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ARTICOLO | Primo Piano di “Atlantide” n. 31 (2014)

Crisi dell’Unione europea

Nel 1637 il gesuita Giulio Aldeni – al termine di lunghi viaggi in Oriente – scriveva che la domanda più frequentemente rivoltagli dai cinesi era: ”Se ci sono così tanti re in Europa, come potete evitare le guerre?”. 
La storia d’Europa in epoca moderna è stata una storia di aggregazioni: nel XV secolo v’erano 500 unità politiche, che nel 1848 erano divenute 100 e sono ora 27.
Al termine di due guerre sanguinose (complessivamente, 87 milioni di morti), sessanta anni fa circa, è cominciata l’ultima tappa di questo lungo, plurisecolare processo, l’unificazione europea.
Questa unificazione – osserva Joseph Weiler – è molto imperfetta. Il cittadino è un “consumatore di risultati politici”. La cittadinanza è privata della partecipazione piena perché i cittadini non pagano tasse europee, non scelgono l’esecutivo europeo e questo non è “accountable” ai cittadini. Il filo della legittimazione è spezzato dai governi nazionali. Il Parlamento europeo non può prendere l’iniziativa legislativa e non può scegliere il governo europeo. Quindi, il principio del diritto romano e poi del diritto canonico, su cui si fondano le due regole essenziali dello Stato moderno, “quod omnes tangit ab omnibus comprobetur”, non ha piena cittadinanza nel diritto europeo. Inoltre, l’Unione europea è dominata dagli egoismi nazionali, invece che dall’idea di solidarietà che lega i partecipanti di una stessa comunità. Mancano, quindi, sia i legami verticali che quelli orizzontali. Più in generale, vi è una crisi esistenziale nell’Unione europea, derivante dalla contemporanea presenza di più crisi in corso; c’è bisogno di una rigenerazione.

L’Unione europea come nuovo impero
Viene qui esposto un diverso, opposto punto di vista su ambedue i punti. Innanzitutto, perché si afferma in epoca moderna il principio “quod omnes tangit”, di partecipazione? Perché i cittadini, le comunità nazionali dovevano difendersi da Principi o altri regnanti, dotati di potestà di imperio, di poteri autoritativi che si volevano limitare.
Ora, questa condizione non si è verificata per tutta la prima parte della storia europea contemporanea, durante la quale l’Unione ha operato come potere che si può chiamare “benigno”, nel senso che non limitava, bensì ampliava la sfera di autonomia dei cittadini, dotandoli di altre facoltà e diritti: principalmente, le quattro libertà fondamentali, circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali. Quindi, almeno nella fase iniziale, in Europa non c’è stato un Principe dal quale difendersi.
In secondo luogo, perché legislazione europea e investitura del governo europeo passano anche attraverso i governi nazionali? Perché i padri fondatori avevano sfiducia nel rapporto esclusivo che si stabilisce tra un popolo e il suo governo – quello che si era stabilito tra la nazione germanica e Hitler, o tra gli italiani e Mussolini. Hanno, quindi, voluto stabilire altri legami, costringere gli Stati in un condominio, obbligarli a litigare e a risolvere i propri litigi con negoziati. È quello che accade quando Paesi con differenti tassi di crescita e di produttività non possono aggiustare i tassi di cambio e sono, quindi, costretti a seguire altre e più sostanziali vie, regolando le loro economie e rivedendo i loro interventi sociali.
Quello che si svolge dinanzi ai nostri occhi è proprio questo: governi nazionali e governo europeo sono costretti a cooperare. Le loro investiture sono divise, in parte nazionale, in parte europea. L’Unione deve rispondere sia ai cittadini, sia ai governi nazionali. Ai legami verticali (un popolo che legittima un governo, un governo che è “accountable” al popolo) si aggiungono legami orizzontali (governi, nazionali ed europeo, legittimati da altri governi, che debbono rendere conto a essi).
Lungi dall’auspicare la costituzione di un “demos” europeo, è probabile, quindi, che visioni come quella di Altiero Spinelli facciano fare un passo indietro all’Europa, riducendo la ricchezza di legami verticali e orizzontali che si stanno costituendo.
In terzo luogo, va considerato il significato della forte giuridificazione dell’Unione europea, del posto importante che la “rule of law” gioca nell’arena europea, dello sviluppo della “litigation”, del frequente ricorso ai giudici, dell’”Eurolegalism”. Ora, in questo modo, le istituzioni europee raggiungono tre obiettivi. In primo luogo, aprono nuove vie alla partecipazione dei cittadini: la possibilità data ai cittadini di rivolgersi a un giudice è uno dei modi più efficaci per assicurare la loro partecipazione, è un efficace strumento del tipo “fire alarm” (contrapposto al “police patrol”). In secondo luogo, si assicurano l’attuazione del diritto comunitario, chiamando anche i giudici nazionali a operare come guardiani delle norme comunitarie. In terzo luogo, stabiliscono un contatto diretto tra cittadini dei diversi Stati dell’Unione e norme europee. Dunque, la giuridificazione opera in funzione di surrogato della democrazia europea.
Questo può procurare qualche incubo ai cultori delle forme geometriche pure (un “nightmare to the tidy-minded”), può far pensare a qualcun altro che stiamo entrando in un nuovo Medio Evo. Invece, questo assetto è complicato ma produttivo, costringe popoli e governi a tenersi continuamente sott’occhio l’un l’altro, assicurando, nello stesso tempo, divisione dei poteri e controllo reciproco. È un assetto che rallenta – forse – il progresso della macchina europea, ma rappresenta anche una sorta di assicurazione collettiva che essa non deragli.
Il sistema che viene così costruendosi è pieno di interconnessioni. Ricorda quello degli imperi: come gli imperi feudali, lascia la forza nelle mani dei vassalli, accentra il diritto in quelle dell’Unione. Come tutti gli imperi, l’Unione occupa un grande spazio ed è orientata all’allargamento, pronta ad accogliere nel proprio seno ulteriori popoli; presenta una struttura articolata e complessa; dà comandi direttamente ai corpi (gli Stati) che ne fanno parte, ma è anche diretta ai singoli soggetti; costituisce una unità superiore all’insieme dei componenti; si riserva un certo potere coattivo; favorisce i commerci, che non richiedono il controllo di territori, e l’efficienza dei sistemi di comunicazione; stabilisce uniformità di principi giuridici; è fondata sulla pluralità di lingue; è altamente flessibile; accetta e promuove principi di portata universale, come i diritti umani; è fondata su regole disposte su ordini gerarchici; non presenta “a direct, unbroken chain of lawful command”, ma opera grazie all’”indirect rule”, perché non fa, ma “fait faire”.

Le convenienze reciproche
Quanto al secondo argomento, innanzitutto, non è vero che non vi siano forme di solidarietà. Il meccanismo europeo di stabilità e l’allargamento degli interventi della Banca Centrale Europea (allargamento dell’intervento tradizionale delle banche centrali, acquisto di titoli statali sul mercato secondario, finanziamento di banche, che poi acquistano titoli statali, con acquisizione, da parte della Banca centrale europea, di rischi di credito nei suoi bilanci) sono meccanismi funzionalmente equivalenti del sostegno comunitario dei debiti nazionali. Sono funzionalmente equivalenti della legge dell’agosto 1861 con la quale il nuovo Regno d’Italia riconosceva e dichiarava debiti del Regno d’Italia tutti i debiti degli Stati precedenti. Poi, una legislazione ormai divenuta cospicua, una moneta unica, alcuni giudici comuni hanno creato interessi e convenienze reciproche, che si intrecciano in complesse partite di dare e avere tra i diversi Stati: uno non potrebbe fare a meno della politica agricola, anche se deve pagare un alto prezzo per rispettare gli standard ambientali; a un altro è ormai divenuta indispensabile, producendo principalmente per l’esportazione, una zona di libero scambio per la quale è disposto a barattare controlli di polizia meno stretti alle frontiere; un altro trova comodo devolvere all’Unione le scelte ambientali più difficili, che non supererebbero il vaglio nazionale, anche se lamenta i condizionamenti europei alle scelte costituzionali nazionali. Conta il gioco delle convenienze reciproche.
La forza dei legami che si sono stabiliti è rappresentata dalla dichiarazione di un ministro inglese il quale, già circa vent’anni fa, affermava di veder più spesso i suoi omologhi di altri Paesi che i suoi colleghi inglesi. Questi legami funzionano – come già osservato – quale forma di assicurazione collettiva, perché consentono a ciascuna parte del corpo complessivo di far sentire la propria voce negli affari interni delle altre parti. La partecipazione all’Unione per l’Italia opera come “vincolo esterno”, per realizzare quello che le classi dirigenti italiane non riescono a ottenere da classi politiche nazionali deboli; consente alle opposizioni ungheresi di avere un appoggio esterno; assicura alla Germania la possibilità di promuovere in altri Paesi politiche di contenimento della spesa, e così via.
Queste reciproche convenienze sono rafforzate dal bisogno continuo delle burocrazie nazionali e dei cittadini di stabilire principi e regole comuni, dal riconoscimento dei titoli di studio alla qualità delle acque da balneazione, al rumore dei tosaerba. Per stabilire queste norme comuni, quotidianamente vengono decisi e rafforzati vincoli tra gruppi d’interesse, burocrazie, parlamenti, governi nazionali. Mentre ci si lamenta della crisi dell’Unione, regole dell’Unione dispongono standard sulle bevande e sugli alimenti, arrivando sulla nostra tavola, e riempiono centinaia di pagine di norme per realizzare l’Unione bancaria.
Questa Unione procede troppo lentamente e senza un disegno? A chi lamenta ciò ricordo, per fare qualche paragone, come si sono formate le identità nazionali, che ora sembrano così robuste, italiana e tedesca, quelle dei “new-comers”. Nel 1861, dopo l’unificazione italiana, in Italia si parlavano non meno di 32 diverse lingue, gli italofoni erano il 2 per cento della popolazione e coloro che capivano l’italiano il 10 per cento. Una lingua davvero comune è venuta solo con la televisione. Solo venti anni dopo l’unificazione, veniva ammesso al voto l’8 per cento della popolazione e questa percentuale salirà al 23 per cento solo dopo circa cinquanta anni. Dunque, una unità linguistica molto incompleta, una democrazia molto limitata e una cittadinanza sulla carta. Dopo il 1871, il “Deutsches Kaiserreich” era composto di 25 Stati (Regni, Principati, Ducati, Granducati, città libere); nonostante il pugno di ferro di Bismarck, i regnanti locali conservavano i loro titoli e la distanza tra renani, bavaresi e prussiani era molto forte.
Quanto al disegno, ricordo quanto ha scritto un acuto storico americano dello Stato: “Raramente i Prìncipi europei hanno avuto in mente un modello preciso del tipo di Stato che stavano costruendo e ancor più raramente operavano in modo efficace per realizzare tale modello”, per cui la storia degli Stati è un “mosaico di aggiustamenti e di misure improvvisate”, “risultato non cercato né previsto degli sforzi per realizzare obiettivi molto immediati”; per cui ”nessuno progettò le principali strutture degli Stati nazionali”.

Un’unione sempre più stretta
Alla luce di questi percorsi storici, appare molto saggia la decisione del 1957 di costituire una “Unione sempre più stretta”, così insieme disegnando una istituzione e il suo divenire, un diritto vichianamente certo, perché frutto della volontà degli Stati, e un altro vichianamente vero, perché rimesso all’adeguamento giudiziario e amministrativo ai fatti previsti. Tanto è vero che la istituzione posta in essere nel 1957 ha due volte cambiato anche nome, da Comunità economica europea a Comunità europea, fino a Unione europea. Nata con 6 Stati, con circa 180 milioni di abitanti e con 4 lingue, include ora 28 Stati con 504 milioni di abitanti e 24 lingue. “L’istituzione è intesa come qualcosa in divenire. Qui è l’istituzione stessa, sono i suoi valori fondanti, che nascono con il programma del cambiamento. È sempre la stessa istituzione, ma cambia, perchè ha i germi del suo sviluppo”.
Il progresso insito nell’istituzione era stato visto dall’avvocato tedesco presso la Corte di giustizia Karl Roemer che, per la sentenza Campolongo / Alta Autorità del 10 maggio 1960, aveva scritto che “i trattati europei non sono se non la parziale realizzazione di un grande programma generale dominato dall’idea di una completa integrazione degli Stati europei”.
Lo stesso storico americano prima citato, Charles Tilly, ha scritto che “States make war, war makes States”. L’Unione è un artefatto, un corpo politico nuovo, prodotto non dalle guerre, ma per sfuggire alle guerre tramite la dialettica della negoziazione. Così come le nazioni, essa non è un “dato”, ma un “costruito”. Se è un “work in progress”, possiamo chiedere a essa uno sviluppo più rapido di quello degli Stati? E – nello stesso tempo – possiamo applicare a essa gli stessi paradigmi che sono stati costruiti per gli Stati? Come osservava Robert Schuman nel 1953, l’Unione è un ente sovranazionale: “Il sovranazionale è equidistante tra l’individualismo internazionale basato sull’intangibilità delle sovranità nazionali e il federalismo di entità statali che si assoggettano a un super Stato dotato di poteri propri”.
L’Unione europea è ora al centro di molti paradossi. È in crisi, ma mai si è discusso tanto di Europa: questa ha occupato gli spazi pubblici nazionali. Gli egoismi nazionali sono sempre più forti, ma mai ci sono state spaccature così forti nelle singole nazioni (basti pensare alle posizioni del governatore della “Bundesbank” e del Ministro tedesco delle finanze). Gli Stati europei difendono sempre più strenuamente le proprie identità e costituzioni, ma proprio ora sulle costituzioni nazionali si è imposto un principio costituzionale europeo, la norma sul “deficit” del bilancio pubblico. Questi paradossi sono produttivi, nel senso che sono segni di una crisi di crescita. Non si può escludere che da essi possa nascere uno spazio pubblico europeo, dominato – come auspicato da qualcuno – da alcuni valori di base e dalla celebrazione di alcune grandi figure della storia comune, l’”ethos” e l”epos”. Questo passo ulteriore sarebbe agevolato – come proposto da Jürgen Schwarze – da una codificazione che riguardi almeno i principi di base delle procedure amministrative.
 

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