Trimestrale di cultura civile

Dalla crisi della giustizia ai livelli di governo

  • MAG 2021
  • Stelio Mangiameli

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Le ragioni di due deficit, di due distorsioni in atto che frenano il fondamentale rapporto fiduciario fra cittadini e istituzioni. L’erosione della forma classica di partito in favore di partiti leggeri a forte spinta leaderistica e la politicizzazione della giustizia origine del disordine giudiziario. Per ripristinare il senso dei principi di democrazia e di giustizia al tempo della globalizzazione non è necessario interrompere i processi di internazionalizzazione e di integrazione politica, ma semplicemente ristabilire le regole di responsabilità di fronte ai cittadini e restituire alla legge i contenuti sottratti dalla globalizzazione. E alla sentenza la sua funzione di norma individuale prodotta dallo “jus-dicere”.

Il triangolo Costituzione, legge e sentenza

Lo Stato, come forma di organizzazione dei gruppi umani, ha la capacità di realizzare l’unità del politico, attraverso il monopolio della forza e del diritto. In via di principio, però, l’assolvimento di questo compito non è più sufficiente di per sé a legittimare l’esercizio del potere politico e, nel corso del tempo, proprio i modi dell’esercizio del potere e i suoi contenuti sono diventati sommamente rilevanti.

Tra tutti quelli sperimentati nella storia umana la democrazia rappresenta la forma che ha conquistato una preferenza internazionale del modo di essere dello Stato stesso. La ragione di ciò deriva dalla circostanza che la democrazia è in grado di realizzare l’autodeterminazione politica e ha come fondamento il principio di libertà.

L’individuo, entrando in comunione per formare una comunità politica con la democrazia, però, non assolutizza la libertà individuale, bensì muove dal riconoscimento dell’altro come identico a se stesso e, perciò, il soggetto politico non può non volere la libertà per sé, senza riconoscerla, allo stesso modo, anche per gli altri.

La libertà, secondo la regola della reciprocità, culmina nel riconoscimento dell’eguaglianza di tutti i soggetti e nella necessità di statuire una forma politica che li coinvolga tutti nel processo di autodeterminazione politica ed è proprio il collegamento tra la libertà e l’eguaglianza che giustifica il principio di maggioranza caratteristico della democrazia. Il principio di maggioranza, infatti, non è solo uno strumento tecnico per produrre la decisione politica, ma risponde anche alla regola della libertà per la maggior parte degli individui e della validità di questa regola per tutti. Ciò consente che nessuna decisione politica sia espressione di un potere maggiore da parte di alcuni rispetto agli altri.

Quanto poi alla giustizia, questa ha gli stessi fondamenti politico-morali della democrazia e cioè la libertà e l’eguaglianza. La giustizia, infatti, si determina già a partire dalla decisione politica democratica che specifica il contenuto delle leggi e definisce così la libertà individuale non come una libertà dall’ordinamento, ma come una libertà secondo l’ordinamento; per cui si è liberi nel rispetto delle leggi che sono il frutto dell’autodeterminazione politica. Alla giustizia, inoltre, appartiene la parità di trattamento degli individui secondo la giusta legalità. Si può dire, perciò, che all’eguaglianza del voto corrisponda l’eguaglianza davanti alla legge che il giudice è chiamato ad applicare.

Esiste, perciò, un intimo legame tra le funzioni esercitate dallo Stato. Il principio della divisione dei poteri non è una negazione del legame tra le funzioni dello Stato, bensì la forma che collega legislativo, esecutivo e giudiziario, per la quale il potere esecutivo e la giurisdizione sono soggetti alla legge e al diritto e, nello Stato democratico, legge e diritto sono il frutto più immediato della democrazia, in quanto nella democrazia la maggioranza può decidere sull’unità del politico, emettendo disposizioni di diritto e innovando o mutando l’ordinamento giuridico.

In tal senso, chi ricerchi il collegamento tra lo Stato democratico e il principio della divisione dei poteri, lo può scorgere nel legame funzionale che sussiste tra i poteri e nel carattere popolare della legalità, in quanto si riconosce a ogni cittadino la capacità di creare diritto, in forza della titolarità e dell’esercizio della sovranità popolare. Allo stesso tempo, però, una autentica democrazia implica che le leggi non neghino ai cittadini la loro indipendenza e la loro dignità – in una parola, le libertà e i diritti – che sono alla base della forza della legge. Nessuna legge si può considerare democratica se tenta di rendere schiavo il popolo sovrano e, proprio per questo motivo, solo nella democrazia il potere della maggioranza conosce dei limiti estesi e insuperabili nelle forme e nei contenuti, perché i governati di oggi possono essere i governanti di domani e la minoranza di oggi, per volontà degli elettori, può diventare la maggioranza di domani.

La Costituzione assume la democrazia come carattere peculiare della Repubblica e questa espressione è conseguente al principio secondo il quale “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1). Le espressioni adoperate non hanno solo un valore riassuntivo di quanto è scritto nella Carta, sia con riferimento ai diritti costituzionali, sia con riferimento all’ordinamento della Repubblica, bensì esprime lo spirito della Costituzione, che non serve solo a garantire i cittadini dallo Stato, ma anche a dare allo Stato una organizzazione democratica. Di conseguenza, le disposizioni sulle libertà dei cittadini e quelle sulla loro partecipazione al governo consentono di esprimere in modo preciso il contenuto dell’affermazione che l’“Italia è una Repubblica democratica”.

Quando, perciò, la Costituzione specifica che “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” (art. 70) e che queste sono formate da cittadini, attraverso elezioni fondate sul voto di questi, “personale ed eguale, libero e segreto” (art. 48), vuole che l’ordinamento sia permeato da una legislazione autenticamente democratica, non solo nella forma, ma anche nei contenuti, e cioè che la legge sia una decisione politica in grado di concretizzare i diritti e sia conforme alla disciplina costituzionale di questi. Se ci si chiede, poi, da dove l’ordinamento democratico attinga la sua forza, sembra agevole osservare che questa discende direttamente dal principio costituzionale che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101, comma 2, Cost.) e che “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati” (art. 111, comma 6, Cost.), in modo da esplicitare come la legge generale e astratta diventi norma individuale nella sentenza.

Inoltre, il giudice, nell’applicare la legge, anche se questa è formata democraticamente, può sempre considerare il suo contenuto materiale in relazione alla Costituzione e sollevare una questione di costituzionalità della legge davanti alla Corte costituzionale, qualora ritenga che sussista un contrasto tra la legge e i diritti costituzionali (art. 134 Cost.).

Si badi che, nel nostro ordinamento, ai giudici, diversamente che ai membri del Parlamento, manca una legittimazione democratica. I giudici non sono eletti e, in via di principio, sono nominati in base a un concorso, cioè in base a un giudizio tecnico. Inoltre, il nostro sistema giudiziario non riconosce il diritto al processo con una giuria popolare e, anche se si prevede che “la legge regola i casi e le forme della partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia” (art. 102, comma 3, Cost.), la legge stessa ha dato un ruolo limitato alla partecipazione popolare, per cui si può tranquillamente affermare che la giustizia non può essere considerata nell’ambito del contesto politico, essendo questo limitato strettamente agli organi di governo.

In conclusione, nella Repubblica democratica italiana la relazione tra la legge e la sentenza ha come punto di riferimento la Costituzione con la quale la legge e la sentenza formano un triangolo al cui centro stanno i diritti dei cittadini.

Perché la democrazia è in crisi

Molti sono i fattori che storicamente hanno messo in crisi la capacità della democrazia di realizzare l’unità del politico; alcuni hanno un carattere strutturale e investono il rapporto elettorale, altri la collocazione delle Camere nella forma di governo e le relazioni tra la rappresentanza e la società civile; altri ancora riguardano l’aspetto funzionale e attengono alla definizione dei fini politici, all’attività di controllo del Parlamento e alla stessa funzione della legge.

La capacità di mediazione nei conflitti sociali è il compito primario del politico e in democrazia questa capacità deriva dal rapporto tra la rappresentanza e il corpo sociale attraverso l’intermediazione dei partiti politici che sono associazioni attraverso cui i cittadini contribuiscono alla determinazione della politica nazionale.

La Costituzione non a caso prescrive che i partiti devono concorrere con metodo democratico, ma questo non sarebbe sufficiente a soddisfare il ruolo del partito politico (art. 49). Infatti, se il partito è uno strumento dei cittadini per partecipare alla politica, è necessario che non solo l’azione esterna, ma anche l’ordinamento interno del partito sia a base democratica. Infatti, nonostante non sia ripetuta per questi la previsione statuita per i sindacati, nell’art. 39 Cost., la mancanza di una organizzazione interna democratica non consentirebbe la realizzazione della libertà politica dei cittadini.

Da tempo, però, il sistema politico è fuori dallo schema costituzionale. Non è mancata solo una legge sui partiti politici in attuazione della Costituzione, o un corretto finanziamento di queste associazioni, bensì è cambiato ancora una volta il rapporto tra Stato e società, come accadde già con la perdita dell’omogeneità della rappresentanza borghese, quando fu riconosciuto il suffragio universale e le masse entrarono nell’agone politico con i propri partiti, rivendicando la propria quota di rappresentanza attraverso un sistema elettorale proporzionale. La stessa legge cambiò di significato in quanto il conflitto sociale avrebbe dovuto essere mediato all’interno della rappresentanza e la risultante della legislazione fu lo Stato di diritto sociale, con un ruolo attuativo riconosciuto agli altri poteri dello Stato. Infatti, tanto il governo, quanto la giurisdizione erano chiamati a soddisfare, oltre alla domanda di libertà, anche quella della giustizia sociale attraverso servizi pubblici e forme di redistribuzione della ricchezza.

Adesso, lo sviluppo dell’internazionalizzazione dell’economia e i processi di integrazione sovranazionali, tra i quali spicca in modo particolare quello europeo, hanno determinato una forte interdipendenza degli Stati, cui si accompagna una dispersione della loro sovranità. Il controllo della ricchezza sembra venuto meno e con esso anche la disponibilità di risorse per mantenere apparati pubblici imponenti. Lo Stato sociale e la democrazia basata sui partiti di massa sono entrati in crisi. Da un lato, gli Stati hanno dovuto ridurre la loro capacità di redistribuzione e, dall’altro, la democrazia è stata erosa progressivamente, sia perché è venuta meno la capacità di decisione politica della legge, con il subentro di normative internazionali e regolazioni private dei grandi trust economici e finanziari, sia perché i cittadini non hanno più visto nei partiti politici uno strumento di partecipazione.

I partiti politici erano associazioni fatte di militanti e dirigenti e istituivano un legame con i loro elettori e sino a quando questo legame consentiva l’influenza dal basso della decisione politica il partito è stato considerato una istituzione sociale importante e la libertà politica vista come una garanzia dei diritti. Ma, non appena la globalizzazione ha reso impossibile la funzione legislativa della rappresentanza, si è consumata una frattura perché la decisione politica non appariva più influenzabile da parte degli elettori e, di fronte a una politica autoreferenziale, anche i militanti non servivano più. La teorica del c.d. “partito leggero” ha preso il sopravvento su quella del partito di massa e i partiti, pur continuando a essere il meccanismo dei processi elettorali, cercano dei nuovi referenti, trovandoli proprio in quei poteri economici e finanziari con i quali ormai intrattengono scambi continui. C’è infatti un legame visibile tra politici e consulenti di azienda, tra posti politici e posti in consigli di amministrazione o in board di grandi complessi economici e trust internazionali.

Compito dei partiti diventa l’imposizione agli elettori del modo di pensare. Per questa ragione è interesse dei trust che oggetto della lotta per il potere non siano più le rappresentanze democratiche, bensì i governi che mediano gli accordi nei consessi internazionali e svolgono il “ruolo di commissari locali di polizia, che assicurano quel minimo ordine necessario per mandare avanti gli affari” e che “non vanno temuti come freni efficaci per la libertà delle imprese globali”.

I partiti leggeri, autoreferenziali e collegati ai consulenti d’impresa sono omologati e servono a questo compito. Perché siano guidati in modo funzionale, non serve più che abbiano una organizzazione democratica, bensì che abbiano un leader forte e visibile che appaia come il capo ideale del governo ed è per questo motivo che i Parlamenti, ancorché non sopprimibili, diventano un problema da risolvere in qualche modo.

Il loro ridimensionamento passa attraverso regole elettorali che non consentono agli elettori di agire sulle candidature, selezionate esclusivamente dai leader. Inoltre, una pessima propaganda li avvolge, con l’accusa di essere luoghi di grandi privilegi, a spese dei cittadini, e con l’affermazione che la vera democrazia sia solo quella diretta. Anche la riduzione della loro consistenza è funzionale a questa filosofia denigratoria della rappresentanza politica. E se all’orizzonte appare un partito o un movimento di protesta – ammesso che sia sincero – lo si fa giocare in un agone diverso da quello in cui i cittadini partecipano effettivamente e, perciò, in breve viene assimilato. Infatti, la spinta derivante dalla protesta popolare si trova inserita in un circuito democratico depotenziato: quello della post-democrazia, in cui le elezioni costituiscono “il massimo livello di partecipazione minima”.

Perché la giustizia è in crisi

Anche per la giurisdizione sono molti i fattori che ne determinano la crisi. Come è noto, appartiene all’ideale illuministico che il giudice sia la bocca della legge, come se la funzione di jus-dicere avesse qualcosa di assolutamente meccanico e tecnico, privo di ogni apporto valutativo. Ancora, quando lo Stato di diritto borghese si afferma con il principio della separazione dei poteri e il riconoscimento dei diritti, il giudice opera in una politica fatta da una rappresentanza omogenea, per via del suffragio limitato incentrato sulla proprietà, ed è il garante del sistema: ordine pubblico, da una parte, tutela della ricchezza privata, dall’altro.

È nel cambio di passo determinato dallo Stato di diritto sociale, con la democrazia dei partiti di massa, che la giustizia riscopre le vecchie teorie, pandettistiche e precodicistiche, sulla funzione creativa del giudice. Più la legge diventa mediazione di interessi, più si aprono spazi al ruolo della giurisdizione come vero intermediario sociale. Soccorrono il giudice, in questa sua attività di definizione delle parole della legge, i principi costituzionali e la presenza di un giudice costituzionale che accompagna a perfezione la funzione di nomofilachia della Cassazione.

L’epoca d’oro della dialettica tra legislatore e giudice finisce quando il sistema politico entra in crisi, la rappresentanza si svuota di significato e la verticalizzazione del rapporto politico in capo al governo accompagna lo spostamento dei centri di produzione del diritto dal livello nazionale a quello internazionale e globale.

Se la crisi della giustizia non si avverte immediatamente come perdita di una poderosa garanzia dei diritti, è perché gli sconvolgimenti del sistema politico portano a una sovraesposizione dei giudici e, dietro l’esaltazione giustizialista, si consuma la catastrofe della politicizzazione della giustizia che comporta la frantumazione della stessa magistratura, da ordine autonomo e indipendente a sistema di correnti, le quali, in parte, hanno il loro referente nei partiti e, in parte, direttamente nei trust economici e finanziari. La politicizzazione della giustizia ha fatto sì che il giudice non si limiti più a interpretare, sia pure creativamente, la legge, ma finisca con il disporre esso stesso la norma che deve valere in generale, anche quando è presente un preciso principio legislativo e le stesse procedure giudiziarie, nonostante riforme e adattamenti continui, vengono concretamente distorte dal loro fine che è la realizzazione della giustizia.

Questo regresso giudiziario, dovuto alla politicizzazione della funzione, alla fine tocca pure il giudice costituzionale, che esprimeva la più alta espressione del principio di legalità. Lo stesso valore della Costituzione come norma-guida della democrazia e di tutte le funzioni pubbliche, per questa via, perde di significato e non basteranno i criteri della ragionevolezza e della proporzionalità a mitigare gli effetti di una giurisprudenza che tende a deviare dal suo ordine e che si sente investita di una funzione politica, nonostante manchi di ogni legittimazione in tal senso.

Ciò che ha reso questa crisi, manifestata dal disordine giudiziario, più evidente e preoccupante è quel fenomeno che possiamo definire la “fuga dalla giustizia”, causata dalla globalizzazione.

Perché i conflitti sociali siano risolvibili, occorre avere la capacità effettiva di ricomporli secondo la legge, cioè avere realmente il potere di decisione secondo diritto. Ora, però, i conflitti sociali che venivano trattati legislativamente e composti giudizialmente, seguono un percorso diverso. Se questi conflitti, nonostante si manifestino nel mercato globale, restano ancorati al territorio nazionale, richiedono di essere trattati e mediati nel loro contesto economico e non semplicemente composti secondo la legge. È evidente allora come questa trattazione e mediazione non appartenga di certo al legislatore, perché non si tratta di statuire una legge generale, ma neppure al giudice in quanto sono presenti parti che sfuggono facilmente all’ambito della sentenza. Quasi tutte queste operazioni di risoluzione dei conflitti diventano trattative governative in senso proprio, i conflitti diventano oggetto di un negoziato politico e normativo, e questa metamorfosi della questione giudiziaria offre ancora, seppure in modo sempre più flebile, l’opportunità di una difesa dei diritti.

Dove, invece, la fuga dalla giustizia appare totale è nei casi in cui il mercato, sia nelle vicende nazionali, sia in quelle transnazionali, sembra capace di distaccarsi del tutto dallo Stato e di regolare direttamente la società. In questi casi la giustizia diventa un affare privato e i conflitti vengono semplicemente arbitrati. I processi decisionali, regolativi e risolutivi dei conflitti coinvolgono poteri privati e nei quali anche lo Stato, se compare, lo fa in una veste non di pubblica autorità, ma come parte vincolata dalla clausola compromissoria.

Ciò che residua della giustizia come funzione dello Stato con il compito di applicare la legge è un torso, privo di braccia e gambe, non in grado di garantire pienamente quei diritti e quelle pretese che sono i beni della vita di ogni individuo.

Ristabilire l’equilibrio democratico e la giustizia

Dietro ogni organizzazione del potere, sia esso politico, come economico e sociale, vi è sempre una visione del mondo che risponde a una struttura spirituale in cui si collocano il rapporto tra l’io e l’altro e tra l’io e il mondo. La domanda su quale sia la visione del mondo presupposta dalla globalizzazione, però, può ricevere una risposta traumatizzante nel senso che essa cancellerebbe gli elementi tipici del pensiero moderno che si fondano sul soggetto, la società e lo Stato, con conseguente scomparsa del politico. All’ordine politico del moderno, infatti, si contrapporrebbe il disordine (necessario) del globale, alla legittimazione dell’unità politica e democratica, quella autocratica e frammentata dei trust economici e finanziari.

In tal senso, la dimensione della globalizzazione appare palesemente insoddisfacente e insufficiente, perché comporta la riduzione dei diritti e delle libertà, la dissoluzione della solidarietà e dell’accoglienza sociale e la nullificazione dell’ordine giuridico dello Stato, e proprio le crisi globali hanno reso manifesta la necessità dello Stato di ordinare la società civile e assicurare i diritti e le libertà.

È in questo contesto che l’equilibrio democratico e la giustizia appaiono essere elementi non momentanei o meramente storici, bensì strutturali della visione che permette la convivenza umana e la formazione delle comunità.

Per ripristinare il senso dei principi di democrazia e di giustizia non è necessario interrompere i processi di internazionalizzazione e di integrazione politica, ma semplicemente ristabilire le regole di responsabilità di fronte ai cittadini e restituire alla legge i contenuti sottratti dalla globalizzazione e alla sentenza la sua funzione di norma individuale prodotta dallo jus-dicere.

A tal riguardo, molti vagheggiano un ritorno alla sovranità assoluta dello Stato, alla chiusura dei confini, al protezionismo dell’economia nazionale e a forme autarchiche del passato, oppure auspicano la verticalizzazione della legislazione: dalle Regioni allo Stato e dal Parlamento al governo. Inutile dire che sarebbero rimedi peggiori dei mali causati dalla globalizzazione stessa.

In realtà, la possibilità per la legge di disporre degli oggetti di disciplina sottratti dalla globalizzazione e per il giudice di tutelare l’ordinamento, appare legata alla strutturazione dello Stato in un modo affatto diverso da quello che era quando vigevano frontiere chiuse e protezionismo economico. In tal senso, occorre che i principi di democrazia e di giustizia, con i loro portati di diritti, libertà ed eguaglianza, si diffondano all’interno, con la democrazia di prossimità assicurata dalle autonomie territoriali, e all’esterno con la democratizzazione delle associazioni internazionali, prima fra tutte l’Unione europea. Infatti, dalle associazioni di Stati, attraverso lo Stato e fino alle autonomie territoriali esiste, per il tramite del principio democratico, una continuità di formazioni giuridiche che trapassano gradualmente una nell’altra, tutte dotate di potere legislativo e ordinate secondo la regola della competenza (multilevel government).

Anche la giustizia segue, e spesso anticipa, questa strutturazione multilivello, in cui la giurisdizione è ordinata secondo la regola della competenza, dai giudici di pace, ai tribunali, alle supreme giurisdizioni statali e alle Corti sopranazionali e internazionali. Per queste vie, democrazia e giustizia realizzano un ordinamento multilivello, in grado di governare il fenomeno della globalizzazione e tutelare i diritti e le libertà.

È ben evidente che la formazione di un equilibrio democratico e di una giustizia multilivello abbia difficoltà a realizzarsi, per via delle contraddizioni della politica di fronte alla complessità di coordinare l’organizzazione e la gestione delle relazioni istituzionali tra i diversi livelli di governo. Tuttavia, per risolvere i conflitti di competenza nell’ordinamento multilivello, basterebbe fare applicazione del principio della leale collaborazione, nel quale la dottrina dello Stato non a caso intravede uno sviluppo del principio di fraternità, che si accompagna a sua volta e non a caso a quello di libertà e di eguaglianza.

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Stelio Mangiameli è scrittore e professore ordinario di Diritto Costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Teramo. La sua attività didattica e di ricerca ha interessato il Diritto costituzionale, il Diritto regionale, il Diritto costituzionale europeo e il diritto pubblico dell’economia.

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