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ARTICOLO | Primo Piano di "Atlantide" n. 42 (2018)

Una terra da conoscere oltre i luoghi comuni

Alla scoperta di una realtà oltre le carte geografiche. I popoli africani si sono distribuiti nel continente con logiche ben diverse da quelle che hanno portato conquistatori e controllori esterni a disegnarne l’attuale geografia

La prima volta che ho visitato l’Africa era il 1990: Kenya, Tanzania e Uganda. Ritornai due anni più tardi: Tunisia e Marocco. A oggi credo mi siano rimasti da visitare soltanto il Burkina Faso, il Burundi e lo Swaziland e non c’è giorno che non scopra un angolo nuovo anche nella città in cui vivo attualmente, Abidjan, la capitale della Costa d’Avorio.  So già che arriverò alla fine dei miei giorni avendo avuto l’opportunità di conoscere solo una frazione percentuale delle terre, delle culture, delle arti, dei profumi, dei colori, dei suoni, in una parola dei popoli che compongono questa immensa e sconfinata parte del mondo che noi troppo semplicisticamente e troppo velocemente etichettiamo come Africa, pensando, a torto, di averne compreso il significato.
Esistono tante “Afriche” e nonostante politicamente i Paesi che oggi fanno parte del continente siano 54, secondo le Nazioni Unite (55 secondo l’Unione Africana per via del Sahara Occidentale… una lunga storia), le “Afriche” sono molte di più. I confini geopolitici attuali, in molti casi frutto di tratti di penna sulla carta geografica appartenenti a periodi storici precedenti e per la maggioranza dei casi tristi e bui, legati a colonialismi di varie connotazioni – Africa francofona, Africa anglofona, Africa lusofona e Africa araba – aiutano marginalmente a differenziare la miriade di popoli, tribù, ceppi familiari che nell’arco della storia dell’umanità si sono insediati, spostati, disseminati sul continente.
La realtà è molto più complessa delle carte geografiche. I popoli africani si sono disseminati nel continente con logiche socio-economiche e politiche ben diverse da quelle che hanno portato conquistatori/controllori esogeni a disegnare la geografia dell’Africa così come la vediamo oggi. Le migrazioni interne sono state nel tempo dettate da questioni climatiche (come l’espansione delle aree desertiche, le stagioni monsoniche ai tropici, i cambiamenti climatici e la siccità), socio-politiche (conflitti religiosi, conflitti etnico-tribali e guerre) e socio-economiche (come la lotta per l’accaparramento di risorse naturali quali petrolio, minerali preziosi, foreste e legname, commodities agricole, terreni) da parte di popolazioni locali e/o di nazioni esterne al continente.
In realtà esiste un concetto di fondo: siamo tutti africani, l’umanità è africana. Credo che gli etnologi siano largamente concordi nell’identificare l’Africa come la culla che ha visto nascere l’umanità ed è per questo motivo che noi tutti dovremmo dedicare un po’ più di tempo allo studio approfondito delle storie di questo continente. Noi stessi, italiani, con la nostra cultura neo-latina risalente all’epoca dell’Impero Romano, siamo stati fortemente influenzati dalle culture e dalle competenze scientifiche dell’epoca, particolarmente quelle nordafricane: cosa conosciamo della storiografia marocchina, algerina, tunisina, libica, egiziana (quest’ultima forse ci è un po’ più nota grazie al Museo Egizio di Torino e ai grandi spazi all’interno dei Musei Vaticani)? Cosa sappiamo della storia e della cultura del Corno d’Africa e dell’Africa orientale (Eritrea, Etiopia, Kenya, Ruanda, Tanzania, Somalia ecc.), dell’Africa occidentale (Capo Verde, Costa d’Avorio, Ghana, Guinea, Liberia, Nigeria, Senegal, Sierra Leone tanto per elencarne alcuni), dell’Africa centrale (Angola, Camerun, Gabon, Repubblica Democratica del Congo ecc.) e dell’Africa australe (Botswana, Sudafrica ecc.)? Non vorrei sbagliarmi, ma ai miei tempi (e probabilmente ancora oggi) non ho memoria di aver visto sui testi di storia del liceo almeno una serie di capitoli dedicati alla storia del continente africano, forse qualche paragrafo qua e là.
L’Africa è una terra immensa, come testimonia in maniera singolare la cartina qui sotto, in cui viene graficamente sovrapposta ad altri Paesi e continenti: praticamente tutta l’Europa può essere incorporata dal territorio della Repubblica Democratica del Congo.

Ebbene, data questa vastità, come possiamo pensare di poter racchiudere e comprendere, quasi fosse un blocco monolitico omogeneo, il continente africano?
Questa premessa è necessaria per proporre alcuni elementi di riflessione utili a meglio comprendere le realtà africane di oggi, alcune delle dinamiche interne del continente e contribuire a meglio valutare problematiche di stringente attualità, relative al problema dei flussi migratori così importanti, dall’Africa verso l’Europa.
Guardando alle economie africane, le linee guida per analizzare la situazione sono le seguenti.
La situazione di partenza (baseline). I 54 Paesi partono da condizioni immensamente diverse: il Sudafrica non è il Mali e il Marocco non è la Nigeria, il Sudan è ben diverso dal Sud Sudan e via dicendo.
Le dimensioni. I due milioni di abitanti del Burundi non sono i centottanta milioni della Nigeria, i quindici milioni di tunisini non sono gli ottanta/novanta milioni di egiziani...
Le condizioni economiche. La ricchezza mineraria (reale) della Repubblica Sudafricana è diversa dalla ricchezza energetica (ipotetica) del Mozambico, il potenziale minerario della Repubblica Democratica del Congo è diverso dal potenziale geotermico del Kenya o dell’Etiopia e inoltre molti Paesi africani non sono dotati di potenziali di ricchezze naturali di cui altri sono invece straordinariamente dotati.
Aggiungerei a queste premesse un’altra considerazione: quando si guarda al cosiddetto Prodotto Interno Lordo (PIL) reale e/o potenziale dei vari Paesi africani, bisogna essere sempre molto attenti anche alla percentuale di tale PIL che non è direttamente controllata dalle autorità di quei Paesi. Non sto qui a sottolineare come troppo spesso, specialmente quando alcune economie nazionali sono fortemente dipendenti da una sola risorsa (petrolio piuttosto che oro o altro), una grossa fetta di tale ricchezza sia gestita (e direttamente convogliata) da multinazionali che non hanno sede in quegli Stati: in parole povere, la ricchezza generata da tali risorse non è disponibile nel Paese di produzione delle risorse stesse.
Fatte queste premesse, tutto ciò resta ancora il minimo comune denominatore di tutti i 54 Paesi africani, ma credo che questo sia un fattore comune su scala mondiale, ovvero che la disparità economica tra la classe di controllo e le classi meno abbienti della popolazione sia fortemente marcata. Personalmente sono incline a credere che la cosiddetta classe media sia negli ultimi decenni mediamente più povera e più vicina alla base della piramide piuttosto che al vertice. Dobbiamo considerare tale disparità come il primo fattore di rischio per potenziali crisi socio-economiche e instabilità politico-sociali in varie regioni del continente. Quanto detto sopra è comunque indicativo del fatto che non si può genericamente parlare di economia africana, ma dobbiamo declinare tale connotazione su ogni singolo Paese.
Ovviamente le stesse considerazioni fatte per le diversità delle economie africane vanno fatte per le situazioni politiche: alcuni governi sono caratterizzati da un forte controllo centralizzato nelle mani di pochi, spesso appartenenti a una sola etnia, che lasciano il Paese in una situazione di continua crisi potenziale; altri hanno intrapreso un percorso di democratizzazione che oggi si trova a vari livelli di “maturità”.
In generale possiamo affermare che l’avvento delle nuove tecnologie di comunicazione (di cui l’Africa è fucina, come vedremo più avanti), i social network, la diffusione degli strumenti di mobilità e la miriade di “app” facilmente utilizzabili sullo smartphone, hanno comportato una diffusa e maggiore consapevolezza delle situazioni e delle condizioni socio-politiche in cui ogni Paese, regione, città, villaggio africano vive: tale situazione non può che essere vista positivamente e considerata un fortissimo acceleratore di processi di diffusione e democratizzazione delle scelte socio-politiche che avvengono nelle varie capitali del continente.
Un altro tema comune a tutti gli Stati africani è quello che nel gergo degli internazionalisti viene chiamato demographic dividend ovvero il dividendo demografico: la grande maggioranza della popolazione africana è straordinariamente giovane se paragonata alla situazione europea o italiana. Oggi, su una popolazione di circa un miliardo e duecento milioni di persone, il 41% ha meno di 14 anni, la percentuale di popolazione che ha da 15 a 24 anni è pari al 19,4%, questo significa che il 60,4% (725 milioni di africani) ha meno di 25 anni. È evidente che o si creano le condizioni per cui questa massa di umanità sia in qualche maniera impiegata, utilizzata, occupata, impegnata (lascio a voi la scelta del termine che più ritenete opportuno) – e qui sta la positività del termine “dividendo demografico” – o questa stessa massa di persone cercherà di spostarsi in parti di mondo dove pensa che queste condizioni esistano, oppure – ben più malaugurata ipotesi – può venire fomentata, indirizzata (e, purtroppo, armata) per dare sfogo alla più umana delle situazioni che storicamente fanno parte del nostro DNA: la lotta per la sopravvivenza.
La vastità del continente, l’enormità del problema connesso al demographic dividend, le complessità legate ai temi economici e socio-politici, fanno sì che qualunque ipotesi di soluzione, o quantomeno di direzione di lavoro, per affrontare tali temi non possa prescindere da un tavolo di concertazione sovranazionale. È pertanto evidente che il mondo, tutti noi, non possiamo non farci carico di contribuire fattivamente alla ricerca e alla messa in atto di soluzioni a tali temi.
Vorrei sgombrare il campo da facili accuse di populismo o neo-colonialismo, non sto qui affermando che dobbiamo attivarci in modalità “aiuto” nei confronti dell’Africa: gli africani hanno tutti gli elementi e le capacità per trovare e gestire le soluzioni, ma noi, i non-africani, non possiamo non renderci partecipi nell’implementare tali soluzioni, se non altro perché, in fondo, anche noi siamo stati parte della creazione delle condizioni attuali in cui versano quelle terre.
Oggi il settore privato sta giocando un ruolo cruciale per lo sviluppo socio-economico del continente rispetto agli ultimi dieci anni. Molti governi hanno trovato nel partenariato pubblico-privato (in inglese, Public-Private Partnership o PPP) la chiave di volta per riuscire ad affermarsi economicamente a livello continentale e internazionale in settori quali infrastrutture, elettricità, agricoltura, high-tech e altri ancora. Le Afriche attirano sempre di più investimenti stranieri provenienti non solo dall’Europa ma soprattutto dall’Asia e dal Medio Oriente, senza tralasciare il Sud America o l’Australia. Negli ultimi dieci anni il continente africano ha testimoniato un continuo incremento di partenariati internazionali, soprattutto nell’ambito di progetti legati alle infrastrutture come la creazione di strade, ponti e dighe. Ovviamente, altre collaborazioni degne di nota sono quelle relative alla produzione di elettricità, alle risorse rinnovabili, al sistema sanitario e alle telecomunicazioni.
Costa d’Avorio, Etiopia, Ghana, Kenya, Marocco, Nigeria, Ruanda, Senegal, Sudafrica, Tanzania e Uganda hanno recentemente beneficiato di importanti PPP per progetti infrastrutturali. Tra i principali ricordiamo il ponte Henry Konan Bédié in Costa d’Avorio, il progetto eolico sul lago Turkana in Kenya, l’autostrada Dakar-Diamniadio e il nuovo aeroporto in Senegal, i vari progetti idrici ed energetici in Ghana, Nigeria e Ruanda e il porto marittimo “Tangeri Med” del Marocco.
Uno dei settori che negli ultimi anni sta davvero cambiando le regole del gioco sullo scacchiere africano e che contribuisce positivamente anche su importanti svolte in altri settori – dall’infrastruttura all’educazione – è quello della tecnologia dell’informazione e della comunicazione, l’ICT (Information and Communication Technology).
Oggi, infatti, il numero di hub tecnologici in tutto il continente africano è più che raddoppiato in meno di un anno, dal momento che sempre più investitori e innovatori contribuiscono a far crescere l’ecosistema delle startup locali. Un totale di 314 centri tecnologici e centri di incubazione sono stati registrati a luglio 2017 dal GSMA Ecosystem Accelerator, un programma che ha come obiettivo di facilitare i partenariati tra operatori e sviluppatori nel continente.
La cifra ha evidenziato un netto aumento rispetto ai 117 centri registrati dalla Banca Mondiale nel 2015. Gli oltre 300 hub sono distribuiti in 93 città, in 42 Paesi africani. Tuttavia, più della metà è concentrata in soli 9 Paesi: Sudafrica (54), Egitto (28), Kenya (27), Nigeria (23), Marocco (21), Ghana (16), Tunisia (15), Uganda (12) e Senegal (10).
Secondo la Banca Mondiale, il recente sviluppo di hub tecnologici in tutta l’Africa esemplifica il modo in cui i cluster tecnologici creano un effetto valanga, in base al quale le precondizioni iniziali per il successo generano ulteriori driver di innovazione che si rafforzano a vicenda. Il successo comparativo di alcuni cluster, rispetto ad altri che restano stagnanti, suggerisce che gli ecosistemi organici e multi-stakeholder funzionano meglio di iniziative guidate dai soli governi nazionali o dal solo settore accademico. L’Africa, oltre a essere già stata definita come il supermercato del mondo per via delle sue innumerevoli risorse naturali, sta diventando il nuovo fulcro centrale per investimenti e innovazione.
Quindi, da dove partire per proporre soluzioni ai problemi delle Afriche? Anche qui vorrei uscire subito dal classico dualismo di vedute: investire in infrastrutture o in capitale umano? È evidente che bisogna agire in entrambe le direzioni, con la difficoltà di far quadrare il cerchio delle risorse che sono sempre e comunque scarse.
A mio avviso le condizioni per cui ogni ipotesi di sviluppo si possa considerare “sostenibile” sono due: che ci sia energia per far funzionare tutto ciò che non è basato sull’energia muscolare (se poi questa energia è prodotta da fonti energetiche naturali e/o rinnovabili, tanto meglio); che ci siano alimenti per sostentare le persone (se poi le persone crescendo siano anche in salute e possano essere educate/formate per svolgere qualche funzione, ancor meglio).
Tutto il resto – relativamente alla sfera personale (gli imprescindibili diritti più volte enunciati nei vari documenti dell’ONU e di altre istituzioni sovranazionali) e a quella infrastrutturale (i trasporti, le connessioni, i mercati ecc.) – è necessario ma, semplicemente, non può essere sostenibile se le prime due condizioni non sussistono.
Vorrei ora entrare nel dettaglio e raccontare alcune esperienze di Paesi che si sono già mossi nella giusta direzione per risolvere le problematiche esposte.

Zimbabwe
È considerato da decenni, nonostante l’ultimo periodo di turbolenze politiche, il bacino di formazione del personale tecnico per una grossa parte del Sud del continente: Paesi come il Sudafrica, la Namibia, lo Zambia, il Mozambico e molti altri hanno attinto per anni al personale formato dal sistema scolastico professionale dello Zimbabwe, un sistema scolastico estremamente efficace e particolarmente concentrato sulla formazione di quadri professionali con competenze di ottimo livello.
Al momento attuale, in cui tutti si augurano che il periodo politico buio sia alle spalle, il Paese è pronto a ripartire, a ritrovare il suo ruolo nel contesto delle relazioni internazionali e a rimettere in moto un’effervescente economia agricola che era di altissimo livello e che negli ultimi anni è stata abbandonata a se stessa. In questo senso il sistema scolastico sarà un solido pilastro su cui le autorità governative potranno appoggiarsi per fare ripartire la crescita.

Ruanda
Dopo la tragedia che le popolazioni (o meglio, una parte di loro) hanno vissuto in un non lontano passato, solo in questo ultimo periodo l’etnia Hutu e quella dei Tutsi, sotto la guida del presidente Paul Kagame, sono riuscite a convivere pacificamente. Il Paese si è proposto come un hub di sperimentazione e sviluppo per come ci si dovrebbe strutturare utilizzando le moderne tecnologie, in particolare nel campo dei droni. Di non secondaria importanza anche il cambio della lingua ufficiale che Kagame ha imposto in Ruanda, facendo abbandonare il francese e adottando l’inglese.
Il Ruanda è il primo Paese al mondo ad avere creato una struttura aeroportuale dedicata ai droni, varie parti della pubblica amministrazione (le poste, il ministero della sanità ecc.) utilizzano normalmente tali strumenti nel lavoro giornaliero, la posta cartacea, le medicine e i farmaci di prima necessità raggiungono le località più remote e meno servite in tempi rapidissimi.
Provate a immaginare di che salto tecnologico si tratti, per una terra praticamente senza rete ferroviaria, con pochissime strade percorribili durante tutto l’anno che oggi (in “real time”, come si usa dire) è in grado di servire chi fino a ieri non solo non poteva essere servito, ma non era neanche raggiungibile.
Il Paese si sta attrezzando per sviluppare la sua intera economia utilizzando i droni: il commercio, il trasferimenti di merci e prodotti, l’abbattimento dei tempi nella fornitura di alimenti legati alla catena del caldo e a quella del freddo: un intero nuovo modello economico da sperimentare. Forse le nostre stazioni di montagna che talvolta rimangono isolate d’inverno o le nostre isole minori che restano tagliate fuori dai collegamenti in caso di mare agitato, potrebbero imparare qualcosa.

Kenya
Il distretto ICT di Nairobi sta diventando progressivamente il punto di benchmark, il termine di paragone nel mondo, per quella che viene etichettata come la “mobile-economy”, l’economia mobile. Tutto iniziò qualche anno fa con un accordo tra Vodafone Kenya e una banca locale, la K-Rep, per lo sviluppo di applicazioni Internet e home banking sul cellulare; il connubio portò alla nascita del prodotto M-Pesa, una app per il trasferimento e la gestione di piccole somme di denaro da un telefono cellulare a un altro, anche in assenza di un conto corrente bancario.
Questa tecnologia alla portata di tutti, letteralmente sulla punta delle dita di tutti, ha rivoluzionato il modo di fare banca, ma soprattutto ha aperto a vastissime porzioni di popolazione che non avevano alcun modo di accedere ai mercati e agli strumenti finanziari (a partire dal possesso del conto corrente bancario) la possibilità di scambiare piccole somme di denaro, pagare per servizi e beni tramite il cellulare, avere accesso al microcredito, in una parola diventare attori economici del loro quotidiano.
Cambiamenti impensabili in un mondo di banche tradizionali: quale banca si sarebbe mai sognata di aprire sportelli e filiali in cittadine e villaggi dove non c’era nulla, né strade né linee telefoniche per collegare le filiali alla sede centrale, né sicurezza per il denaro contante, né alcun modo di verificare la “solidità finanziaria” di potenziali clienti che, nella maggior parte dei casi, erano analfabeti e quindi nemmeno in grado di sottoscrivere l’apertura di un conto corrente bancario?
Ebbene, oggi il Kenya sta sperimentando una miriade di applicazioni sul modello “M-qualcosa...”: Mobile-market (i piccoli coltivatori nei villaggi più reconditi possono controllare sul loro telefono cellulare i prezzi giornalieri sui mercati locali della frutta e/o della verdura e quindi recarsi nel mercato di zona sapendo i prezzi favorevoli per la vendita dei loro prodotti); Mobile-energy (alcune aziende hanno iniziato a fornire piccoli apparati fotovoltaici per la produzione di energia, per caricare un computer o un frigorifero o per dare energia ad alcune lampadine, a costi molto contenuti, che vengono ripagati con piani rateali scaricati direttamente sui telefoni cellulari); Mobile-medicine (infermieri equipaggiati con telefoni cellulari integrati con app e piccoli supporti tecnologici – scanner – per fare analisi e test medici e inviare in remoto i dati dei pazienti ai medici, in ospedali siti nelle maggiori città, che a distanza sono in grado di diagnosticare e curare vari tipi di malattie); Mobile-education (sono iniziati alcuni test pilota per dotare gli insegnanti di strumenti didattici a distanza e ci sono persino applicazioni per controllare e combattere l’assenteismo a scuola, sia degli insegnanti che degli alunni).
Naturalmente questi sono soltanto alcuni degli esempi. La soluzione a tutte le problematiche africane è legata all’accelerazione e soprattutto all’attuazione sia delle esistenti sia delle nuove strategie e iniziative continentali per la crescita e lo sviluppo sostenibile, a tutti i livelli di questo meraviglioso e ricco continente. Come si evince dall’Agenda 2063 dell’Unione Africana, il futuro di questi popoli non è in Europa o nelle Americhe ma risiede proprio qui, in Africa. Dall’ONU al Forum Economico Mondiale, tutti condividono il medesimo dato, ovvero che entro il 2030 una persona su cinque sarà africana (quattro su dieci nel 2100!). In ben 11 Paesi africani, le donne detengono quasi un terzo dei seggi parlamentari (un dato migliore di quello registrato in Europa). Il Ruanda, per esempio, ha la più alta percentuale di donne parlamentari di tutto il mondo (64% dei seggi). Non solo i Paesi africani hanno governi ad alta rappresentanza femminile, ma hanno anche molte donne imprenditrici: le donne africane possiedono un terzo delle imprese di tutta l’Africa!
Infine, se ci basiamo su alcune proiezioni davvero positive sul futuro di queste terre, la miscela esplosiva composta dall’aumento della popolazione, l’ascesa delle utime tecnologie, i miglioramenti nelle infrastrutture, nel settore della sanità e dell’istruzione, potrebbe portare l’Africa a essere la power house della crescita economica del prossimo secolo.
Vorrei concludere con un piccolo interrogativo che, a onor del vero, non riguarda solo l’immensa e variegata realtà africana ma, a mio giudizio, rappresenta uno dei temi centrali del passaggio storico contemporaneo dell’umanità: quali saranno i lavori del prossimo decennio, ventennio, secolo? A che tipo di mercato del lavoro dovrà questa moltitudine di gioventù africana essere formata? (ricordate il demographic dividend di prima?) Quali dovrebbero essere le scuole di formazione? Formazione a che cosa? Credo che la risposta a questo quesito potrebbe benissimo venire dall’Africa che, essendo un continente in cui molto è ancora da fare, potrebbe avere l’opportunità di rispondere senza correre il rischio di rimanere intrappolata da alcune dicotomie – lavoro umano/lavoro robotizzato, intelligenza umana/AI (Artificial Intelligence) – nelle quali il resto del mondo sembra perdersi senza trovare il giusto bilanciamento e senza vedere i robot e l’AI come naturale evoluzione di quel fantastico e meraviglioso essere che è l’uomo.

Il contenuto del presente articolo si basa su opinioni personali dello scrivente e sulla sua esperienza personale e professionale. Non indica né rappresenta in alcun modo le idee, le opinioni, la strategia o i programmi di Banca Africana di Sviluppo.

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