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ARTICOLO | Primo Piano di "Atlantide" n. 40 (2017)

L'istruzione, leva dello sviluppo

I paesi avanzati investono molto nell’istruzione. È una scelta vincente? Ecco cosa dicono i risultati, che oggi si possono misurare

Premessa  Obiettivo della scuola è promuovere l’acquisizione di conoscenze, abilità e competenze, in modo formalizzato, aggiornato e innovativo, assicurando a tutti gli alunni la piena maturazione della loro identità personale, civile e professionale. I sistemi scolastici internazionali offrono diversi modelli con cui attuare questo obiettivo realizzando specifiche politiche e modalità di investimento.  Ora, è possibile valutare i risultati che questi investimenti raggiungono? Si può affermare che l’istruzione è fattore dello sviluppo di una nazione? Si può dire che chi investe di più in formazione e sulla qualità degli apprendimenti vince?

Gli effetti dell’istruzione

Gli studi economici hanno messo in evidenza la stretta correlazione tra l’apprendimento scolastico e la crescita economica di un Paese, riaffermando il valore dell’istruzione come leva centrale dello sviluppo.

Le evidenze empiriche internazionali mostrano che quantità e qualità dell’istruzione sono fondamentali, ad esempio, per godere pienamente dei diritti di cittadinanza, per accrescere la propria produttività e migliorare il proprio reddito, per favorire la mobilità sociale. Crescente è l’evidenza che il livello di istruzione concorre a migliorare lo stato di salute e allunga la speranza di vita. Una forte correlazione positiva, ancora, si osserva con diversi indicatori che danno la misura del funzionamento democratico della società, con il grado di partecipazione ad attività politiche e associative, con il livello di legalità. Significativa è l’influenza dell’istruzione sull’esercizio del diritto al lavoro, sulla probabilità di essere occupati. Forte è, infine, anche la correlazione positiva con la posizione sociale che si raggiunge nel lavoro e con la probabilità di partecipare in età adulta all’apprendimento permanente.

Per molto tempo il legame tra istruzione e sviluppo economico di una nazione è stato misurato con il numero di anni di scuola frequentati, mentre ora il rapporto tra i due fattori è stabilito prendendo in considerazione le conoscenze e competenze acquisite negli anni di scuola, la cui misura è stata resa disponibile dalla diffusione delle indagini internazionali sugli apprendimenti, prima quella della IEA, poi quelle dell’OCSE. Negli ultimi anni si è accentrata l’attenzione anche sui cosidetti soft skills.

 

Investire nell’istruzione

Oggi tutti i Paesi, non solo quelli ricchi, investono una quota non trascurabile del loro Prodotto Interno Lordo nell’istruzione. Secondo le stime dell’Unesco nel 2013 la media mondiale della spesa in istruzione era pari al 4,7% del PIL. La spesa varia tra le diverse aree del mondo per via delle differenze tra Paesi per numero di studenti nella popolazione e reddito pro-capite.

In particolare la spesa media mondiale non sembra molto più bassa di quella dei Paesi avanzati aderenti all’OCSE, pari al 5.2% nel 2013 considerando tutti i livelli di istruzione. In Italia, nello stesso anno, la spesa complessiva era pari al 4.0% del PIL, per la combinazione di una minore spesa per studente (sia in valore assoluto che in relazione al pil pro-capite cfr. tav.1) e di una minore incidenza del numero di studenti sulla popolazione totale.

 

Tavola 1 – Spesa per studente (anno 2013)

Paesi

Spesa annua per studente

(migliaia di dollari Usa convertiti con le PPP)

Spesa annua per studente in rapporto al PIL pro capite (punti percentuali)

Elementari

Scuola media e superiore

Universita’

Elementari

Scuola media e superiore

Universita’

 

 

 

 

 

 

 

Francia

 7,2

11,5

16,2

18

29

41

Germania

8,1

11,1

16,9

18

25

38

Italia

8,4

9,02

11,2

23

25

31

Spagna

7,0

8,5

12,6

21

26

38

Regno Unito

10,7

11,6

25,7

27

31

66

Stati Uniti

11,0

13,6

27,9

21

25

54

 

 

 

 

 

 

 

Media Ocse

8,5

9,8

15,7

22

25

61

Fonte: OCSE- Education at a Glance (2016)

 

 Il considerevole aumento negli ultimi decenni delle risorse mondiali dedicate all’istruzione è confermato dalla forte espansione dei tassi di scolarizzazione. Il numero dei bambini che completa la scuola primaria, in rapporto al totale del gruppo di ragazzi della stessa età, è salito dal 84 all 91% tra il 1991 e il 2012; nelle scuole secondarie (di primo grado) gli iscritti, rispetto ai ragazzi della stessa età, sono passati dal 71 al 85% tra il 1999 e il 2012. Un’altra indicazione che va nella stessa direzione è che negli ultimi vent’anni il valore dei progetti della Banca Mondiale relativi all’istruzione, rispetto al totale dei prestiti annuali, è passato da percentuali intorno al 4% degli anni Ottanta all’8% degli ultimi anni.

 

Spendere in istruzione è un investimento nel futuro

Perché i Paesi spendono così tanto per l’istruzione, visto che gran parte di queste risorse viene dal bilancio dello Stato piuttosto che direttamente dagli utenti del servizio?

La risposta più immediata è che la spesa in istruzione è un investimento nel bene più prezioso per la futura crescita di un Paese, cioè il suo capitale umano. Inoltre, le persone allocano direttamente o indirettamente risorse alla propria istruzione o formazione perché ne derivano un piacere immediato, allo stesso modo, per esempio, che nell’andare al cinema o a teatro: si tratterebbe cioè di un atto di consumo scelto dagli individui sulla base delle loro preferenze, dei prezzi dell’istruzione, dei loro vincoli di bilancio.

Occorre chiarire due questioni: la prima riguarda la natura di questa spesa, perché l’equiparazione tra spesa in istruzione e spesa per un investimento non è affatto ovvia. L’altra questione da affrontare è il suo rendimento: anche riconoscendo che le risorse in istruzione siano un investimento, va verificato se esso sia poi economicamente sostenibile, cioè se generi rendimenti sufficienti.

Gli economisti in genere ritengono che l’istruzione sia un investimento perché accresce la capacità degli individui di mettere in atto comportamenti che innalzano il reddito, e, più in generale, il benessere futuro loro e della comunità a cui appartengono; ma la vera chiave di lettura sta nel fatto che tale investimento costituisce la soluzione ai problemi connessi con alcuni profondi cambiamenti dell’assetto economico mondiale.

Un primo cambiamento è quello dei sistemi di produzione ormai sempre più dominati dall’uso pervasivo della tecnologia dell’informazione e delle telecomunicazioni ICT. Ne è derivata una domanda di competenze molto diverse da quelle tradizionali. La capacità degli individui di produrre dipende dal loro patrimonio di abilità, capacità tecniche e conoscenze; vi sono incluse la forza fisica, la resistenza alla fatica, l’abilità manuale, la capacità di comunicare, di adattarsi alle nuove circostanze, di aggiornare le proprie conoscenze. L’importanza di queste doti nel determinare la quantità di prodotto ottenibile, per esempio, in un’ora di lavoro non è fissa nel tempo e nello spazio, ma è storicamente determinata, in primo luogo dal paradigma tecnologico prevalente (l’agricoltura, la fabbrica fordista o il settore delle costruzioni, ecc.). Nel nuovo paradigma i lavoratori capaci di adattarsi rapidamente, di comunicare con efficienza attraverso i nuovi strumenti, di utilizzare le nuove tecnologie in modo creativo, trasformando radicalmente procedure e processi produttivi, hanno goduto e godono di elevati premi salariali. Queste caratteristiche sono in genere più sviluppate tra i lavoratori con livelli di istruzione più elevati.

Un altro cambiamento è il progressivo invecchiamento e la maggiore longevità della popolazione: per compensare il più elevato rapporto tra popolazione inattiva e popolazione in età di lavoro è necessario che i nuovi lavoratori siano più produttivi e siano in grado di lavorare più a lungo e quindi di adeguare il loro aggiornamento professionale lungo tutto il ciclo di vita.

Il terzo grande cambiamento è connesso con il contesto di accresciuta globalizzazione e con la collocazione dei vari Paesi nella specializzazione internazionale del lavoro; per Paesi ricchi e avanzati come quelli europei la naturale vocazione produttiva sembrerebbe essere quella centrata sulle produzioni di punta e più innovative, a più alta intensità di capitale umano, le produzioni a più alta intensità di lavoro semplice essendo invece destinate a concentrarsi sempre di più in Paesi dove il lavoro è relativamente abbondante e a buon mercato.

 

Quanto rende investire in capitale umano

Valutare il rendimento dell’investimento in capitale umano è una operazione molto complessa: l’istruzione è un fattore determinante di molti esiti individuali e aggregati che spesso non sono immediatamente o ovviamente misurabili e producono effetti lungo tutto l’arco della vita.

Tradizionalmente la valutazione dei rendimenti del capitale umano, sia quelli privati che quelli sociali, ha tenuto conto soprattutto, se non esclusivamente, dei benefici di reddito e occupazionali non solo perché sono più facili da misurare, ma anche per la tendenza degli economisti a far coincidere il benessere delle persone con il valore monetario del proprio reddito. Esistono però anche altri canali altrettanto importanti attraverso cui il capitale umano influenza il benessere individuale e collettivo. Ad esempio c’è una diffusa consapevolezza che l’istruzione da un lato riduce gli incentivi a delinquere e i comportamenti a rischio dal punto di vista della salute, dall’altra favorisce un maggior grado di libertà politica nell’organizzazione sociale.

 

I rendimenti privati misurati con i differenziali di reddito

Il primo e più immediato approccio alla valutazione dei rendimenti dell’istruzione consiste nel considerare il differenziale salariale tra individui che hanno un diverso livello d’istruzione.

Secondo i dati dell’OCSE, ad esempio, nella maggioranza dei Paesi sviluppati le persone di età compresa tra il 25 e i 64 anni con un titolo di istruzione universitario guadagnano almeno il 40% in più di quelle che hanno ottenuto il diploma di scuola secondaria (Tav.a 2); nella media dei Paesi OCSE questo differenziale è pari al 55%, con valori che vanno dal 20% per chi ha una laurea triennale a valori di oltre il 90% per chi ha un dottorato.

 

Tavola 2 – Differenziali salariali per livello di istruzione in alcuni Paesi sviluppati, 2008-09 (numero indice: scuole medie superiori = 100)

Paesi

Anno

Medie inferiori o meno

Università

(1)

25-64 anni

25-64 anni

Francia

2012

89

141

Germania

2014

84

158

Italia

2012

86

142

Spagna

2013

80

140

Regno Unito

2014

76

148

Stati Uniti

2014

74

168

Media Ocse

 

81

155

(1) Include programmi triennali, magistrali e dottorati

Fonte: OCSE- Education at a Glance (2016).

 

I differenziali salariali tra chi ha un diploma di scuola superiore e chi è in possesso della licenza media sono meno accentuati, ma comunque compresi tra l’ 11 e il 36%. In Italia i differenziali salariali per livelli di istruzione sono solo di poco inferiori a quelli della media dell’OCSE.

 

I rendimenti privati misurati con il tasso di rendimento interno

L’uso del differenziale salariale come indicatore della redditività dell’investimento in istruzione appare tuttavia inappropriato perchè trascura sia i costi dell’istruzione che quei benefici che derivano dalle migliori prospettive occupazionali. Nella valutazione dei costi è necessario includere quelli diretti, dovuti alle tasse di iscrizione, all’acquisto dei libri, al trasporto o all’affitto, e quelli indiretti, dovuti alla rinuncia al salario che si sarebbe potuto guadagnare se si fosse abbandonato lo studio. Ma la componente forse più importante da considerare sono i vantaggi che derivano dalla diversa probabilità (e stabilità) dell’occupazione derivante da livelli di istruzione diversi. Anche in questo caso, l’evidenza empirica è abbastanza concorde.

 

Gli effetti dell’istruzione su altre componenti del benessere individuale

I benefici derivanti all’individuo dall’investire in istruzione travalicano la dimensione esclusivamente reddituale per coinvolgere altre sfere del benessere: gli effetti sulla salute, sui comportamenti a rischio, sulla dimensione della partecipazione alla vita sociale del Paese. Questi elementi sono ovviamente molto difficili da quantificare, ma la ricerca empirica ha comunque fatto qualche passo in avanti e cominciano a essere disponibili una serie importante di risultati che indicano come i benefici derivanti dai fattori non monetari siano ampi.

 

Investire ancora

Si può sinteticamente concludere che investire in istruzione è ancora una buona scelta e che, dopo aver puntato per molto tempo sull’incremento del numero di anni di frequenza degli studenti credendo di realizzare così un automatico incremento del capitale umano, ora la valutazione del rendimento degli investimenti in istruzione si calibra su quello che la persona impara, non su quanti anni frequenta la scuola: indipendentemente da quanto stai a scuola, conta quello che sai e sai fare. Questo giustifica il perché negli ultimi anni in moltissimi Paesi si è andata diffondendo la misurazione oggettiva degli apprendimenti attraverso l’uso di test standardizzati somministrati agli studenti di diversi ordini e gradi di scuola, nell’ambito di indagini nazionali o internazionali.

Negli ultimi anni la ricerca empirica, utilizzando misure oggettive di capitale umano, quali quelle fornite dall’indagine OCSE-PISA e dati dei Paesi OCSE tra il 1960 e il 2000, stima che un aumento del punteggio PISA di 100 punti aumenta il tasso di crescita del reddito procapite dell’1,89% all’anno. Questi risultati sembrano ridare forza a coloro che giudicano l’investimento in capitale umano come la via più promettente per uscire dalla lunga stagnazione in cui l’economia italiana e non solo si dibatte da anni.

Le azioni di politica economica da mettere in campo per invertire la tendenza e aumentare gli incentivi all’accumulazione di capitale umano sono stati autorevolmente indicati da molti esperti di politiche economiche in molte recenti occasioni. Si tratta di lavorare sul prezzo del capitale umano e sulle sue quantità. Il capitale umano dei nostri giovani merita di essere remunerato meglio: da questo punto di vista occorre aprire i mercati delle professioni, ridurre la segmentazione del mercato del lavoro a sfavore dei più giovani e dei più istruiti, riequilibrare le politiche di assunzione delle Pubbliche Amministrazioni.

 

Innovare a scuola

È da richiamare, infine, la sfida dei prossimi anni, in Italia e nel mondo: quella della innovazione della scuola.

Questo richiamo appare obbligatorio alla luce delle nuove evidenze, prodotte in primo luogo dai lavori analitici del premio nobel James Heckman, circa l’importanza delle soft skills oltre che delle conoscenze nel determinare il benessere futuro delle persone. La perseveranza, la serietà sul lavoro, l’affidabilità, l’apertura agli altri sono caratteristiche che esaltano le conoscenze dell’individuo e ne moltiplicano gli effetti sul benessere proprio e su quello degli altri.

La questione che si pone è però quale tipo di scuola occorre per aiutare i ragazzi a sviluppare queste caratteristiche?

È il tempo di impostare e sviluppare sempre più e ovunque modelli di scuole come comunità di comunità e come scuola della comunità, in rapporto vivo e proficuo con le realtà territoriali, con i soggetti educativi, con il profit e il non profit. Occorre promuovere esperienze di scuole interpretate come soggetto culturale per l’arricchimento della vita personale e sociale della persona, fondate su una concezione vitale della cultura, sul protagonismo degli allievi, sulla dinamica di comunità (classe, scuola, territorio), su un “curricolo per la vita” dei giovani, sulla flessibilità organizzativa, logistica e delle risorse umane, sul concorso del territorio al compito educativo e formativo.

Per realizzare questo tipo di scuola è richiesta una progettazione viva, unitaria, progressiva, partecipata, come ricerca-azione, sostenuta da un accompagnamento formativo stabile interno ed esterno: il lavoro di progettazione dovrà concentrarsi sulla elaborazione di un curricolo significativo articolato sulle tappe di crescita degli allievi, realizzate alternando in modo intelligente l’aula, il laboratorio interno e l’esperienza formativa esterna all’istituto e segnate da compiti di realtà significativi e reali. Decisivo sarà per questo l’avvio di alleanze tra le scuole dello stesso territorio e gli attori ivi presenti; tra le scuole della stessa tipologia e settore anche a livello nazionale per elaborare metodologie e strumenti basati su ampie comunità professionali; tra le scuole e gli attori corresponsabili dell’alternanza scuola-lavoro e dei processi innovativi.

Investire in istruzione, innovare a scuola e far crescere e riconoscere il valore del capitale umano: sono queste le leve che potranno dare stabilità allo sviluppo economico e sociale dei popoli e delle nazioni in questo inizio di nuovo millennio.

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