«Più» Europa

  • MAR 2012
  • Gianni De Michelis
La Rivista

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Credo che ormai anche il più disattento tra di noi abbia capito che il nostro futuro dipenderà non tanto dal ruolo con cui si dipanerà la crisi del sistema politico italiano, quanto dall’esito che avrà la partita che si sta svolgendo (anch’essa essenzialmente sul terreno politico ben prima che sul quello economico e finanziario) a livello europeo.

 

Anche per questo è tanto più stupefacente il fatto che, almeno a livello ufficiale, la discussione infuri su questioni sostanzialmente assai meno rilevanti come le liberalizzazioni, l’articolo 18 o le leggi elettorali, nel mentre la decisione del nostro Primo ministro di firmare assieme ad altri undici colleghi e senza i due Paesi europei più importanti (Germania e Francia), ci viene raccontata come «business as usual» e senza che ciò provochi nessuna discussione.

È urgente modificare questa situazione e fare in modo che anche in Italia si apra una discussione, sia a livello del ceto politico che della cosiddetta società civile, per orientare il comportamento del governo in una partita che non solo è più aperta che mai, ma che, soprattutto, va molto al di là della semplice considerazione circa la maggiore o minore sopportabilità dei sacrifici che comunque saremo chiamati, in ogni caso, a compiere per evitare un aggravamento irreversibile della crisi e della recessione, che ormai è già diventata, da possibilità, realtà.

Tra l’altro qualcuno – ad esempio Limes con il suo ultimo numero del 2011 oppure Giulio Tremonti con il suo recentissimo libro Uscita di sicurezza – hanno già cominciato a delineare talune tra le possibili opzioni che sono di fronte all’Unione Europea e quindi di conseguenza anche al nostro Paese.

Ben venga quindi anche l’iniziativa di Atlantide, sperando che, di fronte all’obiettivo aggravamento della situazione, contribuisca ad accendere e a generalizzare una discussione che risulta assolutamente urgente, centrale e cruciale, se non altro perché – un po’ paradossalmente nella partita che si è aperta (certo il ruolo centrale è quello della Germania) – Francia e Regno Unito sono due comprimari assolutamente essenziali, ma il ruolo dell’Italia è per certi versi oggettivamente ancora più importante di quello dei due Paesi sopra indicati, e, per dirla proprio con Limes, l’Italia potrebbe avere un vero e proprio ruolo da superpotenza, se solo ne fosse consapevole, ovviamente sia a livello delle élites, che a livello dell’opinione pubblica.

E la consapevolezza, ovvero l’eliminazione della condizione di inconsapevolezza, 28 può essere superata solo con una discussione seria ed approfondita, che tra l’altro è l’unico modo di sfuggire al rischio che corriamo, noi come gli altri membri dell’Unione Europea, e cioè di naufragare sugli scogli, vere e proprie «Scilla e Cariddi» della tecnocrazia e del populismo, rischio i cui connotati sono particolarmente evidenti nella situazione italiana.

Quando invece dovremmo puntare a rendere convincenti gli argomenti che possono indurre la nostra comunità nazionale – sia a livello delle élites (sottraendole alle sirene della tecnocrazia), sia a livello dell’opinione pubblica (sottraendola alle tentazioni della deriva populistica antieuropea) – a ritrovare le ragioni per battersi a favore dell’unica opzione che ci può aprire la prospettiva della fuoriuscita dalla crisi; massimizzando le opportunità e minimizzando i danni della transizione che comunque saremo costretti ad affrontare, e cioè l’opzione di «più Europa» nel duplice senso, sia di un rafforzamento del processo di integrazione in tema di governance sovranazionale (quello che in gergo possiamo chiamare il deepening), sia di un allargamento delle prospettive, in termini veri e propri di confini geografici, di integrazione dell’Europa medesima (quello che d’ora in poi definiremo come il widening).

 

Più Europa oltre la crisi

Tenterò, sia pure schematicamente, di delineare il ragionamento che dovremmo seguire per l’opzione che definisco «più Europa» e le ragioni per le quali le caratteristiche della crisi epocale, in cui siamo immersi assieme al resto del mondo, rendono questa opzione ancora più convincente e forte di quanto non potesse apparire prima della crisi.

Per fare questo sono costretto a partire da lontano, e cioè da vent’anni e più fa, quando di colpo, tra il 1989 e il 1991, il mondo ci cambiò sotto gli occhi e fummo costretti a tentare di riprogettare tutte le nostre strategie per tenere conto di un contesto che era drammaticamente cambiato, tra l’altro soprattutto per noi europei.

E la prima cosa che fummo costretti a cambiare fu proprio la strategia che avevamo seguito da alcuni decenni in materia di integrazione dell’Europa: fino a quel momento l’integrazione europea aveva riguardato in termini geografici la sola Europa occidentale (con qualche eccezione almeno in un primo tempo, Grecia, Spagna, Portogallo, oppure qualche Paese scandinavo, o l’Austria) e in temi di governance la sola economia (con la metafora del mercato comune).

Di colpo fummo costretti a prendere in considerazione una prospettiva geografica assai più ampia (il widening di colpo si estese all’Europa orientale o ex sovietica, tra l’altro con un inizio praticamente immediato riguardante l’unificazione tedesca che venne realizzata in meno di un anno dalla caduta del Muro di Berlino, tra il 9 novembre 1989 e il 3 ottobre 1990) e la necessità di estendere le logiche di governance della sfera economica e finanziaria a quella più prettamente politica.

In quel momento la nostra agenda, stilata negli anni precedenti, aveva come obiettivo quello di portare a compimento l’integrazione in materia economica, finanziaria e di mercato, con l’ultima tappa per la realizzazione effettiva di quel grande «Più» Europa 29 mercato interno di cui avevamo parlato con il Trattato di Lussemburgo del 1987, con la realizzazione dell’unificazione monetaria e la creazione dell’euro.

Le circostanze ci offrirono l’opportunità di uno scambio politico immediato (il marco in cambio dell’unificazione tedesca) che in qualche modo ci sembrò consentisse di collegare in modo logico la fase passata con quella futura (la moneta come elemento di collegamento tra l’integrazione economica e quella politica).

Naturalmente fummo costretti a fare i conti con i tempi strettissimi che avevamo a disposizione: nessuno ci pensa più, ma per fortuna riuscimmo a chiudere il processo di unificazione tedesca a tamburo battente, perché, guarda caso, pochi mesi dopo, il 19 agosto del 1991, ci fu un tentativo di colpo di stato nell’URSS e qualcuno di noi non dormì quella notte al pensiero di quello che sarebbe potuto succedere se le truppe sovietiche ancora dislocate in parte, con il loro armamento atomico, sul territorio tedesco, avessero potuto fare i conti ancora con la DDR e non più con la Bundesrepublik, membro della NATO e della Comunità Europea.

Quindi non fummo nella condizione di affrontare e sciogliere tutti i nodi che avremmo voluto e che sapevamo i nostri successori avrebbero dovuto affrontare e risolvere – tra cui ovviamente il fatto che una moneta non avrebbe potuto reggere senza un governo dell’economia progressivamente trasferito a Bruxelles – e che di questo fossimo pienamente consapevoli ne è la prova il fatto che, nel Trattato di Maastricht, prevedemmo esplicitamente la convocazione di una nuova Conferenza Intergovernativa (memori delle difficoltà incontrate nella convocazione delle due conferenze che portarono a Maastricht) proprio al fine di affrontare i nodi che noi non eravamo stati nelle condizioni di affrontare, relativi proprio alla governance economica di quella che da Comunità era diventata Unione e la prevedemmo, non a caso, prima dell’entrata in vigore dell’euro, quindi in tempi assolutamente utili.

Quello che non potevamo sapere era che poi Amsterdam non sarebbe stata all’altezza del compito e soprattutto che, al momento della fase finale dei negoziati per l’introduzione dell’euro, la Germania col patto di stabilità si sarebbe accontentata di misure relative all’osservanza dei parametri (tra l’altro, aggiungendo una valutazione del parametro relativo allo stock di debito che andava contro le ragioni per cui tale parametro era stato introdotto al momento del negoziato) e non pretese, come giustamente ha fatto oggi, le misure in materia di coordinamento delle politiche fiscali.

Poi venne Nizza, di nuovo bersaglio mancato e il tracollo fu definitivo, con la bocciatura referendaria del cosiddetto Trattato Costituzionale: a completare la frittata fu l’abbandono delle regole non scritte che sottostavano a tutta la filosofia di Maastricht e cioè che «widening and deepening» dovevano andare «hand in hand» ovvero di pari passo: nel mentre l’allargamento venne, come previsto, dopo l’euro nel 2004, il deepening avvenne cinque anni dopo, nel dicembre 2009, quando tra l’altro la crisi globale era già esplosa.

L’Europa inciampò almeno due volte anche nella direzione del widening, la prima volta nei Balcani con un comportamento balbettante durante la crisi della ex-Jugoslavia, e l’altra nel Mediterraneo, con il processo di Barcellona e il tentativo di rilancio, praticamente abortito, con l’Unione per il Mediterraneo.

E per ricordare tutti i parziali passi falsi compiuti, da ultimo non possiamo dimenticare Lisbona 2000 con l’impegno di arrivare al 2010 trasformando il nostro continente nell’economia più performante del mondo nei settori «knowledge intensive», dimostrando così la consapevolezza delle élites europee che il problema della capacità di crescita e della competitività a livello globale dell’economia europea era un obiettivo altrettanto importante di quello degli equilibri di finanza pubblica e della stabilità dei prezzi.

Peccato che il 2010 sia alle nostre spalle, che Lisbona sia stata totalmente dimenticata, che l’Unione non abbia fatto assolutamente nulla in quella direzione e che tecnocraticamente (ma io direi burocraticamente) l’obiettivo 2010 sia stato spostato al 2020 senza che materialmente nelle discussioni drammatiche di questi giorni, nessuno si sia posto il problema di come conciliare l’equilibrio dei bilanci pubblici con quello del recupero di un minimo di competitività.

E per capire quanto Lisbona avrebbe potuto rappresentare lo soluzione per i problemi non solo economici ma anche sociali dell’Europa, basta guardare alla performance di un Paese che invece si è mosso davvero e concretamente in quella direzione e cioè la Corea del Sud.

Tutto ciò per dire che, se siamo finiti in questa condizione, non è perché il progetto di Maastricht fosse sbagliato, ma semplicemente perché è stato eseguito male, contraddittoriamente e inadeguatamente e che ora non vi è una soluzione diversa che quella di rilanciare: non meno Europa, ma ancor più Europa, in ambedue le direzioni, sia sotto il profilo della governance ma anche sotto quello dell’allargamento, ricordando che si tratta di due facce inseparabili di una medesima medaglia.

Tra l’altro, essendo nel frattempo ulteriormente cambiato il mondo, rispetto a vent’anni fa: per dirla in modo sintetico, con un salto di paradigma, la configurazione del mondo è cambiata e dal G8 siamo passati al G20+, a quello che io nel 2009 ho cominciato a chiamare il mondo «post-Pittsburg», l’Europa deve rendersi conto di come è cambiato il paradigma e come il mondo è diventato irreversibilmente multipolare e le regole del gioco della competizione multipolare prevedono anche alcune nuove caratteristiche dal dividendo demografico positivo e negativo, dalla taglia delle polarità regionali per garantire un adeguato mercato interno, dalla necessità di considerare l’importanza delle prossimità geografiche nel determinare l’estensione dei propri orizzonti di relazioni economiche e commerciali.

No alle sirene populistiche

Di conseguenza quindi bisogna che prima le élite e poi gli strati più dinamici dell’opinione pubblica, e quindi soprattutto le giovani generazioni, si rendano conto delle conseguenze di tutte queste considerazioni e capisco quindi che le sirene populistiche del ritorno ai confini nazionali e comunque le prospettive difensive, che fino a ieri chiamavamo del «rattrappimento baltico», non possono convenire a nessuno, e meno che mai ai più forti e che quindi non vi è alternativa alla direzione verso «più Europa» che in termini geografici vuol dire non solo completare il lavoro già avviato sul nostro continente, ma ampliarlo, secondo la logica della prospettiva verso Est (verso lo spazio ex-sovietico) e verso Sud (verso Mediterraneo, Medio Oriente, Penisola Araba, tra l’altro cogliendo l’opportunità offertaci dai rivolgimenti in corso nella maggioranza di tali Paesi) e in termini di governance inevitabilmente vorrà dire riprendere in considerazione i modelli istituzionali secondo una logica dello step by step e dei cerchi concentrici o di quelle che chiamerei geometrie variabili con un criterio.

D’altronde, questo si sarebbe già dovuto fare ai tempi di Maastricht e dopo, quando ad alcuni di noi (e penso soprattutto a Mitterand) risultava chiaro che la nuova fase che si apriva non poteva essere affrontata tout court col passaggio dalla logica intergovernativa tipica della cooperazione politica a una logica federalista, ma avrebbe dovuto comportare una fase intermedia cosiddetta confederale di cui i connotati in qualche modo si sono venuti evidenziando, anche senza chiamarli con il loro nome (il Consiglio Europeo, il Presidente dell’Europa, il Ministro degli Esteri dell’Europa, il nuovo ruolo sempre più centrale del Parlamentare Europeo).

Secondo la logica dei cerchi concentrici si può pensare a un gruppo di Paesi per cui è maturo un passo avanti decisivo di tipo federale, un secondo gruppo per cui una logica confederale esplicita risulterà possibile, e a un terzo cerchio (verso Est e verso Sud) di Paesi associati secondo una logica intergovernativa ma comunque coinvolti in veri e propri processi di decision-making e non solo di decision-shaping.

Naturalmente dobbiamo avere chiaro che «time is running out» e quindi che la prima cosa che conterà è quella di essere consapevoli del ruolo che può essere giocato da ciascun attore e che soprattutto nel passaggio dalla logica confederale a quella federale, cruciale per il successo dell’intera generazione, alcuni Paesi sono oggettivamente più uguali degli altri e che tra questi vi è anche l’Italia.

L’ultima considerazione è relativa ai connotati della crisi globale e anche qui non occorrono molte considerazioni per arrivare alla conclusione che l’essenza di tale crisi è lo scontro tra la politica e la finanza e quindi giungere alla conclusione che o la politica saprà riprendere il suo ruolo, che deve essere quello di dettare le regole, comprese quelle che riguardano il funzionamento delle attività finanziarie, soprattutto ristabilendo un rapporto tra economia reale (e quindi lavoro umano) e finanza, oppure inevitabilmente dalla crisi non usciremo senza un’altra espressione del sopravvento della politica, e cioè il conflitto, per capire il ruolo centrale che l’Europa può giocare rispetto agli Stati Uniti e alla Cina, e in Europa il ruolo centrale che può giocare oltre alla Germania, l’Italia stessa.

 

 

 

 

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