“Università e Ricerca” è un tema di grande rilievo per la crescita e lo sviluppo del Paese, perché di grande rilievo sono l’alta formazione dei nostri giovani e l’attività di ricerca che si riesce a produrre. Tutta la ricerca, da quella di base a quella applicata, da quella che si fa in ambito universitario e negli enti di ricerca a quella presente (o che dovrebbe essere presente) nelle imprese e nei loro processi di innovazione. Bisogna anche rimarcare che i due temi, formazione e ricerca, devono comparire insieme perché la futura classe dirigente del Paese deve essere formata alla ricerca e con la ricerca.
Il Parlamento che si è insediato da poco e il governo che il Paese sperabilmente si darà, non possono prescindere da un riassetto di questo settore. Soprattutto, e questo è il punto che desidero inserire nell’Agenda delle questioni più importanti che la rivista, in questo numero, vuole mettere in evidenza, il tema “Università e Ricerca”, al quale andrebbe aggiunto anche quello della “Scuola”, deve essere finalmente inserito tra quelli di maggiore priorità. Per essere più precisi, non si può più solo parlarne. È arrivato il momento del fare.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un graduale quanto inevitabile declino di questo apparato, sebbene nelle ultime legislature si sia cominciato a operare, con la legge di riforma universitaria e la sua graduale attuazione, verso un’autonomia responsabile degli atenei e una incentivazione del merito. L’ANVUR, l’agenzia autonoma istituita ai fini della valutazione delle università e degli enti di ricerca, ha potuto finalmente iniziare i suoi lavori nel maggio del 2011, quasi completando, tra l’altro, l’esercizio di valutazione della ricerca prodotta nel periodo 2004-2010. Gli atenei hanno proceduto a modificare i loro organi gestionali e di formazione secondo criteri di maggiore efficienza e responsabilità.
Si è pensato, giustamente, a migliorare l’efficienza amministrativa, a procedere al taglio dei rami secchi, a iniziare il processo di valutazione per incentivare il merito. Non si è pensato invece, come si sarebbe dovuto, a investire adeguatamente in formazione e ricerca, con il paradosso di adoperarsi a identificare i malanni senza cercare le risorse per poterli curare. Il risultato è che il sistema dell’università e della ricerca sta soffrendo, i nostri giovani stanno soffrendo, anche per colpe del sistema stesso, a cui si sta cercando di porre rimedio, ma soprattutto per le carenze strutturali di sempre, che se continuano a perdurare troppo a lungo possono portare a un declino irreversibile. Non che il livello formativo dei nostri giovani laureati e dottori di ricerca sia troppo basso. Anzi, sono ancora merce molto apprezzata all’estero. O che la quantità e la qualità della nostra ricerca siano sotto gli standard internazionali. Non è ancora così. Ci sono dei settori in cui siamo leader assoluti. È che stiamo diventando sempre meno attrattivi per gli stranieri e per i nostri bravi giovani che sono andati all’estero a fare i loro primi anni di esperienza. Il flusso uscente non è pareggiato da quello entrante.
Voglio cercare di coniugare questo punto dell’Agenda, che, come ho già scritto, ritengo fondamentale per il nostro Paese, con alcune linee programmatiche che mi auguro i decisori politici vogliano e possano percorrere.
Finanziamento della quota premiale alle università ed enti di ricerca con fondi aggiuntivi
La quota di FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario) distribuita tra le università è andata negli anni sempre diminuendo, al punto che attualmente non è più sufficiente a garantire i salari e la funzionalità per tutti gli atenei per l’intero anno accademico. Le quote premiali assegnate in base alla valutazione delle università sono attualmente ricomprese nel FFO per poco più del 13% e finiscono per essere usate per il funzionamento e non per la ricerca o per il miglioramento delle strutture didattiche.
È necessario che i fondi per le quote premiali da assegnare alle università e agli enti di ricerca diventino aggiuntivi, soprattutto se vogliamo che la percentuale di premialità cresca al 20%. Si tratta di una cifra non impossibile da trovare nei meandri del bilancio, giocando sulle inefficienze e dispersioni esistenti nel “sistema Italia”. Questa operazione comincerebbe a dare il senso di un vero cambiamento di prospettive su formazione, cultura e ricerca, al di là delle tante parole inutilmente spese, creando, io credo, un largo consenso nel mondo universitario e della ricerca. L’assegnazione di questi finanziamenti su base premiale sarebbe inoltre perfettamente in linea con la valutazione del merito. Si ripristinerebbe così una quota di finanziamenti che le università potrebbero utilizzare per la ricerca dei loro docenti più meritevoli.
Attualmente i fondi per la ricerca sono distribuiti, sia a livello nazionale che europeo, sulla base della presentazione di progetti. Si verifica l’assurdo che molti ricercatori bravi, per ottenere i finanziamenti necessari per portare avanti la loro ricerca sono costretti a “inventarsi” ogni anno o due nuovi dei filoni di ricerca, ai quali poi in realtà non potranno che dedicare solo una piccola frazione del loro tempo. Ben venga quindi una quota di finanziamenti alla ricerca assegnati non su progetto ma solo in base al merito del ricercatore o del gruppo di ricerca. Devono ovviamente rimanere le assegnazioni di finanziamenti su progetto, riservate in parte ai giovani e in parte alle grandi collaborazioni. Le valutazioni ex-ante di tali progetti e i relativi finanziamenti dovrebbero essere gestiti dal neonato Comitato Nazionale dei Garanti della Ricerca (CNGR).
Costituzione di federazioni di università o di cartelli universitari
Lo sviluppo del complesso universitario, in termini di strutture, è avvenuto senza una “strategia Paese”. Siamo adesso arrivati al punto di dover pensare seriamente a un suo riassetto. Ce lo chiede la competizione internazionale. Ce lo chiede il controllo sulla spesa. Ce lo chiede soprattutto la necessità che i nostri giovani diventino prima possibile cittadini dell’Europa e del mondo. A questo proposito è necessario che le università mettano a fuoco le loro specificità, anche utilizzando le valutazioni che l’ANVUR sta facendo e che farà. Ciò, anche nella prospettiva di dar vita a federazioni o cartelli universitari che siano ben inseriti nel contesto produttivo territoriale. Le federazioni dovranno dare più della somma delle singole università che le compongono, in termini di attrattività per gli studenti, di crescita della qualità dell’offerta formativa e dei risultati della ricerca. Si tratta di una complessa operazione che non può che essere governata centralmente, in stretta collaborazione con le amministrazioni regionali e con quelle universitarie. La crescita del territorio non può prescindere dal considerare l’alta formazione universitaria una variabile ineludibile. Rientrano in questo disegno la ripartenza di una edilizia universitaria rivolta ai giovani, con la realizzazione di campus attrezzati.
Pieno riconoscimento di cittadinanza della formazione dottorale
Un tema di grande rilevanza per la crescita delle capacità di innovazione del Paese riguarda la formazione dottorale, che ritengo vada affrontato assieme a un riesame dell’iter formativo universitario. I nostri giovani escono dalle università mediamente più vecchi dei loro colleghi europei: il 3+2 fornisce le stesse conoscenze che venivano date in quattro anni prima del Processo di Bologna. Il 3 è poco caratterizzato. Nei fatti il 3+2 è un 5, che sta diventando sempre più frequentemente 6 o più di 6. L’effetto riduzione della permanenza media degli studenti all’università, che c’è stato subito dopo l’introduzione del 3+2, si sta gradualmente vanificando. Uno studente bravo prende il PhD (titolo di dottorato) all’età di 27-28 anni. Troppi. Perché, come avviene nel mondo anglosassone, non considerare il 2 del 3+2 come propedeutico al dottorato? Questo eviterebbe di ripetere nel 2 e nel primo anno di dottorato alcuni insegnamenti, come attualmente avviene, e permetterebbe allo studente di fare 3 anni pieni di ricerca.
Un secondo punto importante riguarda la formazione dottorale. Questa è, per tradizione, prevalentemente rivolta a carriere accademiche e troppo poco attenta alle istanze che emergono dal mondo del lavoro. Mondo che, a eccezione di quello accademico, è in grado di assorbire solo una piccola frazione di PhD, ed è poco incline a riconoscere le competenze acquisite e soprattutto a riconoscere i livelli formativi conseguiti. Nel nostro Paese, il PhD non è considerato un valore aggiunto per carriere dirigenziali.
I futuri dottorandi dovranno sempre di più non solo imparare a far ricerca autonomamente ma anche acquisire le capacità di problem solving, critical thinking e decision making, che i futuri manager dell’innovazione devono avere e che solo la formazione universitaria di terzo livello può dare.
Riassetto degli enti di ricerca
Gli enti di ricerca rappresentano una realtà importantissima del Paese, una realtà che, nata con la intenzione di rafforzare la ricerca italiana e di dotarla delle necessarie infrastrutture è andata via via frammentandosi in vari settori e sotto-settori disciplinari, seguendo in questo l’evoluzione della scienza. È necessario tornare indietro per riguadagnare una visione globale della scienza. Il riassetto degli enti di ricerca non può prescindere dal fatto che la ricerca si fa e si deve fare anche presso le università. Tra i compiti principali c’è quello di gestire le grandi infrastrutture di ricerca del Paese, e quindi di operare come centri di riferimento ai quali i professori e ricercatori operanti presso le università possano accedere. Questo è un compito alto. Richiede di monitorare le potenzialità espresse all’interno delle realtà universitarie nazionali, di coglierne le eccellenze e sapervi innestare le nuove idee e le nuove linee di ricerca che emergono nel contesto internazionale, promuovere l’interdisciplinarità, nonché favorire le collaborazioni con le imprese. Si capisce quindi come sia assolutamente necessario invertire quella che è stata purtroppo la tendenza di alcuni degli enti di ricerca negli ultimi anni, cioè allontanarsi dalle università, non prendere parte alla formazione dottorale, non condividere con le università le relazioni internazionali che si vengono formando attorno alle grandi infrastrutture di ricerca.
Potenziamento degli organi di valutazione e di raccolta di dati informativi
La quantità e la complessità delle attività di valutazione ex-post del sistema universitario e della ricerca richiedono un potenziamento delle risorse, sia in termini di finanziamenti, sia in termini di personale, originariamente previsti per l’agenzia nazionale a questo preposta, l’ANVUR. Per comprendere il grado di complessità di questa attività si pensi che il solo esercizio di valutazione della ricerca, che è da considerarsi pressoché terminato, ha fatto uso di quasi 450 esperti, distribuiti nelle varie aree disciplinari, i quali a loro volta, per valutare circa 200.000 prodotti, hanno coinvolto più di 16000 referee esterni. Si è da poco aperto il capitolo della valutazione della didattica e della gestione degli atenei, e quindi delle migliaia di corsi di studio e di dottorato esistenti, senza contare il capitolo che sta per aprirsi riguardo alla valutazione delle istituzioni di formazione artistico-musicale, da poco (ahimè) equiparate a università.
È infine necessario intervenire sul sistema informativo dei dati universitari, a uso sia delle agenzie di valutazione, sia delle attività di programmazione e di autovalutazione dei singoli atenei ed enti di ricerca. Mi riferisco in particolare alle varie anagrafi, quella dei professori e ricercatori e loro pubblicazioni scientifiche (ANPRePS), quella della ricerca, quella dei laureati e dei dottori di ricerca che includa i loro esiti occupazionali. A tutt’oggi queste informazioni sono difficilmente reperibili e in modo incompleto e non omogeneo. Anche questo è un segno della debolezza del sistema a cui bisogna far fronte.