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ARTICOLO | Primo Piano di "Atlantide" n. 37 (2016)

Un piano d’azione per disinnescare la bomba demografica

La crescita dell’Africa sub-sahariana è alimentata da generazioni di giovani, molti dei quali scelgono l’emigrazione nella vicina Europa. Un’azione condivisa di governo dei flussi di mobilità internazionale è irrinunciabile

Se la seconda parte dello scorso secolo ha visto accendersi – e poi gradualmente smorzarsi – le paure per lo scoppio della cosiddetta “bomba demografica” dovuta alla crescita della popolazione mondiale, con l’avvio del nuovo millennio l’attenzione si è spostata su un nuovo pericolo incombente: l’esplosione della mobilità internazionale. 
In altri termini, la prospettiva di una fuga di massa dal Sud del mondo, non solo per sopravvivere a guerre, persecuzioni e calamità naturali di varia natura, ma più semplicemente per riuscire a conquistare una vita dignitosa e poter costruire un futuro per sé e per i propri cari. È la “bomba demografica” del nostro tempo. Un fenomeno che è destinato ad accompagnarci lungo il XXI secolo e del quale, attraverso la cronaca quotidiana delle azioni di soccorso e degli sbarchi di immigrati, stiamo percependo solo la componente più evidente e problematica. Assistiamo a una realtà che vive costantemente sul filo dell’emergenza, senza forse renderci pienamente conto che abbiamo di fronte solo la punta emersa di un iceberg con cui saremo inevitabilmente costretti a imbatterci.
Le ultime statistiche delle Nazioni Unite (United Nations, 2016) mettono in luce come negli ultimi quindici anni i migranti a livello planetario si siano accresciuti del 41%, ossia a una velocità che è doppia rispetto al ritmo di aumento della popolazione mondiale. La stessa fonte (United Nations, 2015) documenta e avverte che i Paesi più poveri – per lo più localizzati nell’Africa Sub-sahariana – potrebbero non solo non allentare la pressione migratoria di natura “economica” sul fronte europeo, ma persino accrescerla nei prossimi decenni. La loro dinamica demografica produrrà 400 milioni di abitanti in più tra oggi e il 2036, di cui 166 milioni saranno giovani adulti 20-44enni. Ciò significa che, da subito, nel profondo Sud del mondo si rende necessario creare mediamente almeno 8-9 milioni di posti di lavoro in più ogni anno, unicamente per assorbire l’offerta aggiuntiva derivante dalla crescita demografica della popolazione più giovane in età attiva. E un insuccesso in tal senso non potrà che produrre nuovi candidati a un’emigrazione dettata dal bisogno di sopravvivere.

Chi si ferma è perduto
La storia insegna che l’immigrazione non è di per sé una realtà malefica né sublime: è il risultato di un processo che si manifesta fisiologicamente, con toni più o meno intensi, in una popolazione aperta. È il punto di arrivo di scelte operate da persone che, a fronte delle difficoltà nel continuare a vivere entro il contesto in cui sono nate e/o cresciute, decidono di inseguire altrove la legittima aspirazione a una vita migliore. Nel farlo essi portano al seguito un bagaglio che contiene il loro vissuto, fatto di esperienze, abitudini, tradizioni, lingua, cultura, religione. Si arriva nel Paese d’approdo sia perché si fugge da drammi umanitari, da guerre o semplicemente dalla miseria, sia perché talvolta “quel Paese” risulta particolarmente appetibile e attrattivo: per le opportunità lavorative che lascia intravvedere; per l’esistenza di reti etniche, amicali e familiari capaci di offrire un supporto; per il tessuto sociale, culturale e umano che lo caratterizza.
Quali conseguenze ha tutto questo per la società presso cui un flusso migratorio si indirizza? Se facciamo riferimento all’Italia, quando oggi parliamo degli immigrati nel nostro Paese – presenti a qualunque titolo compresi i cosiddetti “clandestini” – consideriamo circa 6 milioni di individui, più del totale degli abitanti di una grande regione come la Campania (Blangiardo, 2016). Ci confrontiamo con una realtà tanto importante quanto ancora relativamente recente. Un fenomeno alimentato da persone che sono arrivate in modo massiccio dalla seconda metà degli anni Novanta e si sono distribuite sul territorio senza tuttavia provocare significativi sconvolgimenti, anche laddove la densità abitativa era tutt’altro che bassa e dove talune problematiche – si pensi all’annosa questione della casa – erano già fonte di tensione nella comunità autoctona. Il primo dato che emerge è pertanto la presa d’atto di una lodevole capacità del nostro Paese nell’acquisire ingenti flussi di persone “altre” e nel saper dar loro una collocazione, normalmente dignitosa, dal punto di vista abitativo, familiare e lavorativo. Quella degli immigrati è dunque una presenza per certi versi rivoluzionaria che non ha generato rivoluzioni. È una realtà che si è progressivamente radicata sul territorio, ha assunto sempre più connotati familiari e si può legittimamente affermare che, anche con il contributo delle seconde generazioni, stia progredendo lungo la via dell’integrazione. Si tratta di un universo che, tra l’altro, senza grandi clamori mediatici va incamminandosi con intensità crescente verso la conquista della cittadinanza italiana. Lo testimoniano i quasi 180 mila stranieri divenuti italiani nel 2015 – di cui il 37% minorenni (Istat, 2016) – mentre ancora si va discutendo se e come modificare la tanto criticata legge 91/1992 che ha pur ha consentito tale risultato straordinario.

Convenienza e necessità
Volendo affrontare il dibattito sul contributo che l’immigrazione ha offerto in questi anni e potrà continuare a offrire al sistema Italia, è utile soffermarsi su un paio di considerazioni con il supporto di qualche dato statistico. La prima è che in un Paese dove, nel 2015, si è toccato il minor numero assoluto di nascite dai tempi dell’Unità nazionale (486 mila) e si è manifestato un calo dei residenti come non capitava dal lontano 1918 (Istat, 2016), l’apporto dei figli delle coppie straniere va certamente visto come salutare, ma va anche subito aggiunto che è del tutto illusorio credere – e far credere – che gli immigrati possano sostanzialmente riempire le nostre culle vuote. È vero che da qualche migliaio di nati stranieri di inizio anni Novanta si è progressivamente saliti sino a 80mila nel 2012, ma poi la frequenza è scesa a 78mila nel 2013, a 75mila nel 2014 e il resoconto del 2015 ne segnala 72mila (Istat, 2016). Di fatto, anche le donne immigrate, che ormai si caratterizzano per una fecondità media inferiore ai due figli, hanno imparato che essere genitori non è un compito facile, né facilitato.
Un secondo elemento di riflessione riguarda un certo luogo comune secondo cui solo grazie agli immigrati – in quanto giovani e lavoratori – si può arginare il fenomeno dell’invecchiamento demografico e risolvere il problema delle pensioni e degli squilibri che vanno prospettandosi sul fronte della spesa sanitaria. Anche in questo caso è bene ricondurre l’affermazione entro i dovuti confini. Infatti, se non c’è dubbio che arrivano, come sono arrivati in questi anni, forti contingenti di giovani che tendenzialmente rallentano – seppur non arrestano – la crescita del rapporto tra numero di pensionati e popolazione attiva, è anche vero che in un prossimo futuro questi stessi giovani saranno vecchi; e allora in aggiunta all’invecchiamento prodotto da chi è nato in Italia – si pensi al milione di figli del baby boom degli anni Sessanta che attorno al 2030 diverranno over 65 – avremo centinaia di migliaia di persone (si stima circa 200mila casi annui a partire dal 2030) che senza essere nate nel nostro Pese invecchieranno qui: saranno gli “anziani aggiunti” in un Paese di anziani. Il vero contributo dell’attuale immigrazione (ancora) giovane è dunque – a meno di ipotizzare flussi in ingresso via via crescenti e sostanzialmente ingestibili – solo quello di regalarci un po’ di tempo in più per tentare di mettere a punto i necessari adattamenti del sistema di welfare (Blangiardo, 2014).
In ultima analisi, per sostenere l’utilità dell’immigrazione nella società italiana, non è opportuno insistere in una lettura dei dati statistici che rischia di essere approssimata e scorretta, quando non strumentale. Andrebbe semmai messo l’accento su quello che è il vero tesoro al seguito dell’immigrazione: l’aspetto culturale-relazionale. Da sempre l’umanità evolve trasferendo e ricevendo esperienze di natura diversa, ed è tradizionale regola dell’uomo quella di apprendere, filtrare e valorizzare il meglio delle diversità che ha incontrato. Stiamo imparando a conoscere l’altro, e l’altro sta imparando a conoscere noi e il nostro Paese. Non va poi mai dimenticato che, al di là di ogni considerazione di mera convenienza, le migrazioni rappresentano ancora la reazione fisiologica agli squilibri demo-economici del pianeta. Un fenomeno che appare talvolta inevitabile e che andrebbe affrontato e governato agendo in primo luogo sulle cause che lo determinano. Perché, se oggi sono soprattutto i profughi dalla Siria ad alimentare un dramma che sembra epocale – pur con numeri che sarebbero agevolmente assimilabili entro una logica di accoglienza europea – non dimentichiamoci che dietro l’angolo ci sono i “grandi numeri” dell’Africa sub-sahariana, con una crescita alimentata per lo più da generazioni di giovani, molti dei quali vorranno costruire il loro futuro scegliendo la via di fuga dell’emigrazione, spesso proprio nella vicina Europa. Con tali premesse un’azione, concordata e condivisa, di governo dei flussi di mobilità internazionale diventa necessaria e irrinunciabile. Così come negli anni Settanta fu concepito a Bucarest il “Piano mondiale d’azione” (Colombo, 1975) al fine di contrastare – in ultima analisi con successo – la bomba demografica di allora, un altro specifico “Piano d’azione” va oggi messo in campo con l’obiettivo di disinnescare questo nuovo ordigno. D’altra parte sappiamo bene come la medicina per governare i flussi di mobilità dall’Africa sia inscindibilmente connessa tanto al miglioramento delle condizioni economiche e di vita che gravano sui popoli del Sud del mondo, quanto al contenimento degli squilibri che, amplificati dalle antenne della globalizzazione, incentivano la fuga dalla miseria verso un mondo luccicante. Ben vengano dunque sia le vere e proprie politiche a supporto di un piano per lo sviluppo del continente africano, sia tutte quelle iniziative che introducono regole di migrazioni “circolari” capaci di trasformare l’emigrazione da drammatico abbandono definitivo della propria terra a esperienza (temporanea) in grado di restituire ai Paesi d’origine risorse umane arricchite e pronte a fare sviluppo.
Oggi la sensibilità sul tema migratorio è ai massimi livelli per fatti di cronaca che preferiremmo non leggere. Cogliamo dunque l’occasione perché si costruisca un unanime consenso attorno all’idea che il “Piano d’azione” per questa nuova bomba demografica rappresenti non solo una necessità emergenziale o un dovere etico: è – se non “a costo zero” – una scelta “intelligente” che ci si dovrebbe attendere da governanti “lungimiranti”.

Riferimenti bibliografici
Blangiardo G.C. (2014), Gli aspetti statistici, in Fondazione Ismu, XX Rapporto sulle Migrazioni, Franco Angeli, Milano.
Blangiardo G.C. (2016), Gli aspetti statistici, in Fondazione Ismu, XXI Rapporto sulle Migrazioni, Franco Angeli, Milano.
Colombo B. (1975), La conferenza di Bucarest sulla popolazione e il piano d’azione, in Le Scienze, n. 79, marzo, pp. 4-14.
Istat (2016), Bilancio demografico 2015, www.istat.it
United Nations (2015), World Population Prospects. The 2015 Revision, http://esa.un.org/unpd/wpp/
United Nations (2016), Popfacts, 2015/4.

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