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ARTICOLO | Tema di "Atlantide" n. 25 (2012)

I volti della Crisi

  • MAR 2012
  • José Maria Aznar
La Rivista

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Questo testo è una versione rielaborata della conferenza tenuta dall’ex presidente del Governo della Spagna, José Maria Aznar a Milano, al Club Ambrosetti, il 18 ottobre 2010

L’Europa si trova immersa in una delle crisi più gravi della sua storia recente. In parte, questa grave situazione è dovuta al fatto che si tratta di una crisi che, fino a poco tempo fa, è rimasta nascosta. E forse continuerebbe a esserlo, se non fosse perché alcuni dei suoi effetti economici sono ormai impossibili da nascondere. 
Non è possibile continuare a ignorare l’effetto economico e finanziario della crisi europea. Ma queste difficoltà non sono il suo aspetto peggiore, ma una delle conseguenze di qualcosa che è molto più profondo e molto più esteso. La vera crisi di fondo che attraversa il nostro continente non riceve l’attenzione che merita. Se non ne siamo coscienti, né siamo in grado di risolverla radicalmente, sarà inutile cercare di risolvere difficoltà che sono unicamente conseguenze

Per questo mi pare necessario adottare un’ampia prospettiva storica. Una prospettiva abbastanza vasta da includere i problemi di fondo, che vanno oltre la superficialità di molte delle analisi consuete. Non dobbiamo commettere l’errore di confondere l’onda con la sua schiuma.

Alla fine della Seconda guerra mondiale, l’Europa ha stabilito alcune solide basi su cui fondare la sua sicurezza, libertà e prosperità. Queste basi erano:

- l’Alleanza Atlantica, come pilastro della sicurezza;

- la democrazia liberale, come fondamento della libertà negli Stati europei, e un modello di benessere condiviso, come manifestazione di un ampio consenso sociale;

- l’Unione Europea, come espressione della volontà di cooperazione pacifica degli Stati in un’economia libera

Di fatto, già i Trattati europei del 1957 si basavano sull’idea che la pace, la libertà e la prosperità devono essere protette simultaneamente. Perché, quando si accetta il sacrificio di una di esse, le altre due finiscono quasi irrimediabilmente per perdersi.

L’esperienza dell’Europa tra le due guerre e il suo tragico epilogo hanno costituito un insegnamento decisivo su cui si è potuto costruire un lungo periodo di sicurezza, di libertà e di progresso economico e sociale. Un’esperienza su cui si è fondata l’assoluta convinzione del fatto che questi risultati sono frutto dello sforzo delle società che lavorano per ottenerli e mantenerli.

E tuttavia oggi guadagnano terreno coloro che vedono il mondo – e coloro che 34 fanno politica –, a partire dall’erronea convinzione che la libertà, la sicurezza e il progresso siano quasi beni naturali, sempre garantiti a prescindere da quello che facciamo. Ma non è così

La libertà non è un bene garantito

La crisi attuale ci ha mostrato con crudezza che non basta non fare male le cose. È necessario fare le cose bene. E per questo è necessario porsi le domande giuste.

Non è la stessa cosa interrogarsi sulle cause della libertà, della sicurezza e del progresso e interrogarsi sulle cause della povertà, della guerra e del conflitto civile.

Noi che ci poniamo la prima domanda comprendiamo che la sicurezza, l’esercizio della libertà, la prosperità e il benessere dipendono dalle nostre azioni, e che non potrebbero esistere se non fosse perché le società sono in grado di proteggerle mediante istituzioni che rispondono a certe idee e a certi valori.

Al contrario, coloro che si pongono la seconda domanda non fanno niente per proteggerle e si occupano esclusivamente di trovare un colpevole quando la loro assenza diventa evidente. Il primo di questi due modi di vedere il mondo, e di esercitare la politica, è realistico e responsabile. Il secondo è utopico e irresponsabile.

Il primo rende possibile la civiltà, la libertà, la scienza, la cultura e l’impresa; migliora le condizioni di vita e rende possibile il modello di benessere; confida nelle persone, e nei rapporti sociali ed economici che queste instaurano liberamente tra di loro. Il secondo invece è il triste risultato della rinuncia a tutte le cose precedenti.

In quest’ultimo caso l’imprenditore non sarà percepito come un creatore di ricchezza e benessere, ma come qualcuno che si impadronisce di ciò che non gli appartiene. Voi sapete bene di cosa sto parlando, e lo sanno anche gli imprenditori del mio Paese.

Il conflitto tra queste due visioni opposte del mondo politico, economico e sociale, giorno per giorno sta diventando sempre più palese nelle nostre società. Credo, sinceramente, che proprio in questo ambito si collochi la vera origine della nostra crisi europea. Per la sua soluzione non basta che vincano le elezioni partiti che abbiano una volontà e un’agenda riformiste. È anche necessario che questi partiti sappiano trovare il modo per portare avanti i loro programmi di riforma.

Tutto ciò è estremamente difficile, perché tra di noi si è radicato un cocktail di illusioni postmoderne:

– l’illusione del «progressismo», ossia l’illusione che per le società sia automaticamente garantito il miglioramento, senza che nessuno faccia qualcosa per migliorarle, e che la coesione sociale e il benessere di tutti si possano mantenere senza alcuno sforzo;

– l’illusione del «buonismo», ossia che non esistano minacce reali alla libertà oltre a I volti della crisi 35 quelle che gli stessi Governi si inventano con non si sa quali oscure intenzioni;

– infine, l’illusione dell’«eterno adolescente», ossia l’idea che l’individuo è una fonte inestinguibile di diritti che lo Stato ha l’obbligo di soddisfare in cambio di niente e per un tempo infinito. Un’illusione che è esattamente l’opposto di un modello di benessere sociale fattibile, giusto e basato su un vasto consenso.

Una società non può durare se si fonda su queste illusioni. Un’alleanza di progressisti, buonisti ed eterni adolescenti non costituirà mai una società coesa, né in grado di garantire la sicurezza, l’esercizio della libertà e il progresso reale. Questo tipo di alleanza costituisce un bersaglio perfetto di fronte alle minacce del mondo attuale.

È difficile sapere quando l’Europa ha cominciato a perdere le basi su cui si fondava il progetto continentale, e quando ha iniziato a sostituirle con questo cocktail postmoderno veramente esplosivo per il futuro di qualsiasi Paese. Ma è certo che, con il nuovo secolo, il progetto europeo ha subito una sfida in piena regola da cui non è ancora riuscito a riprendersi.

La fine della Guerra fredda e l’inizio della globalizzazione sono stati l’occasione per l’Europa di rafforzarsi in modo coerente con le sue basi fondative. Si è messo in moto il processo dell’Unione Economica e Monetaria, e il patto di Stabilità e di Crescita; l’ampliamento all’Est e il Trattato di Nizza e un’Alleanza Atlantica rinnovata, con una nuova concezione strategica alla luce della tragica esperienza dei Balcani.

Questi tre accordi decisivi avrebbero dovuto permettere all’Europa di affrontare con fiducia, e con chiarezza morale e intellettuale, la nuova epoca della globalizzazione. Avrebbero dovuto permetterle anche di rinnovare i consensi-chiave rispetto al suo modello sociale, possibile unicamente se si mantengono la crescita sociale e gli equilibri demografici.

L’Europa mancava certamente di vigore nei suoi impegni, ma questi accordi erano proprio quelli che l’Europa doveva stipulare. L’obiettivo di tali impegni era:

– progredire economicamente mediante la competitività, l’innovazione e l’equilibrio di bilancio;

– rendere sostenibile il benessere, riformandolo e aggiornandolo, trasformando lo «Stato del benessere» nella «società del benessere»;

– assumersi maggiori responsabilità nel mantenere la sicurezza propria e mondiale;

– favorire la democrazia e la libertà, all’interno e all’esterno del continente.

L’UE schiava dei nazionalismi

Questo sforzo ha però subito un duro colpo nel 2003. In primo luogo si è avuta una rottura del vincolo atlantico da parte di alcuni Paesi europei, fatto che ha diviso anche la stessa Unione. Con la pretesa di trasformare l’Europa in un potere contrapposto agli Stati Uniti, si sono invece ottenute sfiducia, confusione e divisioni interne.

In secondo luogo, si è liquidato il Trattato di Nizza, che permetteva di regolare in La crisi attuale ci ha mostrato con crudezza che non basta non fare male le cose. È necessario fare le cose bene. E per questo è necessario porsi le domande giuste. 36 modo ragionevole l’ampliamento dell’Unione Europea. Al suo posto, è stato avviato un processo pseudo-costituente che, per anni, ha mantenuto l’Unione Europea in uno stato di paralisi. Un processo che ha perso di vista il fatto che l’Unione riceve legittimità e forza dagli Stati nazionali che la compongono, e che è uno strumento al loro servizio, e non il contrario.

Infine, si è abbandonato l’originario Patto di Stabilità e di Crescita, che dava senso e rendeva possibile una moneta comune che stimolava e, allo stesso tempo, richiedeva la stabilità economica dei suoi membri. Una moneta comune che partiva da un impegno elementare: non è bene abituarsi a spendere senza pagare perché, se ciò diventa un’abitudine, si mette in pericolo il modello di benessere, come poi è risultato evidente.

La mancanza di volontà politica nel rispettare tutti questi accordi ha portato all’irresponsabile decisione di ignorarli. Da quel momento, l’Europa si è indebolita.

Si è indebolita perché un’Europa che spezza il vincolo atlantico è un’Europa debole; un’Europa che non si basa sulla forza dei suoi Stati è un’Europa debole; un’Europa indebitata è un’Europa debole; e un’Europa con un modello di benessere insostenibile perché la sua economia non cresce e la sua demografia perde equilibrio è un’Europa debole.

Un’Europa che non lavora per essere prospera non può esserlo, anche se il «progressismo» crede che lo sia, e non può mantenere il consenso sul suo modello di benessere. Un’Europa che non si occupa della sua sicurezza non può essere un’Europa sicura, anche se il «buonismo» crede che lo sia. E un’Europa che riconosce diritti ma non doveri non è sostenibile, anche se l’«eterno adolescente» crede che lo sia.

Una nuova direzione?

Dobbiamo impegnarci affinché l’Europa abbandoni il «progressismo», se vogliamo recuperare il progresso per l’Europa; dobbiamo impegnarci a denunciare i pericoli del «buonismo» se vogliamo difendere con efficacia il valore universale dei diritti umani in Europa e nel mondo; dobbiamo combattere l’atteggiamento egoistico di chi pretende di avere diritti ma non doveri se vogliamo riportare le persone al centro della vita sociale e politica, se vogliamo che la loro libertà sia reale e responsabile, ossia se vogliamo preservare il modello sociale europeo.

Dobbiamo recuperare una giusta direzione per l’Europa. Il nuovo Patto di Stabilità dovrà essere rispettato da tutti e in qualsiasi circostanza, per evitare che un Paese diventi pericoloso per i suoi soci. Risulta imprescindibile che gli impegni politici si trasformino in accordi nazionali rigorosi.

Le grandi sfide alla sicurezza mondiale, dall’Afghanistan alla Somalia, dalla Corea all’Iran, devono rappresentare l’opportunità grazie alla quale l’Europa potrà affrontare con decisione le sue responsabilità nella sicurezza mondiale, che è la sua stessa sicurezza. Le democrazie europee, per essere conservate, hanno bisogno di sforzi equiparabili ai pericoli che le minacciano.

Le riforme e la modernizzazione richieste urgentemente dal modello di benessere I volti della crisi 37 europeo devono essere l’opportunità grazie alla quale la libertà tornerà a essere un valore centrale nelle nostre società. Il Welfare State deve cedere il passo a una vigorosa Welfare Society aperta a tutti e nella quale la responsabilità individuale, la creazione di opportunità e la mobilità sociale abbiano un ruolo preponderante.

Si deve restituire alla società lo spazio che le appartiene. Uno spazio in cui l’accordo libero e responsabile tra le persone è spesso più efficace dell’imposizione messa in atto dai poteri pubblici, anche se portata a termine con le migliori intenzioni.

Queste sfide concrete si devono inscrivere in uno sforzo collettivo per rimettere al centro del progetto europeo i principi del liberalismo politico, tra i quali si trova la coesione sociale, un modello di benessere condiviso che renda effettiva l’uguaglianza delle opportunità. A sua volta, ciò richiede il recupero dei grandi valori della tradizione culturale europea.

Mettere al centro i principi del liberalismo significa restaurare il vero significato della democrazia e i suoi limiti; comprendere che il potere politico e le politiche del benessere sono strumenti al servizio della vita libera e del completo sviluppo delle persone.

Credo sinceramente che in questo momento il potere politico abbia oltrepassato ogni ragionevole limite e abbia invaso terreni che non devono essere di sua competenza, e credo che i consensi sul modello sociale europeo ne soffrano. Non è compito del potere politico illuminare verità, ma piuttosto generare e gestire consensi come strumenti della pace sociale.

Su questo punto ha senso parlare di un impegno liberale rimasto in sospeso, che possa rimettere al suo posto il potere politico. Dobbiamo valorizzare il buon liberalismo perché ciò significa valorizzare il nostro modello politico, l’unico che rende possibile il pluralismo e la diversità, e significa anche valorizzare un modello di benessere sociale giusto e fattibile.

È urgente che l’Europa si riallacci alle sue radici, perché siamo destinati a un ripiegamento dello Stato come risultato degli eccessi che hanno dato origine alla crisi. Ripiegamento che sarà meno traumatico se affrontiamo con determinazione riforme imprescindibili.

Le istituzioni sociali che devono prendere il posto che lo Stato lascerà vuoto hanno una radice culturale che dobbiamo proteggere e rivitalizzare. C’è bisogno che una potente «società del benessere» riempia spazi che, diversamente, corrono il rischio di perdersi nell’anomia e nella degradazione.

La grande nazione culturale europea è un’associazione tra coloro che ci hanno preceduto – che ci offrono la loro esperienza, a volte amara, e la loro sapienza –, noi stessi – che possiamo approfittarne – e, infine, coloro che ci succederanno, che devono ricevere quello che sapremo trasmettere loro.

La rottura di questo vincolo intergenerazionale è all’origine del fallimento del progetto europeo. La perdita del sentimento nazionale della politica, come continuità tra generazioni e come esercizio di coesione sociale, conduce a disprezzare quanto Si deve restituire alla società lo spazio che le appartiene. Uno spazio in cui l’accordo libero e responsabile tra le persone è spesso più efficace dell’imposizione messa in atto dai poteri pubblici, anche se portata a termine con le migliori intenzioni. 38 ci è stato trasmesso di valido. E porta anche a non preoccuparsi di quello che si lascerà a chi verrà dopo di noi.

Una soluzione di ampia portata

Non è un caso che tra di noi, in Europa, le espressioni economiche e finanziarie dell’eclisse delle nostre radici culturali siano l’eccessivo deficit, il debito insostenibile e, quindi, l’indebolimento del nostro modello di benessere. L’abitudine a spendere senza freni e senza preoccuparsi di come si pagherà, né di quale beneficio sociale lasceranno queste spese, riflette un disinteresse deplorevole.

Questa abitudine ci ha portato a consolidare come diritti acquisiti quello che si è promesso di pagare con entrate congiunturali che sono sparite per sempre. E in questo senso non c’è dubbio che la crisi fiscale è, essenzialmente, una crisi morale

La crisi di molti Stati europei ha origine nella mancanza di volontà politica di far valere accordi pienamente vigenti e perfettamente legittimi. Se cedessero alle pressioni, spesso minoritarie, i Governi tradirebbero le loro società, perché le avvierebbero verso il disastro economico, e ciò significherebbe la perdita del benessere sociale.

È necessario che i Governi si impegnino in un lavoro di persuasione, aperto e trasparente, che metta al centro del dibattito politico le ragioni per cui risulta imprescindibile realizzare una riforma strutturale della spesa pubblica a corto, medio e lungo termine.

Patriottismo oggi significa sacrificio, vuol dire scegliere la strada più difficile e condurvi le società che si governano, affinché il loro modello di benessere si mantenga salvo e i consensi sociali creati intorno a esso non si perdano.

Infine, è necessario che l’Europa sviluppi una cultura della sicurezza. Una cultura che permetta agli europei di essere consapevoli della proliferazione di minacce reali contro il nostro modo di vivere, e specialmente contro la nostra libertà.

Per troppo tempo noi europei abbiamo potuto ignorare gran parte di queste minacce, perché abbiamo contato sulla protezione degli Stati Uniti. Ora le minacce sono diventate molto più complesse e l’opzione della sicurezza gratuita non esiste più per nessuno. È necessario riconsiderare il progetto dell’Alleanza Atlantica per farla diventare una vera e propria alleanza per la sicurezza delle società libere. Le vecchie categorie per comprendere il mondo non sono più utili.

In definitiva, è necessario che l’Europa si impegni nel suo compito più serio, quello di rafforzare i tre pilastri fondamentali su cui devono poggiare la sua libertà, la sua prosperità e la sua sicurezza.

Come cinquant’anni fa, si tratta di trovare il modo di proteggere simultaneamente il carattere liberale delle nostre società e delle nostre istituzioni; di acquisire competitività per creare lavoro e progresso reale in un’economia globale sempre più aperta e più esigente; di rinnovare e rafforzare il modello europeo di benessere e, infine, di farci carico della nostra sicurezza in modo responsabile e prevedibile.

Credo che soltanto osservando la nostra crisi da questa prospettiva ampia e profonda si possa comprendere che la via d’uscita non si trova solo nei politici, né tantomeno solo negli imprenditori. La soluzione che cerchiamo non riguarda solo l’economia, ma tutto l’insieme della società: l’economia, naturalmente, ma anche la cultura, la scienza o la politica. È il nostro modello di benessere, che oggi è seriamente minacciato. Cerchiamo una soluzione per un problema sociale e culturale di portata continentale, e la risposta dovrà necessariamente avere la stessa portata.

Tutti, ognuno dalla sua posizione, dobbiamo contribuire a far sì che il difficile processo di adattamento del grande processo europeo al complesso scenario del XXI secolo sia il meno traumatico e il più rapido possibile. È qui che ci stiamo giocando nientemeno che il futuro del nostro modo di vivere.

1 Questo testo è una versione rielaborata della conferenza tenuta da José Maria Aznar a Milano al Club Ambrosetti il 18 ottobre 2010.

 

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