ARTICOLO | Primo Piano di "Atlantide" n. 45 (2019)
La sovranità in un mondo globalizzato
Discorso in occasione della Laurea ad honorem in Giurisprudenza, conferita a Mario Draghi il 22 febbraio 2019 dall’Università di Bologna
Non è più lo stesso di trent’anni fa, ma neanche quello di dieci anni fa: il mondo della cooperazione allo sviluppo è stato investito in pieno da un cambiamento radicale che lo ha costretto e lo costringe tuttora a rinnovarsi.
Un cambiamento che ha persino capovolto i punti cardinali: basti pensare che non si può parlare più dell’antica, e per certi versi “rassicurante”, divisione tra un Nord del mondo “ricco” e un Sud “povero”.
Da quando sulla scena del mondo ha preso piede la questione della sostenibilità – di cui si cominciò a parlare negli anni Settanta, ma che solo negli anni 2000 è divenuta un must – per citare un tema emblematico, ci siamo scoperti tutti interconnessi, direttamente esposti ai fatti che avvengono dall’altra parte del mondo, e quindi paradossalmente più fragili e forti al tempo stesso.
Jeffrey Sachs,1 nel suo The sustainable development, che riprende il lavoro di un network internazionale di studiosi sul tema, spiega la questione della sostenibilità in tutte le sue componenti: lo sviluppo non può essere pensato come un problema di altri, ma come un articolarsi di sistemi complessi composti di fattori diversi, intrecciati l’uno all’altro e ognuno determinante.
“A good society is not only an economically prosperous society (with high per capita income) but also one that is socially inclusive, environment ally sustainable, and well governed”2: da questa affermazione di Sachs si può comprendere il cambio di coordinate con cui deve paragonarsi chi fa cooperazione allo sviluppo. La questione ambientale, per esempio: già solo il modo con cui essa si è imposta a tutti i livelli fa comprendere in che misura ormai siano venute meno le distinzioni Nord-Sud. Lo conferma anche il dibattito accesosi perfino nei consessi più laici e trasversali intorno all’enciclica di Papa Francesco definita da alcuni “ambientalista”, la Laudato si’, che riprende e attualizza la tradizionale cura della Chiesa cattolica per il creato, invitando tutti a un cambiamento integrale degli stili di vita.3
Dice qualcosa del cambiamento dei rapporti Nord-Sud anche il processo inedito per dimensioni assolute delle migrazioni forzate, sul quale annaspa tutta la comunità internazionale alla ricerca di soluzioni: attraversa i confini degli Stati, sfonda i muri del diritto internazionale, avvicina i quattro punti cardinali e capovolge le mappe. L’Unione Europea, per esempio, il più grande donatore del mondo, su questo tema appare smarrita mentre cerca la via maestra per favorire lo sviluppo dell’Africa e quindi insieme governare il flusso di popoli che parte dalle regioni subsahariane.
Di qui, da questa crepa che si è aperta negli equilibri internazionali, una serie di implicazioni che riguardano anche i soggetti della cooperazione:
Sono implicazioni queste che vanno lette alla luce di due dati di fondo globali: da un lato, come rileva la World Bank, il numero delle persone che vivono sotto la soglia di povertà si sta riducendo4 (anche se i livelli di povertà estrema restano inaccettabili, soprattutto nell’Africa sub-sahariana, che conta 389 milioni di persone estremamente povere); dall’altro cresce la percezione del rischio rappresentato dalle migrazioni forzate, dalla disoccupazione, dalle questioni ambientali, per citare solo tre delle voci riportate da un’indagine del Worl Economic Forum,5 e dall’aggravarsi di crisi che sembrano destinate all’incenerimento di alcuni Paesi e regioni intere, o almeno di come noi li abbiamo conosciuti. Il caso Siria è un esempio tragicamente lampante, insieme a Sud Sudan, Haiti, Somalia, Repubblica democratica del Congo e molti altri.
L’intrecciarsi di tutte le implicazioni e dati esposti delinea il quadro nel quale operano ONG che, come AVSI, non sono specializzate in una competenza esclusiva, ma abbracciano una complessità di settori tutti ormai interdipendenti tra loro: l’ambito socio-educativo, lo sviluppo urbano, la sanità, la formazione al lavoro, l’agricoltura, la sicurezza alimentare, l’accesso all’acqua e all’energia, la tutela dell’ambiente, le emergenze umanitarie, la cura di migranti, rifugiati e sfollati, la difesa e promozione dei diritti umani.
Rimanere soggetti attivi ed efficaci in questo sistema denso e sempre in evoluzione richiede un modo di lavorare che adotti alcune accortezze e skills ormai irrinunciabili. L’alternativa è una sola: venirne espulsi. Eccone qui ricapitolate alcune.
La tensione tra orizzonte internazionale e bisogni/risorse locali
Nel settembre 2015 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, valutata come positiva anche se non esauriente l’esperienza dei Millennium Development Goals – che avevano favorito un passo avanti nella lotta alla povertà, senza tuttavia arrivare ai risultati auspicati all’inizio – ha lanciato 17 nuovi Sustainable Development Goals (SDGs), nuovi obiettivi di sviluppo sostenibile su cui lavorare tutti insieme, come comunità internazionale, da qui al 2030. Sono 17 obiettivi riferibili ai tre pilastri di sviluppo economico, inclusività sociale e sostenibilità ambientale, necessari a favorire il passaggio dal “business as usual and increasingly dangerous course to a new trajectory of sustainable development”.6
Tra i titoli di tali goals la salute, la lotta alla povertà, l’educazione, l’innovazione industriale, l’uguaglianza di genere… Sono temi che toccano tutti i Paesi del mondo (appunto sia i Paesi più poveri che quelli più ricchi), sono questioni non approcciabili in modo esclusivo perché vanno sempre considerate nel loro reciproco richiamarsi e determinarsi.7
Essi costituiscono la cornice entro cui agire anche come ONG, che deve aver presente a un tempo la dimensione macro e quella micro.
L’azione di una ONG come AVSI, cioè, è tesa tra questi due poli: da una lato l’attenzione ai trend internazionali e le indicazioni delle Nazioni Unite, dall’altro la fedeltà alla realtà locale, quindi all’azione nel “dettaglio” del villaggio del profondo Congo o Sud Sudan, dove questi grandi obiettivi si spezzano in sequenze ordinate di minute azioni quotidiane. Queste azioni risultano efficaci quando rispondono ai bisogni locali, da una parte, e promuovono le risorse locali, dall’altro: il bisogno del sacco di riso per sfamare le famiglie più povere; l’educazione delle madri sulla corretta nutrizione dei bambini; la formazione degli artigiani; ma anche la valorizzazione di settori come l’agricoltura dove la terra è fertile, e il potenziamento di determinate abilità di intere comunità.
Proprio in forza di questa “tensione” tra globale e locale, l’azione della ONG può far scaturire qualcosa di nuovo, un circolo virtuoso. Al rischio di astrazione che possono avere obiettivi studiati a tavolino da accademici, si può sfuggire grazie alla verifica pratica sul terreno e da qui è possibile tornare a portare un contributo al livello globale.
Non a caso anche l’ultima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha affrontato il tema delle migrazioni forzate in un summit dedicato, ha invitato le ONG a portare testimonianze concrete e dirette dal campo per la formulazione di nuovi accordi internazionali su migranti e rifugiati.8 Le esperienze locali non sono più scavalcabili.
Lavorare insieme non è più facoltativo
In questa buona pratica non si può procedere da soli. Anche alla luce della tecnicità sempre più stringente che viene richiesta dai grandi donatori nella preparazione dei progetti, occorre agire in partnership con altri soggetti presenti sul campo: altre ONG che hanno maturato specifiche competenze, organizzazioni ed espressioni della società civile che hanno particolare forza attrattiva in un dato contesto e presa sulla popolazione, istituzioni locali che garantiscono la riconoscibilità pubblica di un determinato progetto, imprese private che hanno come obiettivo il “fare affari” e ampliare i mercati per i loro prodotti.
Un’autentica partnership, quando non nasce dallo sforzo aggregativo intorno a una generica questione ideologica, ma emerge a partire da una volontà condivisa di affrontare insieme un problema definito, funziona come una somma “irregolare”, dal risultato potenziato: 1+1=3. Essa infatti libera energie nuove nel rispetto delle identità di ogni soggetto coinvolto, che ne esce arricchito.
La collaborazione conveniente anche per le imprese. Il caso del progetto SKY
Skilling Youths for Employment in Agribusiness (abbreviato in SKY) è un progetto innovativo, in corso in Uganda da metà 2016 grazie al sostegno del Governo olandese, che esplicita già nel nome il suo obiettivo: promuovere la formazione professionale dei giovani per corrispondere sia ai loro “talenti”, sia alle richieste oggettive del mercato del lavoro. Il fine è un reale inserimento lavorativo delle giovani generazioni in un Paese come l’Uganda, in cui il PIL cresce del 7% all’anno, ma l’83% dei giovani è disoccupato, il 78 % della popolazione è al di sotto dei 30 anni e il 52% sotto i 15. Numeri che spiegano perché c’è una forte migrazione interna dalle campagne alle città, e spesso da queste – che non offrono che misere possibilità di occupazione – verso l’estero.
SKY ha avviato una serie di partnership incrociate che coinvolgono 8.000 giovani, 14 enti formativi dello Stato, 4 istituzioni locali, 65 imprese agricole; tutti soggetti che da questa collaborazione “guadagnano”.
Ai giovani coinvolti, dopo una selezione che prende in considerazione le abilità personali, vengono proposti moduli di corsi diversi di 3, 6 o 12 mesi, in ambito agricolo, ma con diverse declinazioni: il corso sulla coltivazione del caffè viene abbinato anche a corsi su come si fa la tostatura e come si serve un caffè al bar, in modo da preparare nuovi lavoratori esperti di tutta la filiera del caffè. Così per il riso, gli ortaggi, il latte: da come si produce e commercia il latte a come si producono e commerciano gli yogurt…
Il proprietario di Agromax, una delle imprese locali che hanno stretto accordi con SKY, Rony J. Oved, a domanda esplicita sul perché si fosse impegnato nella formazione di 100 giovani all’anno, ha risposto: “Perché mi conviene: se formo agricoltori esperti, questi avranno bisogno di sementi e prodotti che io posso fornire. Di fatto amplio il mio mercato e il numero dei miei clienti”.
Aiuta a comprendere la filosofia di SKY anche uno dei motti proposti ai giovani beneficiari: “Earn as you learn”, guadagni perché impari: tu, ragazzo che vieni dallo slum o da una scuola tecnica o dall’università, chiunque tu sia, qui ti stai già costruendo un posto di lavoro.
Saper innovare
L’innovazione è un asset sempre più richiesto dai grandi donatori e condizione necessaria per poter concorrere ai bandi delle varie occasioni di filantropia strategica. Se ne parla da oltre un decennio, e non è solo questione formale o strumentale, perché è divenuta essa stessa un contenuto.
Anche a questo proposito si può citare il progetto SKY che si è appoggiato a una start-up olandese-ugandese, Eyeopener, per sviluppare un sistema di monitoraggio e valutazione “simultaneo”, che permette in tempo reale di monitorare, registrare e comunicare man mano i risultati del progetto e quindi il suo impatto.
Il sistema studiato per l’Uganda si articola in quattro parti: una reportistica mobile tramite l’uso di una nuova applicazione per telefoni cellulari; la registrazione di video e storie sul cambiamento che il progetto innesca; la realizzazione di foto di qualità; la messa online dei risultati su una piattaforma dedicata sul web (al momento ancora in costruzione).
L’applicazione per la raccolta dei dati sul campo è stata realizzata da View World (un fornitore di software) e funziona anche off-line. Una volta che l’apparecchio telefonico che la supporta trova e si connette a una rete wi-fi, può scaricare i dati direttamente sulla piattaforma del progetto (www.avsi-skyresults.ug).
Quindi il passaggio dai dati raccolti dallo staff, che si muove tra i villaggi sperduti, alla visualizzazione grafica sul sito visibile a donatori e comunicatori, diventerà immediato e facilmente interpretabile.
Generare soggetti
Ma tra sviluppi tecnologici e sfide globali e locali, non viene meno la domanda decisiva: quando funziona veramente la cooperazione?
Per l’AVSI del “cambiamento epocale” la cooperazione riesce quando il “beneficiario” è lieto che il progetto che l’ha visto coinvolto giunga a compimento. Sembra paradossale che qualcuno possa essere felice di questo? Che possa rallegrarsi che il sussidio previsto per lui finisca? No, perché vuol dire che la persona è maturata ed è divenuta un soggetto capace di camminare sulle proprie gambe, di riconoscersi protagonista della sua vita tanto da non avvertire più la necessità di un’assistenza costante da parte di terzi. Ma a questo traguardo si può arrivare solo se tutto il progetto è concepito fin dall’inizio con al centro la cura per la persona.
Educazione come chiave di volta
Il porre la persona al centro chiama subito in campo la questione educativa. Perché educare non è solo insegnare a leggere e scrivere, o preparare le giovani generazioni ad acquisire le competenze necessarie per superare gli esami di Stato. Tutto questo è fondamentale, certo, ma l’educazione è qualcosa di più, è trasversale a ogni sfida della cooperazione: anche se si tratta di un percorso accidentato e rischioso, educare significa partire dal positivo che è ogni persona di per sé, a prescindere dalle condizioni in cui vive (miseria, guerra, crimini, devianza…) e accompagnarla a riconoscere il proprio valore positivo. Questo il “training” più autentico: intraprendere un percorso per cui la signora malata di AIDS di Kampala, il piccolo criminale di uno slum di Nairobi o il profugo siriano che resta sospeso per anni in una tendopoli in Libano, scoprano che in qualsiasi situazione c’è la possibilità di ripartire. Senza questo “lavoro educativo”, grazie al quale la persona si scopre libera e in grado di riprendere in mano la sua vita, non c’è nessuna sponda dalla quale far partire lo sviluppo.9
Questa peraltro è la sostanza per AVSI dell’educazione “di qualità” cui aspira anche il n. 4 degli SDGs10 e alla quale fa riferimento l’Unesco.11
Postilla: e l’Italia?
Come si colloca di fronte agli SDGs e alle sfide globali della cooperazione allo sviluppo il nostro Paese? Con la legge 125 del 2014 che disciplina la cooperazione per lo sviluppo, legge attesa da tempo, l’Italia si sta ritagliando un profilo di rilievo internazionale. Con l’Agenzia, lo spessore politico riconosciuto alla Direzione generale della cooperazione allo sviluppo, l’avvio della Banca di Sviluppo attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, la legge ha innescato una rivoluzione. Ne è un primo esempio il bando, che l’Agenzia lancerà a breve, che chiama i diversi soggetti della società civile a cimentarsi in progetti innovativi. Una società civile da intendersi come una trama di rapporti dinamici che nasce dalla persona che si organizza in vista del bene comune.
Uno dei cardini della legge 125 è l’incentivo alla collaborazione tra ong e imprese profit, ritenuta decisiva. Ci sono già degli esempi in atto: Enel ed Eni, solo per citare due casi, in America Latina e in Africa, attraverso la partnership con ong attive da anni sul campo, hanno potuto l’una favorire l’accesso all’energia nelle favelas e l’altra interventi sociali a favore delle popolazioni. Hanno fatto un “buon affare”, non hanno giocato a fare le multinazionali “buone”. Un processo nel quale coinvolgere ora anche le piccole e medie imprese, uno degli asset italiani. Questo il percorso sul quale l’Italia dovrebbe insistere come leva di un nuovo protagonismo del nostro Paese e insieme di una ripresa economica senza più il fiato corto.
1J. Sachs è un economista statunitense, dirige l’Earth Institute, centro dedicato alla ricerca sulla sostenibilità presso la Columbia University di New York.
2J. D. Sachs, The Age of Sustainable Development, Columbia, New York 2015, 12.
3Cfr. L. Goodstein, J. Gillis, On Planet in Distress, a Papal Call to Action, in New York Times, 18 giugno 2015
http://www.nytimes.com/interactive/2015/06/18/world/europe/encyclical-laudato-si.html?_r=0
4“Global extreme poverty continues to fall rapidly. In 2013, the year for which the most comprehensive data on global poverty is available, 767 million people, or 10.7 percent of the population, were estimated to be living below the international poverty line of $1.90 per person per day. Around 100 million people moved out of extreme poverty from 2012 to 2013, and since 1990, nearly 1.1 billion people have escaped extreme poverty. The global poor are predominantly rural, young, poorly educated, are mostly employed in the agricultural sector, and live in larger households with more children” http://www.worldbank.org/en/publication/poverty-and-shared-prosperity.
5Cfr. https://www.weforum.org/agenda/2016/01/what-are-the-top-global-risks-for...
6Sachs, cit., p. 489.
7Cfr. https://sustainabledevelopment.un.org/?menu=1300
8http://www.avsi.org/2016/09/27/la-voce-avsi-alle-nazioni-unite-new-york/
9Cfr. B. Gabriella, G. Folloni, I. Schnyder, Alla radice dello sviluppo: l’importanza del fattore umano, Guerini e Associati, Milano 2011.
10Cfr. https://sustainabledevelopment.un.org/sdg4
11Cfr. Global Education Report 2016 http://unesdoc.unesco.org/images/0024/002457/245752e.pdf
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