Per un’Europa davvero “unita nella diversità”

“Determinati a porre le fondamenta per una unione sempre più stretta dei popoli europei”, recitava il preambolo del Trattato istitutivo della Comunità economica europea del 1957.

“Decisi a portare avanti il processo di creazione di un’unione sempre più stretta fra i popoli dell’Europa”, conferma il preambolo del Trattato sull’Unione europea dopo le modifiche apportate con il Trattato di Lisbona.
Ciò che contraddistingue il progetto europeo è la realizzazione di una unità salvaguardando tutta la sua pluralità: si tratta di una unione di popoli, al plurale, destinati a stringere legami fra loro, senza sacrificare la ricchezza delle loro molteplici culture. L’altro non è destinato a confondersi in un unum indistinto. Dal punto di vista giuridico e costituzionalistico, oltre che politico e sociale, l’Europa è un progetto del tutto originale, dove il pluralismo costituzionale teorizzato da molti (Maduro, Walker) è per molti aspetti già una realtà.

Sussidiarietà: meriti e limiti del Trattato di Maastricht

Se c’è un principio che bene esprime questa ambiziosa scommessa europea di stringere i legami tra i popoli europei senza fondersi in una unità indistinta e indifferenziata è il principio di sussidiarietà. Non a caso la prima positivizzazione del principio di sussidiarietà si è verificata proprio nell’ambito dell’ordinamento europeo. Infatti, il principio di sussidiarietà è comparso per la prima volta in un testo giuridico con il Trattato di Maastricht.
L’art. 3B del Trattato di Maastricht si appellava al principio di sussidiarietà per regolare il riparto di competenze tra Stato e Unione europea:
“Nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene secondo il principio di sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo delle dimensioni o degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati meglio a livello comunitario”.
Meriti e limiti del Trattato di Maastricht: merito è stato l’aver traghettato nel mondo del diritto un principio fino ad allora conosciuto solo nella filosofia politica e nella dottrina sociale della Chiesa cattolica; limite è stato l’aver accolto il principio esclusivamente nella sua dimensione verticale, unicamente quale cerniera tra diversi livelli di governo, in particolare tra Stati e istituzioni europee, senza mai accennare alla dimensione orizzontale della sussidiarietà. Inoltre, il Trattato sull’UE ignora la valenza positiva del principio, secondo la quale “ogni autorità ha il compito di incentivare, di sostenere e, solo da ultimo, se necessario, supplire gli attori incapaci” (C. Millon-Delsol): della sussidiarietà il diritto europeo coglie il principio di non intervento dell’istanza superiore quando quelle inferiori possono agire da sé, mentre non prevede che laddove l’azione statale non sia adeguata la Comunità intervenga a supporto delle prime; al contrario, quando risulta che gli Stati non sono in grado di svolgere adeguatamente un dato compito, il principio di sussidiarietà come formulato nei trattati europei prevede che la Comunità o l’Unione si sostituiscano agli Stati, avocando a sé la possibilità di agire.
In definitiva, nell’Unione europea il principio di sussidiarietà era destinato a operare essenzialmente nell’ambito della distribuzione delle competenze tra Unione europea e Stati membri.
Neppure il Trattato di Lisbona si discosta sostanzialmente dalla prospettiva fin qui abbracciata. Infatti il nuovo art. 5 del TUE prevede che:
“1. La delimitazione delle competenze dell’Unione si fonda sul principio di attribuzione. L’esercizio delle competenze dell’Unione si fonda sui principi di sussidiarietà e proporzionalità.
[…] 3. In virtù del principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l’Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione.
Le istituzioni dell’Unione applicano il principio di sussidiarietà conformemente al protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. I parlamenti nazionali vigilano sul rispetto del principio di sussidiarietà secondo la procedura prevista in detto protocollo”.
Il Trattato di Lisbona si mantiene in linea di continuità con il passato, ribadendo il principio di sussidiarietà, senza modificarne in modo significativo la portata. Esso rimane nell’ordinamento in dimensione esclusivamente verticale, privo di valenza positiva, mentre il principio di sussidiarietà orizzontale non è preso in considerazione e neppure adombrato.
Sia nelle sue formulazioni originarie sia in quelle successive, il principio di sussidiarietà nel sistema dell’Unione europea avrebbe dovuto controbilanciare una chiara tendenza ascensionale e accentratrice, che nel corso degli anni aveva determinato importanti spostamenti di competenze dagli Stati al livello superiore.
Nonostante la sua perdurante vigenza sin dal 1992, il principio di sussidiarietà non sembra però aver sortito gli effetti sperati sul riparto di competenze tra Stati e Unione europea, e in particolare non sembra essere stato un fattore di freno o rallentamento dell’ininterrotto processo di espansione delle competenze dell’Unione europea che ha radici lontane nel tempo. Di fatto, benché da allora il principio di sussidiarietà sia entrato nel linguaggio politico e istituzionale, la sua applicazione in sede giurisdizionale appare a tutt’oggi difficilmente apprezzabile.
A livello europeo, la Corte di giustizia, pur essendo stata investita occasionalmente del problema di verificare la compatibilità di alcuni atti delle istituzioni europee con il principio di sussidiarietà, non ha svolto uno scrutinio severo, limitandosi a verificare che gli atti sottoposti al suo giudizio fossero stati motivati sotto il profilo del rispetto del principio in esame e accettando persino che la motivazione potesse anche assumere la forma implicita. A livello nazionale, anche se non mancano alcune pronunce di Corti costituzionali nazionali, in particolare quella tedesca, che in astratto riservano a sé il compito di sindacare la pertinenza degli atti delle istituzioni comunitarie alle competenze devolute alla Comunità e all’Unione europee, non risultano a oggi decisioni che abbiano accertato che l’Unione abbia legiferato ultra vires.

Sussidiarietà: i poteri di controllo dei Parlamenti nazionali

Considerata l’inefficacia dei controlli giurisdizionali sul rispetto del riparto delle competenze tra Unione e Stati membri, durante il grande dibattito sulla Costituzione dell’Europa, sviluppatosi a partire dalla Dichiarazione di Laeken, dal 2001 in poi, si è cominciato a prefigurare un ruolo dei Parlamenti nazionali nel controllo sul rispetto del principio di sussidiarietà. Da quel momento in poi si sta sviluppando la tendenza a far leva su un controllo in sede politica del principio di sussidiarietà, affidato principalmente ai Parlamenti nazionali. Anche da questo punto di vista il Trattato di Lisbona riprende in larga misura i risultati raggiunti dalla Convenzione costituzionale europea e in buona sostanza riproduce le soluzioni già contenute nel Trattato costituzionale europeo.
Due protocolli annessi al Trattato di Lisbona si occupano del controllo politico sul rispetto del principio di sussidiarietà: il protocollo n. 1 sui Parlamenti nazionali e il protocollo n. 2 sul principio di sussidiarietà e di proporzionalità.
Il vero perno dei controlli politici è costituito dall’early warning system. Informati di tutti i progetti di atti legislativi europei, i Parlamenti nazionali hanno a disposizione otto settimane per esaminare e discutere le proposte normative anche sotto il profilo del rispetto del principio di sussidiarietà (e di proporzionalità) (art. 6, prot. 2). Il loro compito dovrebbe essere preparato e facilitato dalle stesse istituzioni comunitarie – e in particolare dalla Commissione che copre tuttora un ruolo di spicco nell’iniziativa legislativa –, le quali sono tenute a motivare tutti i progetti legislativi sotto il profilo del rispetto della sussidiarietà (art. 5, prot. 2). Qualora una Camera parlamentare ritenga che un progetto legislativo non sia conforme al principio di sussidiarietà può inviare un parere motivato alle istituzioni europee: Parlamento europeo, Consiglio e Commissione.
Se i pareri parlamentari negativi sul rispetto del principio di sussidiarietà raggiungono almeno un terzo dei voti attribuiti ai Parlamenti nazionali (ciascun Parlamento nazionale ha due voti a disposizione, uno per ciascuna Camera, di norma, art. 7, prot. 2), l’istituzione che ha proposto il progetto è tenuta a riesaminarlo, potendo poi decidere se mantenere il progetto, modificarlo o ritirarlo, con obbligo di motivazione (art. 7, comma 2, prot. 2).
Se i pareri negativi sul rispetto del principio di sussidiarietà raggiungono la maggioranza semplice dei voti attribuiti ai Parlamenti nazionali, la proposta, oltre a essere riesaminata dalla Commissione e se mantenuta e adeguatamente motivata, viene sottoposta al legislatore dell’Unione – Parlamento europeo e Consiglio – corredata di tutti i pareri, in modo tale che prima di procedere all’esame nel merito del progetto normativo sia svolta anche dal legislatore europeo un’adeguata valutazione su rispetto del principio di sussidiarietà.
Questo controllo politico dovrebbe poi rafforzare anche il controllo giurisdizionale della Corte di giustizia, la cui competenza a sindacare gli atti legislativi europei in ordine al principio di sussidiarietà è espressamente prevista (art. 8, prot. 2). La Corte potrebbe sia compiere una valutazione autonoma sul rispetto del principio in questione, che tuttavia si è visto essere molto problematica in sede giurisdizionale, sia compiere una valutazione sulla correttezza dello svolgimento del controllo politico, basato sull’early warning system.
I Parlamenti nazionali hanno iniziato a fare uso di questi poteri, di fatto bloccando in una prima occasione un progetto di regole europee comuni per l’esercizio del diritto di sciopero e in una seconda, facendo uso della cosiddetta yellow card, in relazione al progetto di istituzione di una procura europea.
Per quanto si tratti di una prassi iniziale, certamente il controllo dei Parlamenti nazionali sul rispetto del principio di sussidiarietà appare più vitale del controllo giurisdizionale. L’applicazione della sussidiarietà ha bisogno (anche) di una sede politica, che preceda e supporti quella giurisdizionale, e dunque da questo punto di vista la strada intrapresa dal Trattato di Lisbona appare promettente.
I rapporti tra i vari soggetti nei sistemi di governo compositi, siano essi regionali o sovranazionali, rientrano sempre più a fatica nello schema della separazione e della divisione degli ambiti di azione. Gli elenchi di competenze esclusivamente affidati all’uno o all’altro livello di governo sono continuamente messi a soqquadro da incursioni reciproche, giustificati in nome di materie trasversali, della necessità di sviluppare forme di cooperazione, e in ossequio ai principi di sussidiarietà e di proporzionalità che operano trasversalmente nei vari ambiti materiali.

Necessità di sedi politiche di composizione dei conflitti

Con la crisi della separazione delle materie e della divisione delle sfere di azione vanno in crisi anche le garanzie giurisdizionali dei rapporti tra diversi livelli di governo, facendo emergere con sempre maggiore chiarezza la necessità di sedi politiche di composizione dei conflitti. Di qui l’opportunità di avere individuato nel Trattato di Lisbona una procedura politica di salvaguardia del principio di sussidiarietà. Certo, detta procedura presenta una evidente debolezza: secondo quanto previsto dai protocolli annessi al Trattato di Lisbona, ogni Parlamento nazionale, o addirittura ogni singola Camera di ogni Parlamento nazionale, agisce in autonomia, e svolge la sua valutazione individualmente.
Appare dunque chiaro che l’effettività del controllo politico sulla sussidiarietà sembra dipendere in larga misura dalla capacità di coordinamento dei 28 Parlamenti nazionali, attraverso le assise e le altre forme di cooperazione prefigurate dal protocollo sui Parlamenti nazionali.
Senza enfatizzare oltre il dovuto il ruolo dei Parlamenti nazionali nel processo di integrazione europea, non si può sottacere, tuttavia, la vivacità che essi hanno saputo esprimere negli anni più recenti all’interno dei procedimenti di formazione del diritto europeo. Benché non siano stati abilitati a partecipare attivamente ai processi decisionali europei, i parlamenti nazionali, attraverso le procedure dell’early waring system, sono stati dotati di qualche potere di “veto” ed essi non hanno esitato a farne uso, occasionalmente.
Il rispetto della pluralità delle culture giuridiche europee, o meglio delle identità nazionali, come recita l’art. 4, par 2 del Trattato sull’Unione europea, che tradizionalmente è stato rimesso al ruolo delle Corti costituzionali nazionali, può trovare nei Parlamenti nazionali un importante protagonista, capace di intervenire tempestivamente all’atto della formazione del diritto europeo.
La costruzione dell’Europa, dunque, riguarda anche i protagonisti della vita nazionale. Vi è molta Europa in Italia, soprattutto a livello giuridico. Ma quanta Italia c’è in Europa? Vi è una dimensione europea anche nelle attività e nelle responsabilità “domestiche” che non può e non deve essere negletta, perché l’Europa sia sempre più “unita nelle diversità”.

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