L’attuale stato di insostenibilità segnala una crisi strutturale. Che, nella differenza ma accomunati nella responsabilità, chiama in causa Stati Uniti e Paesi dell’Occidente europeo. L’instabilità rischia di protrarsi con il risultato di un ulteriore declino di competitività. Doveroso, allora, l’avvio di un percorso riparativo e trasformativo. Autenticamente liberale. Per non lasciare spazio al capitalismo autoritario. Alcune proposte per partire.
Tutte le grandi democrazie mostrano i segni di una crisi del modello. Quelle con garanzie redistributive pesanti, per esempio nell’ambiente europeo occidentale, tendono a soffocare la creazione della ricchezza riducendo così le opportunità di lavoro e/o di occupazione ben remunerata. In quelle con modello più liberalizzato, per esempio gli Stati Uniti, si osserva una configurazione del mercato che favorisce la generazione di opportunità, e quindi di un elevato potenziale di creazione della ricchezza, ma anche una gran quantità di persone non ha le capacità cognitive per coglierle. Pertanto, ambedue le vie tentate nel 1900 per creare capitalismo di massa, socialdemocrazia e liberalismo economico, non riescono a produrlo.
Negli anni Ottanta, nelle democrazie europee e negli Stati Uniti si è raggiunta la configurazione – per la prima volta nella storia nota – di circa 2/3 di abbienti e solo un 1/3 con poca o nulla capacità di risparmio, ma – in base alle indagini demoscopiche – con speranza di diventare ricchi o per lo meno rendere ricchi i figli.
Nel 2021 si osserva una regressione dove metà della popolazione tende a restare abbiente, ma l’altra metà è in fase di impoverimento con un aumento della coda “bassa” definita come povertà assoluta nonché un declino statistico della speranza di ricchezza futura. Dato confermato da una mobilità ascendente quasi piatta nell’area europea e decrescente negli Stati Uniti. In realtà questa tendenza è iniziata nei primi anni Novanta e fu rilevata nel libro Il fantasma della povertà (Mondadori, 1995) scritto a tre mani da E. Luttwak, C. Pelanda e G. Tremonti. Le reazioni, per lo più, furono che gli autori avevano scambiato una contingenza del ciclo economico con un problema strutturale, cioè di modelli. In realtà le tendenze successive mostrarono che il problema era strutturale.
Ma la politica, sia in America sia nell’ambiente europeo non se la sentì di riconoscerlo perché o non aveva idee chiare sul come riparare la traiettoria verso il capitalismo di massa e/o temeva di non ottenere consenso qualora avesse posto il tema in termini di offerta politica. Pertanto, la prima domanda è: come mai si è arrivati alla crisi della ricchezza diffusa socialmente nelle democrazie?
L’illusione post-bellica
Negli anni Sessanta vi fu l’impressione, soprattutto nelle nazioni europee, che il boom post-bellico sarebbe stato duraturo e che quindi “grattare” un po’ di ricchezza per redistribuirla non avrebbe creato problemi. Ciò avvenne in combinazione con l’aumento della domanda sociale di maggiori redditi e garanzie di protezione sociale e con un interesse tecnico della finanza ad avere più gente con capitale di risparmio. Da un lato, il movimento fu giusto in direzione del capitalismo di massa. Dall’altro, vi fu un’esagerazione che promise e diede a troppe persone un accesso alla ricchezza per diritto e non per valore effettivamente costruito. I welfare europei continentali iniziarono a erogare in diverse forme più garanzie economiche di quante riuscissero a sostenere. E già dai primi anni Novanta si notò che tali garanzie erano finanziate più con debito che con gettito derivante da crescita. Con la complicazione che le sinistre, caratterizzate da una cultura anticapitalistica, pretesero di governare il capitalismo senza rendersi conto che far pesare di più la redistribuzione sulla creazione della ricchezza, alla fine, avrebbe ridotto la seconda e che l’equilibrio apparente di quel tempo era solo dovuto a un’anomalia storica.
L’illusione dell’assistenzialismo strategico
Ma forse ebbe maggior peso sul disegno dei welfare europei la situazione creata dagli Stati Uniti per mantenere coesa e competitiva la sua sfera di influenza: il commercio internazionale asimmetrico. Semplificando, l’America permise agli alleati di esportare tutto quello che volevano nel ricco mercato interno statunitense senza chiedere reciprocità. Ciò rese ricchi gli alleati perché potevano allo stesso tempo proteggere alcuni settori economici importanti per il consenso e guadagnare molto dall’export. E tale guadagno servì a bilanciare l’inefficienza dei loro modelli interni, cioè la poca crescita di consumi e investimenti interni. Pertanto ci fu la sensazione che il modello delle garanzie inefficienti, e nelle democrazie asiatiche quello consociativo, potessero funzionare. Ma poteva funzionare fino a che l’America non avesse preteso la simmetria commerciale.
L’insostenibilità per l’America del mondo da essa stessa creato
Di fatto dai primi anni Cinquanta fino a oggi il mercato globale è stato retto dal deficit di bilancio statunitense. Infatti tutte le nazioni del mondo hanno preso un modello export-led, cioè trainato dall’export. L’America ha trasferito al resto del mondo ogni anno circa l’1% del PIL – alcune ricerche stimano di più – ma i dollari guadagnati dagli esportatori poi venivano rimandati nel sistema finanziario statunitense. Finanziariamente, per decenni, un qualche equilibrio fu raggiunto. Ma l’eccesso di concorrenza esterna provocò una de-industrializzazione che trasferì decine di milioni di lavoratori da occupazioni ben remunerate al settore dei servizi, creando un’enorme classe di lavoratori poveri. È interessante notare che lo stesso numero di disoccupati negli Stati europei comparabili corrisponde più o meno ai sottoccupati o sottosalariati statunitensi.
Ma il punto è che la massa impoverita in America ha raggiunto quasi il 50% della popolazione e ciò spiega la vittoria di Donald Trump nel 2016 e del suo programma, in effetti condotto male, di enfasi sulla simmetria commerciale e sul “riportare a casa” produzioni. Joe Biden ha un programma simile, pur più morbido. Va detto che nonostante gli sforzi di Trump, il deficit commerciale statunitense è aumentato nel periodo del suo mandato, in particolare verso la Cina, nonostante sia stata “nemicizzata”. Va anche detto che il bilanciamento finanziario statunitense del deficit commerciale è uno dei fattori che permette al dollaro lo status di moneta di riferimento mondiale, cosa che lo rende strumento di un peculiare signoraggio (geo)politico. Ma c’è un punto che tutte le democrazie evolute entro la pax americana devono annotare: gli Stati Uniti non potranno più reggere un modello di commercio internazionale asimmetrico e spingeranno per renderlo simmetrico.
Pertanto le democrazie con modello export-led dovranno diventare più capaci di produrre ricchezza propria.
La riconfigurazione del mondo delle democrazie
Due difetti e una mancanza.
In questa breve nota si può rilevare il difetto sia del tipo di garanzia economica diretta erogata nell’ambiente europeo continentale, che deprime la creazione della ricchezza, sia della garanzia indiretta erogata in America, cioè una configurazione espansiva della politica fiscale e monetaria, che ha la natura di una garanzia stessa perché rende probabile che un licenziato trovi rapidamente lavoro senza troppa assistenza nel mezzo.
La garanzia diretta di tipo europeo protegge il posto del lavoro e non il lavoratore, irrigidendo il sistema economico. In particolare, è un tipo di garanzia che finanzia i deboli lasciandoli tali. In sintesi, lo Stato sociale europeo non è trasformativo e per questo dissipa molto capitale perché va a finanziare passività. Ed è diseducativo perché non stimola l’attivismo dell’individuo.
La garanzia configurazionale di sistema erogata in America offre opportunità crescenti, ma quelle remunerative sono solo alla portata di chi, via istruzione, ha conquistato il potere cognitivo, cioè un valore di mercato in un’economia sempre più trainata dalla conoscenza.
Da questa analisi molto semplificata emerge un’ipotesi di scenario: l’America passerà a un modello di capitalismo selettivo, molto instabile perché la ricchezza sarà troppo differenziata tra gli elettori. L’Europa avrà questo problema più quello di una massa maggiore di poveri che evidentemente vorrà più soldi dallo Stato.
La tendenza è già visibile in ambedue le aree studiate e anche in altre democrazie, con eccezione di quelle di piccola scala. In sintesi, il mondo delle democrazie sta perdendo competitività perché non produce il capitalismo di massa o per garanzie sbagliate o per insufficienza delle stesse, lasciando spazio crescente all’efficienza del capitalismo autoritario nel pianeta.
A chi scrive sembra necessario l’avvio di una riparazione. Livelli nazionali europei: cominciare a muoversi gradualmente dal welfare redistributivo a quello di investimento, con missione trasformativa dei deboli in forti. Per farlo si tratta di dotare ogni individuo alla nascita di un credito da destinare alla sua qualificazione iniziale e continua. Man mano che tale modello prende piede, la quantità di individui qualificati aumenterà con minore probabilità di dover accedere ad assistenze pubbliche. In tale modello la garanzia è spostata appunto sulla qualificazione continua e trasformativa.
Lo stesso modello dovrebbe essere applicato in America, e in altre democrazie liberalizzate, per aumentare la massa di soggetti qualificati, mobili intellettualmente e geograficamente, per cogliere in maggior numero le opportunità che il modello liberalizzato stesso offre.

Pertanto qui si immagina un unico modello di welfare trasformativo che sostituisca sia quello redistributivo sia quello con insufficienza di garanzie. Il punto: per far accedere più persone a un’economia trainata dalla tecnologia bisogna qualificarle, con una spesa di investimento pro-capite – qui la novità – che potrebbe essere superiore tra le 10 e le 15 volte a quanto ora viene speso dai migliori modelli di istruzione e formazione continua nel mondo. Ciò implica una riallocazione dei denari pubblici dagli impieghi improduttivi a quelli della produttività del capitale umano. Non è una transizione facile – tutti dicono che ci vuole più istruzione, ma tremano quando si simula esattamente quanta per creare una base di capitalismo di massa – e bisognerà graduarla. Ma si può iniziare con costi moderati potenziando i sistemi formativi via tecnologia: non ci possono essere milioni di docenti per milioni di discenti, ma ci potrà essere un’intelligenza artificiale che interagisce con miliardi, controllata da poche centinaia di docenti. In particolare, le nuove tecnologie permettono la creazione di cibertutori individualizzati che aiutano l’autoapprendimento: in sintesi, la riqualificazione delle democrazie per rimetterle nuovamente sul binario del capitalismo di massa è, in sostanza, un’azione di incremento dei cervelli dotati non tanto di istruzione, ma di vero e proprio potere cognitivo.
Ma manca qualcosa. Immaginiamo uno scenario dove le nazioni democratiche comincino la qualificazione generando più soggetti qualificati: se così, bisognerà potenziare la garanzia indiretta configurazionale di un mercato liberalizzato che tali opportunità sia in grado di crearle. E tale mercato deve essere molto grande e con standard adatti ai costi e ai vincoli delle democrazie. Un’opzione è trasformare il G7 in un mercato integrato, gradualmente, che poi si estenda a tutte le altre democrazie. Il criterio è che se si mettono in contatto democrazie e non democrazie, le prime hanno svantaggi nonché vulnerabilità a contagi in caso di implosione periodica dei regimi autoritari. Pertanto, la garanzia di mercato espansivo che fornisce il significato concreto alle qualificazioni nazionali dei nuovi modelli di welfare richiede la formazione di una grande mercato mondiale fatto solo da democrazie e da nazioni che accettano un percorso di democratizzazione.
Avrà questa nova pax, sostitutore della pax americana pur includendola, una frizione conflittuale con la pax sinica? Certamente, il criterio democratico pone un confine netto a Stati che usano lavoro schiavistico, che non hanno Stato di diritto, che praticano concorrenza sleale in dumping, che non adottano standard di sostenibilità ambientale, trasparenza statistica, ecc.
Pertanto il macrodisegno di riparazione del capitalismo democratico, che implica profonde modifiche dei modelli di welfare nazionali e un’architettura di alleanza internazionale che li sostenga dall’esterno, implica certamente un conflitto con la Cina per chi comanda sugli standard globali, cioè sul mondo. Appunto, questi vengono decisi da chi possiede il mercato più grande perché costringe gli esportatori ad adeguarsi a quel mercato stesso. Per esempio, parliamo tutti inglese perché tutti dobbiamo fare business in America. Se la Cina diventasse più grande saremmo costretti a parlare cinese. Pertanto, la logica strategica più elementare suggerisce di creare un mondo delle democrazie che sia più grande della Cina stessa. Ed è il tentativo in atto.
Mettere accanto alla bandiera della propria nazione quella della democrazia
Il cenno sulla riparazione del cedente mondo delle democrazie si basa su una forte fiducia da parte di chi scrive che sia fattibile sul piano tecnico. Appare perfino banale potendo contare anche su un’evoluzione della politica monetaria che è in grado sia di rendere il capitale abbondante sia di mitigare il problema del debito, per esempio sterilizzandolo affinché non divenga destabilizzante. In sintesi: se hai un problema è la tecnica, non altri, che lo risolve. E la tecnica per questa salvazione in terra c’è.
Ma chi scrive è preoccupato da un gap morale: la democrazia e la democratizzazione non hanno sufficiente pressione sociale. Il confronto con la Cina potrà generarne di più: le democrazie tendono più a reagire che ad agire, per l’ovvia varietà di opinioni che si semplifica solo di fronte a un nemico o pericolo evidente. Ma potrebbe non bastare per compattare il complesso democratico sia sui piani nazionali sia sull’importante livello che è quello internazionale, cioè quello di un’architettura fatta da sovranità democratiche convergenti e reciprocamente contributive.
Sembra quasi che la libertà sia un bene secondario, il progetto di democratizzare le altre nazioni un’idea temeraria e inutile. Da un lato, è vero che la tecnica risolve i problemi. Ma la tecnica senza una teoria-guida morale perde potenza, scopo. Pertanto ai lettori chi scrive propone di valutare la creazione di una bandiera della democrazia da accostare a ogni bandiera nazionale e di alleanza regionale. Chi scrive si sente bene a dirlo – cittadino di una democrazia – forse chi lo farà si sentirà perfino meglio.
Chi è interessato al progetto nova pax complessivo lo troverà nel libro ora in stampa Riparazione del capitalismo democratico. Nuovi modelli nazionali e architettura internazionale (Rubbettino, estate 2021).