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Editoriale de ilSussidiario.net

L'arma della sussidiarietà
per combattere l'ineguaglianza

Le politiche di welfare hanno funzionato nel secolo scorso. Ma ora nel mutato contesto mondiale non bastano più. Stato e mercato non devono escludere il protagonismo del "terzo pilastro": la Comunità

“La rivoluzione tecnologica creerà diseguaglianze, i cambiamenti climatici anche. Lo sappiamo tutti. Soprattutto lo vediamo. Da noi o in altri Paesi. Ma che facciamo? Ci attrezziamo in qualche modo? Dobbiamo prevenire le nuove diseguaglianze, oltre che contrastare quelle vecchie. E invece, per decenni non si è fatto né l’uno né l’altro. Pensando che tanto le cose si sarebbero aggiustate da sole. E invece non è affatto così. Pensiamo alle crisi che si sono succedute: 1992-1993, poi 2008-2009 dopo 16 anni. Poi 2013 dopo 4 anni, poi 2020 dopo 7 anni. Tempi ristretti tra una e l’altra. Non si fa in tempo a riprendersi da una che ne arriva un’altra”. Questo è il grido d’allarme che ha lanciato la direttrice centrale dell’Istat, Linda Laura Sabbadini, parlando all’assemblea della Cgil l’11 febbraio scorso.

Un percorso travagliato, almeno dalla fine del XVIII secolo, ha orientato le società occidentali verso la riduzione delle disuguaglianze sociali, economiche e politiche. L’ultimo lavoro di Thomas Piketty, “Una breve storia dell’uguaglianza”, mostra come sia stato il progresso dello Stato sociale non soltanto a ridurre le disuguaglianze, ma anche a incentivare lo sviluppo, in particolare con un “investimento massiccio e relativamente egualitario nell’istruzione e nella salute”.

Fino agli inizi degli anni Novanta, la lotta alla disuguaglianza nelle economie occidentali è stata condotta con politiche di welfare. Ma oggi questo non basta più.

La nuova fase della globalizzazione che si è aperta in quel periodo, con la deregolamentazione degli scambi e dei flussi finanziari, la libera circolazione dei capitali senza un riequilibrio della leva fiscale, il venire meno del controllo politico e senza adeguamento della protezione sociale, ha reso le diseguaglianze un fattore strutturale delle società moderne. Molti dei paesi in via di sviluppo hanno diminuito il loro gap rispetto a quelli più ricchi, ma le differenze interne, sia nel primo, sia nel secondo che nel terzo mondo, sono notevolmente aumentate. La disuguaglianza crescente si sta insinuando nella tenuta democratica delle società occidentali rischiando di comprometterla.

Di fronte a uno scenario di questo tipo, determinato da dinamiche globali ed epocali fuori dalla portata addirittura di uno Stato, figurarsi di noi cittadini, sembra impossibile poter mettere in campo alcuna azione che possa, in qualche modo, fare una differenza. È a questo punto però che bisogna tornare ad essere realisti. E consapevoli.

Scrive Ragum Rajan, già governatore della Bank of India e Chief Economist del Fondo Monetario Internazionale, oggi docente a Chicago, nel suo libro “Il terzo pilastro: la comunità dimenticata tra stato e mercato”: le comunità permettono di riequilibrare il rapporto tra massimizzazione del profitto e massimizzazione del valore, utilizzando la reale concorrenza dei mercati contro gli oligopoli delle grandi multinazionali”. Le comunità locali portano molti benefici: “le minori divisioni quando le identità etniche sono espresse a livello delle comunità, invece che a livello nazionale; una maggiore partecipazione sociale alle istituzioni comunitarie; un maggior senso di autodeterminazione da parte dei comuni cittadini…; legami locali più saldi che consentono ai vicini di colmare le lacune delle strutture di supporto formali; maggior spazio per la sperimentazione politica ed economica…; la presenza di una struttura che consente di svolgere a livello locale un lavoro significativo che non viene remunerato”.

Nel nostro Paese si è teorizzato che realtà organizzate della società civile e corpi intermedi fossero soggetti dediti all’intrallazzo, al clientelismo, alla cura di interessi particolari contro gli interessi della collettività. Per questa ragione sono stati criminalizzati. Salvo poi accorgersi dell’errore e inserire la “sussidiarietà orizzontale” tra le specifiche delle stelle polari con cui orientare la politica (vedi il Blog di Beppe Grillo).

Per quanto il “sistema” abbia reagito, cercando di rilanciare il ruolo delle realtà sociali, ad esempio con la legge di riforma del terzo settore o con la sentenza 131/2020 della Corte costituzionale, il lavoro da fare per diffondere consapevolezza e spirito di iniziativa è ancora moltissimo.

A questo punto si può capire qual è la vera portata della cultura sussidiaria e di tutti i suoi strumenti: una comunicazione che non è mera contrapposizione, ma tensione ad ascoltare e a comprendere; un’istruzione e una formazione continue e di massa; un’attenzione all’occupazione e alla sua dignità; un rilancio dei servizi di welfare, che li adegui alla contemporaneità.

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