual modo, riesce a influenzare la politica. Ecco, la disuguaglianza politica – o di mezzi – per influenzare la decisione. Ma allora, in una democrazia indiretta come la nostra in quanto basata sulla rappresentanza elettorale, è accettabile che una parte di popolo, per un certificato senso di impotenza, non vada più a votare? Questa parte di popolo avverte tutta l’incapacità di poter incidere. Senza potenza associativa il voto vale veramente solo uno; e uno rispetto a milioni è meno di niente. Questo è il vuoto associativo che diventa indebolimento della democrazia.

Questa parte di popolo si trova fuori dai radar, fuori dall’azione effettiva. In diversi casi – e ormai solo in quelli – vediamo questo popolo emergere come i soffioni di Pozzuoli, così all’improvviso, generando forme di ribellione, di scontento evidente. Per farsi vedere, per dare un segno di sé al mondo politico, al mondo dell’audience che non ha – perché l’audience si occupa esclusivamente di quel che misura in termini di piacevolezza, desiderio, opinione. Pertanto, i media interrogano una parte e solo quella parte lì; e quello scampolo diventa tutto il popolo. Oggi lo scampolo dei media diventa “il popolo dice”, “l’opinione dice”, che è una costruzione risibile, in quanto rappresentativa di una piccola percentuale costruita per lo scopo che si intende ottenere, secondo un criterio di proporzionalità dei gruppi sociali più rappresentativi e rappresentati. L’audience costruisce un popolo a sua immagine e somiglianza. La scomparsa del sociale è il punto drammatico delle democrazie. Perché il sociale è il luogo dell’aggregazione, della solidarietà autonoma dalla politica, che lievita dal basso, che si autocrea. La sua scomparsa ha prodotto una politica divenuta l’espressione della parte più forte del popolo. Oggi, in generale, viviamo una politica decisamente più oligarchica.

Mi sembra che viviamo l’assenza di contrapposte e vere visioni politiche. Io ho letto recentemente i diari di Nenni. A un certo punto lui si sofferma sulle elezioni. Scrive che nel 1963 in Italia votava il 92,9% degli aventi diritto, nel 1968 il 92,1%. Ebbene, il leader socialista sottolinea con preoccupazione il calo di duecentomila persone, la sopraggiunta incapacità di coinvolgerle, ma allora c’erano i partiti che si preoccupavano. Progressivamente tale preoccupazione è andata a scemare. Oggi siamo arrivati all’assenza dell’offerta politica. E sono stati gli stessi partiti ad auto-suicidarsi. Ricordo che nel 1981 ci fu una rissa estiva che coinvolse il quotidiano l’Unità. L’acceso confronto fu tra Enrico Berlinguer e Giorgio Napolitano. Il segretario del PCI aveva rilasciato una famosa intervista a Eugenio Scalfari su la Repubblica nella quale, affrontando il tema della questione morale, attaccava i partiti responsabili, a suo dire, di aver perso la loro funzione. Gli aveva risposto il futuro Presidente della Repubblica con un pensiero che condivido: “È inutile stare a vedere e difendere quello che eravamo noi o che siamo noi. Cerchiamo di adeguarci”.

I partiti hanno costruito la democrazia. La democrazia non c’è se non ci sono i partiti. Le due cose si tengono insieme, cadono e vivono insieme. Quali che siano i partiti. Può essere un partito organizzato capillarmente nella società, può essere un partito di notabili, o può essere un gruppo di interesse, ma è sempre una parte. Partecipare vuol dire stare da una parte: posizionarsi in una parte dello spazio politico. Quindi la partecipazione è “partito”, è parte.

Il problema è come sono i partiti. Perché i partiti ci sono sempre e ci saranno finché c’è democrazia. E senza democrazia saranno clandestini, ma ci saranno. Perché noi siamo esseri di parte, non siamo esseri imparziali, anche se lo desidereremmo. Il problema è la forma. Bernard Manin nel suo libro Principi del governo rappresentativo fa una specie di storia della democrazia elettorale scandita in base alla forma delle aggregazioni politiche. Nell’Ottocento erano notabili, poi, nel Novecento, sono diventati partiti di massa. Oggi noi abbiamo da un lato i partiti cartello e dall’altro lato l’audience. Ma, nell’Ottocento, i partiti dei notabili erano la rappresentazione di una società non democratica, ovvero degli interessi dei pochi che votavano. Erano contenti di quella realtà protodemocratica. La percentuale massima di aventi diritto al voto erano, nell’Inghilterra della riforma del 1832, circa il 20%. Nell’Italia postrisorgimentale la percentuale era ancora più bassa. Questo per dire che c’è una correlazione tra chi è il popolo e chi lo rappresenta. Con il processo di estensione del suffragio, i partiti dei notabili sono andati in crisi. Si è affermato un attore collettivo nuovo, rappresentativo di una pluralità di interessi e, quindi, anche di una legittima contrapposizione: i partiti sono la forma condivisa di istanze che emergono dalla società. Nascono così i partiti di massa. E sono questi a essere andati in crisi. La crisi dei partiti di massa è la crisi della democrazia dei partiti di massa.

Che cosa è diventato oggi il partito politico? È dal 1994 che in Italia stiamo producendo populismo. Via via, senza interruzioni. E ciò vale per tutti i partiti. Se poi si vuole ricostruire la storia della crisi, occorrerebbe tornare al primo convegno che si tenne, nel 1966, alla fondazione Gaetano Salvemini di Firenze proprio sulla crisi dei partiti. Allora si trattava di un’analisi della parlamentarizzazione dei partiti che li portava a diventare degli apparati. Adesso non sono più neanche quello; diventati candidature “à la carte” che durano il tempo di un pranzo, cioè di una campagna elettorale, di una vittoria elettorale, e via di questo passo. Si è esaltato il partito leggero, liquido, con grande entusiasmo; si è tifato senza freni per l’antipartitismo perché, con tangentopoli, i partiti erano ormai solo un fattore negativo. “I partiti sono tutti uguali” era lo slogan populista di quegli anni e degli anni a venire. Addirittura, il partito come fattore pestilenziale. Da qui bisogna ripartire. Beninteso, senza tornare indietro perché i parti di massa sono finiti per sempre. La strada è reinventarli. E la reinvenzione avviene a partire dalla società.

Quello che manca, e di cui c’è assoluta necessità, è che la società si costruisca in corpi intermedi referenti. E non è la società civile di cui si parlava negli anni Ottanta, vale a dire gli imprenditori che diventano bravi leader politici. No, sono i bisogni sociali che devono trovare voce politica. E questi bisogni sociali vanno organizzati, tenuti insieme. Parlare di bisogno significa una cosa precisa: che c’è un bisogno di quel tipo di politica anziché di questa che circola ora. Si tratta, prima di tutto, di avviare un percorso di costruzione relazionale dal basso. L’alternativa è quella di adattarsi a diverse forme di democrazie populistiche. E avanti così verso forme monocratiche che procedono, a loro volta, verso forme autoritarie di democrazia che dovremmo definire tecnicamente come autocrazie elettive.

E come si può invertire la rotta? È difficile perché c’è l’audience che oggi domina la formazione del consenso. Insomma, è una sfida. Tuttavia, siccome io sono un’ottimista, dico che le democrazie sono sempre state capaci di trovare una soluzione, anche quando hanno dovuto soffrire nel deserto e fare una lunga traversata. La storia della democrazia è una lunghissima storia “creativa”. Questo è un momento di grandissima crisi di alcune istituzioni, abbiamo appena descritto quella dei partiti. Ci sono difficoltà reali di un sistema che non funziona come in passato e, quindi, è il momento di promuovere opportunità. Di attivarsi con interventi creativi. Il fattore tempo è prezioso. Oggi, nel mondo della scienza politica, in una parte di essa legata ad alcuni think tank, vanno sviluppandosi riflessioni su forme antielettorali di democrazia. Una nuova democrazia basata su sorteggi selettivi, cioè pezzi di popolazione divisi secondo comunanze varie: donne, età o per condizione sociale e così via. Da questi scampoli di società derivano rappresentanti sorteggiati che in assemblee decidono su un singolo problema per volta. Senza più l’unità che è caratteristica propria dell’assemblea nazionale o, comunque, popolare. Siamo in una fase storica di forte ricerca, anche grazie alle nuove tecnologie. C’è un’ala interna alle analisi sulla democrazia che non vede più il futuro nelle elezioni. Oppure, se le elezioni devono continuare ad esserci, è solo per eleggere singole figure, per esempio il presidente. Mentre per i corpi collegiali o collettivi vanno pensate altre forme. È certo una cosa avveniristica. Ma desta preoccupazione anche il solo pensarlo. Intanto la Cina usa le assemblee sorteggiate per risolvere problemi senza conflittualità.

Occorre consapevolezza dei rischi che contengono queste forme tecnocratiche e non politiche. Si tratta di risposte sbagliate a problemi veri. Non si può accettare che i partiti diventino soggetti “cartellizzati”. Che non ci rappresentino in qualche modo.

Mi par di capire che si può tentare una comprensione di un possibile nuovo ordine mondiale indagando qual è la vita vera, quali sono i rapporti tra il sociale e la politica e quindi, come dire, riflettere sulle governance interne a ciascuna realtà. Focalizzarsi innanzitutto su quello per poi capire quale può essere un discorso di nuova globalizzazione possibile che può venire, come afferma il professor Rajan nel suo Terzo pilastro dal contributo decisivo delle comunità locali che si mettono insieme.

Direi che al lavoro sulle governance interne (nazional statali) debba affiancarsene un altro, quello che investe le regioni del globo. Le attività di interrelazione fra regioni sono decisive; oggi va compreso come operano, chi le tiene mano. E bisogna dire che, purtroppo, non sono le associazioni a essere protagoniste.

Paradossalmente, nel mondo della difficile globalizzazione, ritorna importante che vi sia una comunità locale alla radice di tutta la piramide. Oggi, anche se sembra poca cosa, è opportuno ripartire, riprendere in mano l’autogoverno delle società; rilanciare e riportare in auge un argomento così minoritario. Il che significa tornare a un tema totalmente obliterato: riaccendere l’attenzione sulla questione sociale. Occuparsene significa porre le condizioni per incidere sull’economia e, quindi, sul modello di sviluppo dello Stato sociale. Ritengo che nell’epoca della post industrializzazione il sociale resti il punto cardine da cui rimettersi in moto. La buona politica non è quella che sta lontano. La buona politica è quella che si lega, che si relaziona per davvero con il mondo delle umane condizioni sociali.

Oggi abbiamo il problema della crisi della rappresentanza. Lei ha parlato dell’urgenza di riavviare dal basso forme di aggregazione sociale. Le chiedo: come dar voce e rappresentare questo sociale che si riaggrega per superare la logica dell’individualismo?

Ho cominciato a studiare la democrazia scegliendo di occuparmi del principio della rappresentanza. Perché c’è una lunga tradizione che individua in essa una violazione della democrazia in quanto autogoverno diretto. Ebbene, secondo tale concezione, la democrazia rappresentativa è un ossimoro. Ma così non è. Infatti, anche le democrazie dirette sono rappresentative del popolo.

La rappresentanza è parte fondamentale della politica che è costruzione di progetti e visione di Paese e di vita. La più significativa dal punto di vista politico è quella che nasce dall’incontro tra aggregazioni sociali e partiti, nel nome di una condivisione di temi e problemi da risolvere. La crisi dei partiti è la crisi della rappresentanza politica. L’insoddisfazione verso le rappresentanze rischia di tradursi, nei cittadini, in insoddisfazione per la democrazia tout court. Questo è il problema che abbiamo oggi e al quale diamo la forma della crisi. Ecco perché, in questa grama stagione della politica, se si vuole difendere la democrazia, diventa cruciale l’impegno dell’associazionismo e dei movimenti, anche nella funzione di sprone ai partiti. Come lo si possa fare non lo so, nessuno di noi lo sa. Ma ci si deve provare.

Nadia Urbinati è titolare della cattedra di Scienze politiche alla Columbia University di New York; politologa e giornalista italiana è naturalizzata statunitense.

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