L’infinito presente. Gli universali linguistici

  • GIU 2010
  • Andrea Moro
La Rivista

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Esistono due fatti alla portata osservativa praticamente di ogni persona: da una parte, il linguaggio si pone come esperienza universale, elementare, così fondamentale e costitutiva dell’essere umano da diventare definitoria: l’essere umano è l’essere capace di linguaggio; dall’altra, la disarmante constatazione della diversità delle lingue, l’irriducibile esperienza del particolare, del ristretto, del caotico.

Naturalmente, ci sono differenze anche marcate nelle capacità espressive delle persone, soprattutto nel numero delle parole conosciute, ma non sono nulla rispetto alla sostanziale condivisione dell’immensa complessità del codice linguistico da parte di tutti gli esseri umani. Pensiamo al sistema dei tempi verbali o alla difficoltà quasi insormontabile di dare significati espliciti a parole di uso comune come, per fare un esempio, nel caso semplicissimo della parola forse.

Non si tratta, certo, di una parola rara, eppure definirne il significato è un’impresa molto complessa che richiede calcoli e modelli formali sofisticati. Linguaggio e lingue: il tentativo di riconciliare questi due fatti è stato forse uno dei propulsori più importanti della storia della linguistica, certamente quello che oggi rappresenta la sfida più importante sulla natura della mente e, in definitiva, dell’uomo. A che punto siamo della ricerca sugli universali linguistici oggi? Facciamo un passo indietro.

L’universalità delle forme del linguaggio

Ruggero Bacone, il francescano soprannominato dai contemporanei “Doctor Mirabilis”, uno dei più grandi filosofi medievali, sintetizzava l’idea dell’universalità delle forme del linguaggio in modo inequivocabile: «La grammatica è una e una sola secondo la sua sostanza in tutte le lingue, anche se possono esserci delle variazioni accidentali». Questa conclusione, dedotta letteralmente dall’ipotesi – garantita sul piano teologico – di una sostanziale simmetria tra percezione, lingua e realtà non potrebbe contrastare in modo più netto rispetto a quella di Martin Joos, linguista statunitense, che ben riassume le convinzioni imperanti alla metà del secolo scorso e ritenute inossidabili: «Le lingue possono differire le une dalle altre senza limite e in modi imprevedibili». Si trattava anche in questo caso di una deduzione per così dire “ideologica”, cioè sostanzialmente basata su un pregiudizio filosofico, quello secondo il quale una lingua è in tutti i suoi aspetti una convenzione arbitraria.

Questa visione irrimediabilmente caotica delle lingue è alla fine risultata falsa, sia sul piano formale (Greenberg 1963, Chomsky 2004, Rizzi 2009) che neuropsicologico (si veda Moro 2006 e i riferimenti ivi citati), ma, al di là delle carenze sperimentali che la rendevano plausibile, è interessante notare come fosse stata abbracciata perché, oltre alla difesa del relativismo epistemologico cui si legava, si prestava perfettamente a giustificare quella visione tecnologica della mente che oggi sembra talvolta ritornare travestita da scoperta biologica. Inoltre, lo sforzo verso la riduzione delle facoltà cognitive a meccanismi formali e prevedibili una volta definite le condizioni contestuali – quella che un tempo si chiamava “cibernetica” e che oggi resiste, anche se in calo, con l’etichetta “intelligenza artificiale” – era anche sostenuto da una mobilitazione di fondi e di uomini che di fatto costituiva un modo per riciclare le esperienze accumulate nel settore delle comunicazioni militari durante la seconda guerra mondiale.

Anche in questo caso una testimonianza diretta mi pare sia più chiara di ogni altra elucubrazione. Chi parla è un logico matematico di grande fama, e si sta riferendo al laboratorio di elettronica di uno dei più prestigiosi politecnici degli Stati Uniti, il MIT: «C’era al laboratorio la convinzione generale e irresistibile che con le nuove conoscenze di cibernetica e con le recenti tecniche della teoria dell’informazione si era arrivati all’ultimo cunicolo verso una comprensione completa della complessità della comunicazione nell’animale e nella macchina» (Bar - Hillel 1970). Fu proprio al MIT che, anche per la reazione a questo riduzionismo, a sua volta legato sul versante psicologico al comportamentismo e al costruttivismo, Noam Chomsky dimostrò, utilizzando un metodo matematico, che nessuno degli algoritmi noti poteva generare automaticamente una struttura complessa come quella di una lingua umana (Chomsky 1957).

Con questo, Chomsky riconosce da subito che il cuore delle lingue umane è costituito da una capacità di manipolare gli elementi primitivi (per semplicità: le parole) producendo strutture potenzialmente infinite (per semplicità: le frasi) secondo schemi che vanno scoperti così come si scoprono le leggi fisiche, tradizionalmente chiamati “sintassi”. La manifestazione dell’infinito sulla base di mezzi finiti – la sintassi – si qualifica quindi come il tratto distintivo di tutte le lingue umane, dunque del linguaggio.

Questa scoperta ha di fatto rivoluzionato completamente non solo il panorama della linguistica ma anche quello delle neuroscienze in generale, rimettendo il linguaggio al centro dell’osservazione empirica e facendolo in molti casi diventare il modello per lo studio di altre capacità cognitive, come quelle legate alla matematica e alla musica. Esistono almeno tre conseguenze importanti che derivano da questa prima intuizione.

La prima è riconducibile direttamente a Chomsky e si coglie immediatamente in questa citazione: «Il fatto che tutti i bambini normali acquisiscano grammatiche praticamente comparabili di grande complessità con una notevole rapidità suggerisce che gli esseri umani siano in qualche modo progettati in modo speciale per questa attività, con una capacità di trattare con i dati e di formulare ipotesi di natura e complessità sconosciute» (Chomsky 1959, corsivo mio). La seconda conseguenza è, in un certo senso, implicita in questa: se l’uomo è “progettato in modo speciale”, questo progetto deve in qualche modo essere stabilito biologicamente, dunque deve essere possibile rintracciare gli elementi neurobiologici che si correlano a esso e questi elementi non possono che essere universali, come universali sono tutti i tratti biologici degli esseri umani. Questa intuizione, che si basava su dati osservativi di tipo comparativo, è stata corroborata in modo sostanziale nell’ultimo decennio con esperimenti radicalmente innovativi eseguiti utilizzando le tecniche di neuroimmagine. La base clinica, che da sempre costituisce la via maestra per lo studio dei fondamenti biologici del linguaggio (si veda ad esempio il lavoro classico di Lennerberg 1967), viene infatti affiancata da metodi nuovi che superano la necessità di dover procedere solo in presenza di patologie.

I confini di Babele

Gli universali linguistici, almeno quelli relativi alla sintassi diventano dunque in qualche modo riconducibili alla struttura funzionale e neuroanatomica del cervello ridando voce nuova alle intuizioni così troppo sbrigativamente abbandonate dall’interpretazione convenzionalista del linguaggio nella prima metà del secolo scorso: i confini di Babele, dunque, non solo esistono ma sono anche tracciati nella nostra carne prima di ogni esperienza; non sono l’effetto di una convenzione arbitraria (per una illustrazione critica, rimando ancora a Moro 2006 e i riferimenti ivi citati)1

. Infine, la terza conseguenza consiste nella consapevolezza che questo modello linguistico, basato sulla capacità di costruire strutture infinite a partire da elementi finiti, è unico della specie umana. Tutti gli esseri viventi certamente comunicano, ma solo l’essere umano ha questa capacità di produrre strutture potenzialmente infinite. Malgrado alcune sorprendenti resistenze, che le cose stiano così si sa almeno a partire dagli anni Settanta del secolo scorso (Terrace et al. 1976) e questa convinzione, per chi si occupa di struttura dei codici di comunicazione, è diventata talmente scontata da essere stata oggetto della conferenza plenaria della società di linguistica americana (Anderson 2008), un evento che, come è facile immaginare, riveste un carattere decisamente ecumenico.

Questa caratteristica di unicità, combinata con la proprietà di produrre strutture potenzialmente infinite ha a sua volta una conseguenza fondamentale che non può essere dimenticata in nessuna speculazione sull’evoluzione del linguaggio, o meglio sulla sua filogenesi. Va infatti ribadito a chiare lettere che, essendo il carattere specifico del codice di comunicazione umana la capacità di produrre strutture potenzialmente infinite, non è nemmeno ammissibile in senso teorico che esista una gradualità di questo tratto tra le specie animali: l’infinito, infatti, o c’è tutto o non c’è. Non può essercene un pezzo. Dunque non ci possono essere linguaggi “simili” a quello umano così come nessun insieme per quanto grande può assomigliare all’infinito.

Da ultimo, una spallata anche al relativismo linguistico basata non sulle regole ma sull’inventario delle parole: negli anni Cinquanta del secolo scorso prese forma canonica un’ipotesi che in modi più o meno espliciti stava circolando da tempo, vale a dire l’idea che a lingue diverse corrispondessero visioni diverse del mondo per via del diverso vocabolario che le lingue possiedono (la cosiddetta “ipotesi SapirWorf”).

Misurare la visione del mondo
 

Si noti: non semplicemente modi più o meno rapidi di agire nel mondo – questo è fin troppo ovvio come sa chiunque nel tentativo di impadronirsi di una tecnica deve contemporaneamente assumerne il glossario di base – ma vere e proprie percezioni sensoriali differenti. Non è difficile capire quanto dietro a questa forma di relativismo si nascondesse di fatto il tentativo più o meno esplicito di fornire graduatorie di merito tra le lingue, quasi alcune fossero più adatte di altre a percepire la realtà. Insisto: percepire. È chiaro, ad esempio, che in una lingua come il tedesco, dove la costruzione di composti è molto più frequente che in italiano, ci sia maggior agio nel costruire nuovi comodi termini che permettano di evitare parafrasi e perifrasi, ma da questo a dire che chi parla tedesco vede un transistor (o un tramonto) in modo diverso da chi parla italiano c’è un salto logico non ammissibile. Da quel che risulta, ad ogni modo, al di là di ogni giudizio etico, questa ipotesi semplicemente non è vera alla prova dei fatti.

Intanto, avere una misura della “visione del mondo” non è possibile: non esiste nemmeno in teoria una metrica in grado di farci capire se chi parla diciamo italiano o tagalog percepisce il mondo in modi diversi. Occorrerebbe infatti preliminarmente accordarsi su cosa si intende per percezione del mondo. Ma nei pochi casi dove è possibile condurre una sperimentazione accettabile, risulta che al variare delle lingue la percezione del mondo non cambia affatto; semmai – come si diceva – può cambiare l’interazione con esso. Il caso delle indagini sui nomi dei colori è paradigmatico. Persone chiamate a distinguere diversi colori di una tavolozza (senza dar loro un nome), non reagiscono in modo diverso: la percezione rimane identica anche al variare del dizionario (si veda ad esempio Piattelli Palmarini 2008).

Ma anche questa visione universalista ha dei rischi riduzionisti. Non dimentichiamo che lo studio scientifico della sintassi nasce nella seconda metà del secolo scorso per fornire solo la descrizione dei gradi di variabilità della classe delle lingue umane: la predizione di come e cosa un individuo possa dire in un certo momento, in un certo contesto, al di là di casi banali, non rientra nel programma di ricerca né in ambito quantitativo, né neuropsicologico né molecolare; la creatività linguistica non è per questo meno vera, esattamente come non lo è la coscienza, per il fatto di non essere misurabile in termini quantitativi.

Ma non si tratta affatto di una rinuncia nichilista, di un pensiero “debole”, così come non fu una rinuncia nichilista né un pensiero debole la decisione di Newton di descrivere la gravità come azione a distanza rinunciando all’ortodossia della meccanica dei contatti di Cartesio. È una coincidenza impressionante che proprio a Cartesio si richiami Chomsky quando nel definire la capacità fondamentale del linguaggio umano – quella di cogliere e produrre un insieme infinito di frasi – riconosce che al centro del linguaggio sta il mistero.

Ma non si tratta affatto di una rinuncia nichilista, di un pensiero “debole”, così come non fu una rinuncia nichilista né un pensiero debole la decisione di Newton di descrivere la gravità come azione a distanza rinunciando all’ortodossia della meccanica dei contatti di Cartesio. È una coincidenza impressionante che proprio a Cartesio si richiami Chomsky quando nel definire la capacità fondamentale del linguaggio umano – quella di cogliere e produrre un insieme infinito di frasi – riconosce che al centro del linguaggio sta il mistero.

 

1La tecnica scelta per indagare il cervello negli esperimenti qui descritti è stata la cosiddetta tecnica per neuroimmagini: in pratica, lo studio dell’attività metabolica delle regioni encefaliche tramite la misura del flusso ematico (emodinamica). Le due tecniche principali sono la risonanza magnetica funzionale (o fMRI) o la tomografia a emissione di positroni (PET). È importante mettersi al riparo da facili illusioni. La ricerca sulle reti neuronali con tecniche di neuroimmagine può in un certo senso L’infinito presente. Gli universali linguistici Atlantide 02-2010 def:Layout 1 29-07-2010 11:50 Pagina 98 99 essere paragonata all’immaginario tentativo di ricostruire la mappa delle principali città del nostro pianeta avendo come unico dato il flusso dei passeggeri negli aereoporti: si può sperare al massimo di avere un’idea approssimativa delle dimensioni dei centri abitati. Il paragone è addirittura ottimistico: il numero dei circuiti possibili costituiti dai cento miliardi di neuroni che mediamente costituiscono un cervello umano è dell’ordine di 10 seguito da un milione di zeri: una rete inimmaginabile se si pensa che il numero delle particelle di cui è composto l’universo si stima intorno a 10 seguito da 72 zeri (Edelman et al. 2000). Dunque poco si riesce a vedere: ma non niente.

 

 

Indicazioni bibliografiche
S.R. Anderson, The Logical Structure of Linguistic Theory, discorso del presidente al 75th Annual Meeting of the Linguistic Society of America, Chicago, 5 gennaio 2007, in Language, LXXXIV, 4, 2008, pp. 795-814.
Y. Bar-Hillel, Aspects of Language, The Magnes Press, Gerusalemme 1970. N. Chomsky, Syntactic Structures, Mouton, The Hague - Parigi 1957. N. Chomsky, Review of Skinner (1957), Language, 35, 1959, pp. 26-58.
N. Chomsky, Cartesian linguistics: a chapter in the history of rationalist thought, Harper & Row, New York 1966.
N. Chomsky, The Generative Enterprise Revisited: Discussions with Riny Huybregts, Henk van Riemsdijk, Naoki Fukui and Mihoko Zushi, Mouton de Gruyter, Berlino - New York 2004. G.M. Edelman - G. Tononi, A Universe of Consciousness: How Matter Becomes Imagination, Basic Books, New York 2000.
J.H. Greenberg (a cura di), Universals of Language, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1963.
M. Piattelli Palmarini, Le scienze cognitive classiche: un panorama, Einaudi, Torino 2008.
E. Lenneberg, Biological Foundations of Language, John Whiley & Sons, New York 1967; trad. it. I fondamenti biologici del linguaggio, Boringhieri, Torino 1982.
A. Moro, I confini di Babele. Il cervello e il mistero delle lingue impossibili, Longanesi, Milano 2006; nuova edizione in lingua inglese: The Boundaries of Babel. The Brain and the Enigma of Impossible Languages, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 2008.
L. Rizzi, The discovery of language invariance and variation, and its relevance for the cognitive sciences, in Behavioral and Brain Sciences, 32, Cambridge University Press, 2009, pp. 467-468.
H.S. Terrace – L.A. Petitto – R.J. Sanders – T.G. Bever, Can an Ape Create a Sentence?, in Science, vol. 206, n. 4421, 1979, pp. 891 - 902.

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