Trimestrale di cultura civile

Alasdair MacIntyre e l’elogio
della vita “communitarians”

Il filosofo scozzese rilancia la sfida dell’individuo relazionale rifuggendo la tentazione dell’essere solo, impaurito e spaurito. Attraverso la pratica di avere qualcosa di “prossimo”. E perciò una dinamica innovativa e tradizionale di costruzione sociale non alienata. Razionalmente oppositiva ai modelli proposti da questa globalizzazione in declino. Afferma così: “Si tratta da un lato di preservare le forme associative superstiti del passato, che sono la vera radice del vivere in società, che precede la formazione di uno Stato, e dall’altro promuovere forme intermedie di relazione, anche inedite, dal momento che la società consiste appunto per sua natura non di individui staccati, ma di unità associative”. Riflessione a margine del suo nuovo saggio L’etica nei conflitti della modernità. Desideri, ragionamento pratico e narrative (a cura di S. Maletta, D. Mazzola e D. Simoncelli, Mimesis edizioni, Milano 2024)

L’inquietudine di per sé è un aspetto positivo della personalità umana; l’ansia patologica, invece, ci ha insegnato Freud, è una trasformazione tossica di questa inquietudine: è una paura senza nome, alimentata da un’immaginazione pessimistica, a volte catastrofica. E diventa una forma di nevrosi collettiva.

L’antidoto alla paura è non essere soli. Partecipare di esperienze in cui la persona non sia alienata, avere qualcosa di “prossimo”, di positivo e concreto che permette all’uomo uno spazio di iniziativa.

Già negli anni Novanta del secolo scorso aveva suscitato interesse e anche un certo scalpore una frase di Alasdair MacIntyre, filosofo scozzese prima marxista, quindi nicciano, poi diventato cattolico, che di fronte al dilagare di un senso di solitudine e di paura nelle nostre società, nel suo saggio Dopo la virtù (uscito in inglese già nel 1981) scriveva che 1.500 anni fa, di fronte al crollo del mondo antico e alle ombre che si allungavano di un’età barbarica e regressiva in arrivo, “un punto di svolta decisivo si ebbe quando uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare l’imperium romano e smisero di identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale imperium. Il compito che invece si prefissero (spesso senza rendersi conto pienamente di ciò che stavano facendo) fu la costruzione di nuove forme di comunità entro cui la vita morale potesse essere sostenuta, in modo che sia la civiltà sia la morale avessero la possibilità di sopravvivere”. Rinunciando all’utopia di riformare il sistema per intero, e invece affidandosi alla costruzione di comunità locali capaci di fronteggiare, come un piccolo vascello, il mare in tempesta di “nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi”. Questa volta però – avvertiva il filosofo – “i barbari non aspettano al di là delle frontiere: ci hanno già governato per parecchio tempo. Ed è la nostra inconsapevolezza di questo fatto a costituire parte delle nostre difficoltà. Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro san Benedetto, senza dubbio molto diverso”.

L’atomizzazione della società capitalista

Ora, per Mimesis, è uscito un nuovo lungo saggio di MacIntyre, L’etica nei conflitti della modernità. Desideri, ragionamento pratico e narrative, di cui si è parlato a fondo all’Università di Bergamo, in un seminario coordinato da Francesca Bonicalzi.

Il testo si presenta come una summa del pensiero di MacIntyre, che oggi ha 95 anni. E vuole essere un’analisi del comportamento razionale dell’uomo nella società, che recupera le riflessioni etiche addirittura di Aristotele per confutare Adam Smith e tutta la visione della società che dal Settecento a Milton Friedman, all’anarcocapitalismo, ha dominato le nostre menti di moderni.

MacIntyre riflette anzitutto sulla “legge naturale”, considerata come argine all’arbitrio del potere, e soprattutto sul concetto di “bene comune” e su un aspetto fondamentale come quello dell’amicizia e della solidarietà all’interno di un gruppo umano, relazione che fornisce quella distanza critica dai propri desideri necessaria per ordinare correttamente il perseguimento dei nostri fini privati all’interno della società. Il desiderio per MacIntyre rivela l’intima natura appetitiva e razionale dell’uomo, ma non può che trovare la propria realizzazione attraverso la mediazione di un contesto interpersonale, come diceva già Aristotele, sulla scia di Platone, definendo l’uomo come un “animale sociale”.

Oggi che il marxismo come forma di palingenesi, ma anche come motore sociale evolutivo, ha fallito – pensa MacIntyre – la situazione somiglia appunto a quella dei secoli bui del declino del solido mondo antico. Contro l’atomizzazione generata dalla società capitalista, per lui e per i filosofi “communitarians” si tratta da un lato di preservare le forme associative superstiti del passato, che sono la vera radice del vivere in società, che precede la formazione di uno Stato, e dall’altro di promuovere forme intermedie di relazione, anche inedite, dal momento che “la società consiste appunto per sua natura non di individui staccati, ma di unità associative”.

Nato a Glasgow nel 1929, MacIntyre ha studiato a Londra e a Manchester, ha insegnato a Leeds e a Oxford, poi negli Stati Uniti a Princeton e a Yale, all’Università di Notre Dame in Indiana. Dal 1970 si è trasferito negli Stati Uniti. È uno dei principali teorici contemporanei, appunto, dell’etica delle virtù e del comunitarismo, malgrado egli provi a sottrarsi a entrambe le etichette. Lontano dal mainstream culturale dominante, anche in questo saggio non rinuncia alla critica della società di mercato, richiamandosi ad Aristotele e a Tommaso d’Aquino.

Un’educazione inadeguata

Il filosofo non teme di sottolineare gli “orrori” del capitalismo individualista, grazie al quale oggi “hanno un rilievo preminente le strutture della disuguaglianza nazionale e globale che condannano così tanti alla povertà, alla fame e all’esclusione dalle ricchezze culturali della modernità. Ma anche coloro che non sono così condannati ed esclusi soffrono a loro volta di una certa forma di deprivazione, della quale sono egualmente di solito inconsapevoli. Essi sono educati inadeguatamente”.

Condurre una vita buona equivale per MacIntyre a toccare in profondità quanto rende possibile la fioritura dell’uomo, vale a dire ciò che gli consente di essere pienamente se stesso. Il filosofo riflette sulle origini dell’attuale impostazione della società, a partire dalla natura e dalla dinamica dei nostri desideri: scrive, ad esempio, che “la retorica seduttrice della pubblicità e gli inganni del marketing divengono strumenti necessari per l’espansione capitalista; sono strumenti che formano e suscitano desideri di oggetti che gli uomini, in quanto agenti razionali direzionati verso i fini della fioritura umana, non hanno alcuna buona ragione di desiderare”.

Perciò chi è leale fino in fondo con i propri desideri originari e reali si trova spesso “in contrasto con l’ethos delle società capitaliste più sviluppate, e in conflitto con coloro i cui valori coincidono con i valori dominanti di queste società”.

Certo il capitalismo, grazie al supporto della tecnologia, sviluppando una potenza produttiva senza precedenti, negli ultimi tre secoli ha elevato i livelli di vita prima occidentali e oggi globali, ma ha pure prodotto “la distruzione o marginalizzazione delle forme tradizionali di vita creando grosse e talvolta grottesche diseguaglianze di reddito e benessere, attraverso crisi dopo crisi, la creazione ricorrente di una disoccupazione di massa, lasciando quelle aree e quelle comunità che non era conveniente far sviluppare impoverite e deprivate in modo permanente”.

I vari stadi dell’esperienza comunitaria

L’alternativa a questo modello, che non esita a definire appunto “barbaro”, è la “vita comunitaria” – famiglia, ambiente di lavoro, società politica, ma anche gruppi sportivi, orchestre, compagnie teatrali, tutte quelle forme di aggregazione dal basso che aiutano ed educano la persona a cercare beni comuni da perseguire, che sono necessari per godere davvero di quelli individuali. E l’esperienza comunitaria per MacIntyre ha vari stadi: la formazione dell’uomo è legata all’interrelazione, ai rapporti con i genitori, con la cerchia familiare, il clan, fino a raggiungere la città, lo Stato… Per secoli questi livelli sono stati evidenti all’autocoscienza di noi europei e invece oggi stanno vacillando; cancellata ogni appartenenza, l’individuo “libero” e senza frontiere del capitalismo più ideologico si rivela una figura tragica, in balia di poteri sovranazionali ormai incontrollabili.

Per MacIntyre l’“etica delle virtù” si contrappone all’“emotivismo” e al relativismo che sono le maschere costanti del soggetto moderno. E attraverso un dialogo con la tradizione aristotelico-tomistica chiede di riavviare un ripensamento profondo del liberalismo, o almeno di un certo tipo di liberalismo.

“MacIntyre – dice Sante Maletta, curatore del volume – prende sul serio la sfida che Nietzsche lancia nei confronti di ogni possibile fondazione razionale della morale. E la supera con un ritorno intelligente verso Aristotele, e dopo la conversione al cattolicesimo, verso Tommaso d’Aquino che legge come un suo completamento. Dentro un percorso che è sempre stato caratterizzato da un rifiuto del liberalismo inteso non tanto come il rifiuto di una teoria liberale della dinamica economica, della separazione dei poteri, dei diritti civili, ma di un modo di vivere basato sull’individualismo: l’idea, in una parola, che il completamento e la riuscita di una vita umana possano essere indipendenti da tutto il suo contesto”.

È lo stesso McIntyre – commenta Maletta – ad avvertirci che la sua etica ha anche esiti molto concreti: “La sua forza sta nel fatto che se c’è una proposta politica nel suo pensiero, come penso che ci sia, essa è fondata su una morale, ma ancora più su un piano antropologico. Il nucleo forte del pensiero di MacIntyre è la pratica. E le esistenze umane tenderanno a esercitare, pur in maniera sempre fallibile, anche quella pratica di secondo livello che si chiama politica. Ciò deve avvenire in maniera dialogica e il più possibile democratica, tenendo cioè conto del parere di tutti, anche di quelli che nella società non hanno voce. Nella società di oggi, divisa in compartimenti, giocano dinamiche governate da una prospettiva utilitaristica, e il dibattito sulle decisioni da prendere è falsato dal fatto che viene visto nell’ottica di calcoli che nascondono, molto spesso, in maniera ideologica, posizioni di interesse personale. E tuttavia, dice MacIntyre, l’esistenza umana può e deve tendere verso il bene, il che significa che la politica ha un fondamento fuori di se stessa”.

La barriera della legge naturale

“Tommaso d’Aquino – nota Alessandro Ricci (professore all’Università di Bergamo, Dipartimento di Scienze Umane e Sociali) nel suo intervento al seminario – esplicita qualcosa che in Aristotele è in nuce, lo porta alle estreme conseguenze; e MacIntyre lo utilizza in una chiave anticapitalista molto netta. Nella elaborazione medievale della legge naturale, soprattutto in ambito canonistico, c’era l’idea che essa imponga dei limiti alla potestas di chi comanda. Nel commento al Decretum di Graziano, ad esempio, che Tommaso ben conosce, Uguccione, canonista medievale, dice che in una situazione di grave ristrettezza economica, in cui fosse in gioco il diritto di sopravvivenza di sé e dei propri figli, la legge naturale pone un limite anche al diritto di proprietà del signore”, e dunque, per fare un esempio, quello che potrebbe essere considerato come un furto in sostanza non lo è più: “C’è l’idea che la legge naturale sia una sorta di barriera, di limite non solo all’utilizzo dell’autorità politica ma anche a misure di ordine economico e sociale. Essa diventa un criterio di gerarchizzazione delle priorità: nel diritto medievale, la prosecuzione della specie vale di più anche del diritto di proprietà”.

La debolezza dell’individuo isolato

Il professor Andrea Potestio (Università di Bergamo, Dipartimento di Scienze Umane e Sociali), in una conversazione raccolta, definisce MacIntyre come “un autore che oppone resistenza a certe tendenze della società che vanno in una direzione che non riflette sulle potenzialità positive dell’uomo”. L’individualismo “oggi ha molto successo, diventa sempre di più la forma del nostro vivere. Dall’altro lato, però, noi tutti avvertiamo la debolezza dell’individuo isolato. L’aspetto comunitario sul quale MacIntyre insiste tanto è fondato sull’idea di un legame tra gli uomini, anche del passato: cioè di una tradizione. È chiaro che, in questo contesto, l’educazione ha un ruolo fondamentale, ma pensata non come forma di controllo, bensì di collaborazione”.

Può sembrare paradossale che a recuperare questa eredità comunitaria, con un chiaro riferimento al pensiero più laico greco-antico, siano degli autori che riflettono all’interno della società americana di oggi come MacIntyre: “Oltre oceano – dice Potestio – c’è un interesse verso la nostra tradizione europea per certi versi più vivo che da noi. Alcuni autori di saggi sociologici e politici contemporanei ignorano la nozione di bene comune, che MacIntyre invece affronta con grande profondità”.

“La modernità – conclude Maletta – è certamente qualcosa di complesso, però si è ampiamente diffuso un tipo di modernità individualista, atomizzata, tutta basata sulla competizione, e quanto più essa si impone, come nella società nordamericana, tanto più si esprime nel pensiero una nostalgia di un mondo sociale diverso, sul quale i pubblicitari spesso lucrano per vendere i loro prodotti: un mondo originario, candido, ‘caldo’... Queste tensioni si avvertono evidentemente molto di più negli Stati Uniti dove la modernità borghese liberale si è sviluppata al massimo. Ma dove sopravvive una tradizione vivente che proviene dalla cultura europea, legata anche a modelli religiosi antichi”.

Carlo Dignola è giornalista, scrittore e fotografo.

Clicca qui!