I nostri sistemi educativi sono disallineati rispetto alla società della conoscenza e alla realtà del lavoro. Metodo didattico, ma anche ambienti e strumenti sono da cambiare. Mettendo al centro lo studente
Tutti sappiamo che lo spazio è un insegnante molto efficace, in grado di cambiare la fisionomia di un’intera scuola attraverso il disegno degli interni, degli arredi e integrando anche le tecnologie nella progettazione complessiva di una nuova concezione della scuola. Una trasformazione che può dare visibilità e concretezza a un nuovo modello pedagogico di scuola. Per progettare diversamente spazi e arredi occorre però avere una concreta e articolata idea del cambiamento, dell’organizzazione del modello scolastico. Una progettazione innovativa degli spazi è in grado di cambiare la didattica molto di più di tanti testi o corsi di formazione.
Se però nel Recovery Plan, come sembra e come per molti versi è emerso anche nel recente documento ministeriale messo a punto per la costruzione delle scuole innovative, l’intervento trainante sarà l’efficientamento energetico, rischiamo di perdere una occasione che difficilmente si ripresenterà. Certamente l’attenzione alla sostenibilità energetica è oggi fondamentale per ogni intervento edilizio e quindi anche per gli edifici scolastici, ma l’idea trainante deve essere l’innovazione del modello scolastico e quello che una vision sulla scuola di domani richiede. Intervenire solo sull’involucro significa lasciare inalterato uno schema architettonico ripetitivo fatto di corridoi e aule, funzionale alla lezione frontale e alla scuola che ci è familiare da decenni. Naturalmente intervenire su edifici esistenti o costruirne di nuovi comporta soluzioni diverse e porta anche a risultati molto differenti, ma lavorare anche solo sugli arredi, le luci e i colori permette di realizzare ambienti che cambiano la fisionomia dell’intera struttura. È necessario però che la progettazione sia guidata dal cambiamento del modello scolastico, dalle necessità delle nuove metodologie didattiche, dalla riorganizzazione del tempo scuola e dalla necessità di inserire nel percorso di apprendimento le tecnologie che ormai vanno integrate nella pratica educativa e non relegate in luoghi “speciali” come i laboratori o peggio usate come soprammobili.
SISTEMI EDUCATIVI OBSOLETI. L’URGENZA DEL CAMBIAMENTO
Il termine che recentemente ricorre maggiormente anche nei convegni internazionali sulla scuola è: innovazione. Evidentemente il tema del cambiamento si avverte ormai in modo diffuso da più parti. Gli analisti delle organizzazioni internazionali, ormai da tempo, sottolineano gli anacronismi dei sistemi educativi occidentali che ripropongono una organizzazione didattica ma anche un linguaggio, un ambiente, “strumenti” di lavoro e metodologie disallineate sia con la società della conoscenza che con il mondo del lavoro e della ricerca. Dobbiamo però “svincolare il concetto di innovazione dal concetto di progresso […] I processi di innovazione sono […] situati e contestuali, si tratta sempre di innovazione per una determinata situazione» (Miguel Benasayag, Iul reasearch, n.1, 2020). Dobbiamo inoltre evitare di considerare che qualunque cambiamento sia positivo. Si tratta di un’idea puramente funzionalista che come, dice Benasayag, è legata ad una visione lineare dell’idea di progresso. Un’idea falsa e perfino pericolosa che in educazione ha spesso spinto ad abbracciare con ingenuo entusiasmo l’adozione di tecnologie e più recentemente singoli arredi come innovativi in sé. In altri termini, senza un sistema di valori di riferimento non è possibile valutare cosa preluda a un progresso e nemmeno la direzione verso cui andare. Questa idea, declinata nel campo dell’educazione, orienta molti sistemi scolastici a una sorta di addestramento, caratterizzato dalla misurazione ossessiva degli apprendimenti e dalla valutazione sulla base di rigidi indicatori. I processi di apprendimento e la capacità di imparare sono, così, assimilati al funzionamento di un hardware in cui, in una sorta di reset continuo della memoria, si cancellano le informazioni più vecchie per sostituirle con le nuove. Questo funzionalismo esasperato non porta da nessuna parte.
UN PARADIGMA OTTOCENTESCO
Comunque l’innovazione del modello scolastico è una urgenza reale perché i termini del disallineamento della scuola con tutto quello che la circonda sono numerosi. Innanzitutto la nostra scuola secondaria è centrata sulla lezione frontale. Sia l’organizzazione dell’orario degli studenti, sia il contratto di lavoro degli insegnanti è basato sulle ore di lezione. La lezione rappresenta una sorta di re-interpretazione, a volte sintetica, a volte analitica, del testo scritto che poi gli studenti utilizzeranno a casa: il manuale scolastico. Nella grande maggioranza dei casi l’insegnante utilizza un metodo storico-narrativo, sia per le materie umanistiche che scientifiche. In questo modo l’insegnante di lettere racconta il Romanticismo, ne evidenzia i caratteri originali, dà indicazioni sull’uso del libro di testo, nello stesso modo con cui l’insegnante di scienze descrive il funzionamento di una cellula. A casa gli studenti sono chiamati a “studiare” leggendo il libro e facendo esercizi. Il tempo a scuola poi è tutto dedicato a verificare quello che si è capito: lezioni ed interrogazioni scritte e orali quindi esauriscono in pratica il tempo scuola. Intorno a questo paradigma che si ripete nei suoi caratteri originali ormai dalla metà Ottocento è costruito e funziona il sistema scolastico italiano ma anche dei principali paesi occidentali. Tutti i grandi sistemi educativi sono nati nei secoli scorsi con l’obiettivo di “trasmettere” conoscenze ad una popolazione in genere analfabeta che veniva dalle campagne e che doveva entrare in una società che si stava industrializzando. Le condizioni minime per esercitare un diritto di cittadinanza era, prima di tutto, quella di superare l’analfabetismo. Le conoscenze che servivano nel lavoro dei campi venivano trasmesse oralmente dai più anziani e si imparava a potare un olivo o una vite vedendolo fare e magari sbagliando e vedendone gli effetti. Una cattiva potatura portava ad un cattivo raccolto. In un certo senso perdurava ancora nella società contadina quella pratica di “imparare a bottega”, da un maestro, che era stata così diffusa in tutto il Rinascimento.
LA SCUOLA COME UNA GRANDE AZIENDA DI MASSA
L’avvento della società industriale porta a superare questo modello perché “le cose da fare” sono molte, differenziate e richiedono una specializzazione. La società industriale che sostituisce la forza motrice fornita dagli animali con quella dei motori affida però ancora all’uomo “il controllo delle informazioni”. Gli operai delle grandi fabbriche controllano singoli segmenti della produzione e del funzionamento delle macchine: gestiscono loro le informazioni necessarie alla produzione. I grandi sistemi educativi vengono quindi progettati come una grande “azienda”, come una struttura nazionale di alfabetizzazione di massa, e la lezione, la trasmissione del sapere da parte di un maestro, lo studio del libro scolastico, rappresentano la soluzione più economica e funzionale.
Dal punto di vista degli spazi, dovendo far fronte ad una rapida crescita della popolazione scolastica e soprattutto dovendo aprire scuole in luoghi molto periferici, in mezzo a territori isolati, bastava una qualunque stanza rettangolare con pochi arredi. Nel Regolamento del 1860 si precisa che ogni scuola dovrà avere: 1° banchi da studio con sedili in numero sufficiente per tutti gli allievi; 2° tavola con cassetto a chiave e seggiola pel Maestro; 3° armadio chiuso con chiave per riporre i libri, scritti, ecc; 4° stufa pel riscaldamento della stanza […]; 5° calamaio pel Maestro e calamai infissi per gli allievi […]; 6° un quadro rappresentante le unità fondamentali e le misure effettive del sistema metrico Decimale; 7° un crocefisso; 8° un ritratto del Re”. I banchi a tre posti dovevano permettere di tenere “a freno” i più esuberanti che sedevano nel mezzo così come la pedana della cattedra doveva permettere al maestro di avere una visibilità completa di tutta l’aula. Qualunque stanza può essere usata e trasformata in aula. Qualunque edificio in scuola. Nel 1923 si dettano alcune regole più precise: le aule avrebbero dovuto essere di pianta rettangolare, con un’altezza variabile dai 3,5 ai 4,5 metri; le pareti e i soffitti dovevano essere verniciati con colori chiari e attorno all’aula uno zoccolo alto 1,80 m. doveva essere dipinto di grigio. Quante aule delle scuole elementari sono arrivate fino ad oggi con questo zoccolo grigio che doveva evitare le scritte e facilitare la pulizia ma anche dare la possibilità di attaccare cartelloni senza rovinare l’intonaco.
Nel guardare oggi a questi grandi sistemi che appaiono sempre più obsoleti non dobbiamo però dimenticare che hanno svolto egregiamente il proprio compito consentendo a generazioni di traghettare da una situazione ad un’altra. Non stiamo parlando di un’era geologica fa se pensiamo che “Non è mai troppo tardi”, la trasmissione della televisione italiana rivolta agli analfabeti, risale a poco più di cinquanta anni fa.
TENTATIVI DI METODO SPERIMENTALE
I primi scricchiolii del sistema si avvertono nella scuola elementare dove pure l’impianto e la frammentazione disciplinare sono meno accentuati. Si tratta di critiche che emergono nel secolo scorso ed investono le metodologie ma quasi subito coinvolgono anche gli spazi e gli arredi. Sono critiche alla rigidità del sistema che chiede allo studente un adattamento innaturale allo spazio ed al tempo così come proposto dalla scuola. I vari Freinet, Montessori, Lombardo Radice e tutto il movimento dell’attivismo avevano evidenziato già negli anni 20 come la centralità, la predominanza del libro di testo, l’organizzazione didattica tutta centrata sul testo scritto e sulla lezione e di conseguenza anche l’organizzazione degli spazi fosse nella scuola elementare in contrasto con le esigenze, con i bisogni dei bambini.
Quello che si evidenziava era soprattutto il fatto che si chiedeva ai bambini di adattarsi ad un ambiente anche fisico, fatto di immobilità ed attenzione, di banchi, panche e sedie ed arredi, come è bene documento in un capitolo di questo libro, che costringevano ad azioni innaturali e forzate. Maestri che poi sono divenuti famosi come Bruno Ciari o Mario Lodi avevano stravolto i paradigmi di questa ritualità educativa: lezione, studio, interrogazione. Toccando questi elementi cardine anche l’ambiente fisico, gli arredi e l’aula diventavano inevitabilmente stretti ed inadeguati. Quindi si aprivano le porte dell’aula e si usava tutto lo spazio possibile, si spostavano i banchi, spariva la cattedra e lo spazio si popolava di “luoghi dell’osservazione diretta”. Lo sforzo di imparare facendo, quello che oggi viene chiamato appunto “learning by doing”. Attraverso la raccolta dei dati da piccole stazioni metereologiche si costruivano le statistiche e l’andamento delle temperature e delle stagioni, osservando i pesci in un acquario, facendo piccoli esperimenti con le piante si costruiva un sapere radicato sull’esperienza. Anche la scrittura aveva il suo laboratorio ed i suoi strumenti non convenzionali: la stamperia, il limografo poi sostituito dal ciclostile. Il metodo sperimentale era al centro dell’attività di innovazione dei tanti insegnanti della scuola elementare che si battevano perché la scuola adattasse i suoi linguaggi, metodi e spazi ai bambini. “Che si fa oggi per dare la nozione del peso dei vari liquidi? Dopo di aver detto che i liquidi hanno un diverso peso, si fa studiare agli scolari un elenco in cui i vari liquidi sono messi in gradazione rispetto appunto al loro peso. Sa meglio chi ha migliore memoria. Il metodo sperimentale invece porta il ragazzo a osservare che se si mette in un bicchiere una certa quantità di acqua e poi una certa quantità di spirito, questo sta a galla e così succede se all’acqua unisce l’olio, mentre ciò non avviene se all’olio unisce dello spirito… La solita scuola dice ai bambini che le condizioni necessarie per lo sviluppo delle piante sono la luce, il calore. Il metodo sperimentale fa sì che il ragazzo il quale abbia messo parecchi semi nell’acqua ed altri no, tocchi con mano la necessità dell’acqua nella vegetazione …” Questo scriveva una maestra, Giuseppina Pizzigoni, negli anni 20 volendo fondare l’apprendimento dei suoi scolari sulla riflessione, l’osservazione diretta ed il ragionamento: su un metodo sperimentale.
“AMBIENTE DI APPRENDIENTO”: LO STUDENTE AL CENTRO
Le ‘scuole nuove’, quelle scuole – e in fondo quegli insegnanti – per i quali nasce la Mostra didattica del 1925 voluta da Giuseppe Lombardo Radice e da cui ha preso i natali INDIRE, hanno al centro del loro progetto lo studente. Sono loro che trasformano lo studio mnemonico, la ripetizione spesso ‘a pappagallo’ del libro di testo, in un’esperienza di costruzione e sperimentazione, di osservazione diretta, di manipolazione e di costruzione del senso critico. Anche l’aula inizialmente pensata per mettere al centro la lezione diventa inadeguata così come gli arredi che vengono adattati ad un nuovo modello didattico. Questa concezione della scuola come ‘ambiente di apprendimento’, in cui l’attività dello studente è al centro, ricompare più volte dal 1925 ad oggi. Questi tentativi di trasformazione dell’ambiente educativo e della didattica si sono scontrati però sempre con un mondo costretto ad usare costantemente la carta, il testo scritto, gli ‘oggetti’. Una ‘materialità’ che ha fino ad oggi imposto confini precisi alla possibilità di fondare l’apprendimento sull’esperienza diretta. E questa è stata anche la ragione per cui queste idee pedagogiche hanno dato origine a movimenti, metodi ed iniziative quasi esclusivamente nella scuola elementare. Gli ambienti, le architetture interne delle scuole nate in modo funzionale ad un modello trasmissivo vengono in qualche modo adattate a diventare laboratori diffusi ma con risultati a volte molto modesti. L’aumento della popolazione scolastica infatti riduce progressivamente gli spazi “liberi” nell’edificio scolastico e così tutto finisce per essere concentrato nell’aula. Uno spazio che quindi si articola in “angoli” dedicati a questa o quella attività, ai lavori di gruppo, ad ospitare quelle “tecnologie” che servono per trasformare, almeno in parte, il modello educativo. Ma edifici costruiti secondo un modello rendono difficile e comunque limitano queste trasformazioni. La divisione in sezioni e l’attribuzione di un insegnante o due, nella scuola primaria a tempo pieno, di una sezione rende poi automatica anche l’assegnazione di un’aula più o meno grande a seconda del numero di studenti. Così l’insegnante che cerca modelli innovativi è costretto ad arrangiarsi con lo spazio e gli arredi dell’aula. Un ambiente poco “flessibile” che mal sopporta queste trasformazioni. La progettazione degli edifici scolastici è fatta non in base alle attività che devono ospitare, creando ambienti e arredi funzionali a queste. Nessuna articolazione interna ad accezione delle palestre e degli uffici amministrativi. Nella scuola elementare anche i “laboratori” vengono ricavati da aule. È il caso del laboratorio di informatica che conserva gli stessi arredi di un’aula normale ma che, in più, ha sui banchi i computer.
NELLA SCUOLA SECONDARIA LA SPINTA AD INNOVARE FINISCE
Via via che ci allontaniamo dalla scuola elementare sparisce anche la spinta a trasformare l’ambiente scolastico: la lezione, lo studio a casa sul libro e poi l’interrogazione o il compito in classe sono sempre stati il modello vincente e più diffuso. Via via che ci si allontanava cioè dalla possibilità di fare un’esperienza diretta e su questa basare un processo di costruzione delle conoscenze, tutto diventava più difficile ed astratto e non sono stati certamente i pochi laboratori, spesso chiusi a chiave, di fisica o chimica nelle scuole superiori ad accorciare questa distanza. Anzi molti laboratori, specialmente nei licei, sono costruiti perché gli studenti assistano all’esperimento condotto dal docente. Addirittura sono costruiti ad anfiteatro con al centro il tavolo attrezzato per fare vedere a tutti quello che accadeva: un altro modo di fare lezione. Solo negli istituti professionali il laboratorio è concepito in modo “alternativo” all’aula. Le materie di indirizzo, quelle cioè che caratterizzano l’indirizzo di studi, vengono fatte in laboratorio. Negli istituti alberghieri come in quelli ad indirizzo meccanico, chimico, agrario i ragazzi lavorano direttamente nelle cucine o con le macchine. Ma le materie che “contano” si fanno invece in aula. Una contrapposizione tra aule normali e laboratori che porta poi i ragazzi a comportarsi anche in modo diverso a seconda che siano in un laboratorio o seduti al banco davanti alla lavagna. Molto spesso si fa fatica a riconoscere lo stesso studente per il comportamento che assume nelle due situazioni. L’ambiente quindi insegna. È un elemento determinante nel creare il clima, l’ambiente sociale, nell’indirizzare il comportamento degli studenti, nel determinare il loro successo formativo.
Questa attenzione agli ambienti è stata quindi sviluppata nella fascia scolastica primaria, ma nella secondaria è sempre stata assente soprattutto perché il modello didattico centrato sulla lezione non è stato mai messo in discussione. Un modello che è rimasto uguale a se stesso centrato sulla frammentazione del tempo conseguenza di un forte impianto disciplinare. Una frammentazione che nello stesso tempo ha sostenuto e condizionato il lavoro degli insegnanti e degli architetti che per progettare le scuole hanno pensato soprattutto alle aule ed ai corridoi che dovevano portare gli studenti in classe. La scuola insomma si fa in classe dove l’insegnante, soprattutto nella scuola secondaria, chiude la porta ed “insegna” la propria materia, quella sulla quale è abilitato, ha scalato le graduatorie, superato il precariato e finalmente entrato a ruolo. Il rapporto funzionale tra modello didattico-pedagogico, organizzazione del tempo e progettazione dell’ambiente scolastico emerge in tutta la sua evidenza proprio nella scuola secondaria.
NON È SOLO UN PROBLEMA DI CLASSI POLLAIO
Gli edifici scolastici, gli ospedali, le caserme e i municipi sono sempre stati la presenza visibile dello Stato sul territorio ed hanno nelle diverse epoche svolto questa funzione incarnandone gli stili. Oggi gli oltre 40.000 edifici scolastici italiani rappresentano anche le diverse fasi storiche del nostro paese. Circa 1.500 di questi sono stati costruiti prima del ‘900 e quindi spesso sono ospitati in edifici “storici” in molti casi adattati ad ospitare una scuola. Così come gli edifici in affitto che costruiti magari come palazzine per appartamenti ospitano oggi una scuola. Così la 1A occupa la stanza progettata per il salotto e la 2B per la camera da letto. Oppure sono collocati in ambienti costruiti per essere dei magazzini o peggio dei vecchi monasteri. Ma se alla fine un edificio scolastico è fatto di aule che sono spazi, stanze rettangolari, il problema semmai è la loro capienza, non altro. Così il dibattito si concentra sulle classi “pollaio” e sul numero di ragazzi, sui metri quadri per alunno: superati gli standard il problema è risolto. Non è un caso se il dibattito è concentrato sull’edilizia scolastica e non sulle architetture, mai sugli arredi.
Quindi qual è la novità? Perché oggi dovremmo preoccuparci di riprogettare le architetture interne delle scuole, ripensare agli arredi? Certamente non per fare spazio alle tecnologie. Fuori da un disegno complessivo di trasformazione, le tecnologie diventano suppellettili: i computer si mettono sui banchi e le lavagne multimediali (le LIM) accanto a quelle di ardesia. L’ambiente non cambia certo per l’ingresso di qualche strumento nuovo, anzi rafforza i suoi caratteri e la LIM potenzia la lezione frontale così come il computer diventa uno strumento di esercitazione dedicato a “compiti speciali”, in aule dedicate, accanto al laboratorio di fisica che “c’è sempre stato”. Quindi riprogettare gli edifici perché?
Parafrasando il titolo di un noto libro di Francesco Antinucci possiamo dire che “l’aula si è rotta”. L’intera scuola si sta “rompendo”: sulle pareti del modello scolastico che conosciamo si stanno aprendo vistose crepe ed il terremoto che è in corso derivato dallo scollamento di due “faglie”, la scuola e la società, è stato innescato dagli studenti. Si tratta di una crisi strutturale non di un fenomeno temporaneo. La scuola si sta disconnettendo sempre più profondamente dalla società. Quella società per la quale sono nati i grandi sistemi scolastici occidentali non esiste più. Quel mondo del lavoro, quegli ambienti, quelle modalità, quegli stessi lavori non esistono più. Le evidenze di questa disconnessione si riscontrano soprattutto negli studenti e nel mismatch tra competenze in uscita dalla scuola e competenze richieste dal mondo del lavoro.
La Banca Mondiale in un rapporto recente avverte che nei prossimi dieci anni un miliardo di giovani entrerà nel mercato del lavoro. Di questi solo il 40% svolgerà professioni che esistono già. Quindi stiamo preparando ad entrare in un mondo del lavoro in rapida trasformazione con una scuola che conserva le strutture educative e gli edifici, le architetture e gli arredi, del secolo scorso. L’industria 4.0 e le trasformazioni alle quali assisteremo nei prossimi anni anche nel mondo della produzione manifatturiera richiedono soprattutto competenze. Diventa urgente ripensare al modello scolastico in tutte le sue dimensioni compresa quella architettonica e degli arredi.
RIPENSARE GLI SPAZI PER UNA NUOVA DIDATTICA
Se ciascuno di noi immagina un luogo adatto ad una comunicazione, ad una presentazione, all’illustrazione delle caratteristiche di un nuovo prodotto pensa ad una sala con un palco, più o meno attrezzato, e delle sedie di fronte per il pubblico. Un luogo per ascoltare. Ma se invece si deve pensare ad un luogo dove imparare, si pensa probabilmente ad un laboratorio. Un luogo costruito ed arredato per esplorare, per sperimentare, per costruire dove anche le tecnologie non sono suppellettili ma anzi sono al centro dell’attività. Allora se dobbiamo trasformare la scuola da ambiente per l’insegnamento ad ambiente per l’apprendimento dobbiamo ripensare completamente gli spazi, ma per farlo è fondamentale che sia una precisa vision del futuro, di un nuovo modello organizzativo didattico a guidare la progettazione. Senza questa forte connessione tra trasformazione della scuola nei suoi fondamentali e progettazione architettonica rischieremo solo di costruire edifici a norma, magari con un forte risparmio energetico ed antisismici, ma pensati per ospitare la “solita scuola”.
Costruire una scuola nuova oggi vuol dire guardare al futuro e pensare che ospiterà studenti destinati ad un mondo che ancora non conosciamo ma che sappiamo sarà diverso dal nostro. Pensiamo invece che la scuola continuerà ad essere quella che conosciamo? Che si riproporrà con le sue divisioni in classi, con la sua lezione, con la sua didattica uguale per tutti chiedendo a ciascuno di adeguarsi alla scuola, di diventare uno scolaro?
LE SOLUZIONI PRESENTATE A “DIDACTA”
Su questa base quest’anno a Didacta sono stati costruiti tre dipartimenti e due ambienti di apprendimento che hanno piegato le soluzioni tecnologiche e di arredamento oltre che di progettazione degli spazi ad una nuova visione della didattica. Scomporre ambienti complessi (G. Biondi, La scuola che ancora non c’è, Carocci 2021) è, infatti, una delle proposte per collegare le architetture scolastiche, gli arredi e le tecnologie ad una trasformazione del tempo e dello spazio, degli strumenti e delle metodologie della scuola. Il modello scolastico è un grande puzzle dove ogni tessera è collegata all’altra ed è illusorio pensare di cambiarlo senza una visione complessiva, affrontando singole tessere del mosaico. Una ulteriore riprova la offrono proprio le linee guida per la costruzione delle scuole innovative dove gli aspetti dell’organizzazione del tempo, delle metodologie didattiche, delle tecnologie hanno uno spazio secondario mentre avrebbero dovuto rappresentare l’intervento trainante di tutta l’impostazione.