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ARTICOLO | Documenti di "Atlantide" n. 30 (2013)

L’educazione nel XXI secolo è una questione di “sicurezza”

Di fronte al terrorismo la politica non basta. Occorre un’educazione capace di aprire le giovani menti all’idea dell’altro. L’intervento dell’ex premier inglese, Tony Blair, al Consiglio di sicurezza, 21 novembre 2013

L’ultima volta che mi sono seduto qui e mi sono rivolto ai membri del Consiglio di sicurezza ero Primo ministro: era il settembre del 2000 e il mondo sembrava molto diverso. Cercavamo di ripensare gli scenari della sicurezza dopo il crollo del Muro di Berlino. Eravamo ottimisti, l’atmosfera era serena.
Oggi siamo di fronte a un flagello che ha spezzato vite innocenti, ferito comunità e destabilizzato nazioni, in un arco che va dall’Asia al Medio Oriente e arriva fino alle strade delle nostre città, qui negli Stati Uniti. Si può dibattere su come sconfiggere il terrorismo, sulle sue cause ed effetti politici: ma ormai siamo tutti concordi sulla natura della minaccia. Si tratta di un estremismo basato su una perversione della fede religiosa, un fanatismo che abusa della fede per giustificare la violenza contro civili innocenti. Lo vediamo, naturalmente, in Medio Oriente; in Asia Centrale e in molte parti dell’Africa, più di recente nei terribili eventi in Kenya; ma anche in Paesi dell’Estremo Oriente. E qui in America, nel Regno Unito e in gran parte d’Europa abbiamo fatto esperienza del terrorismo o investiamo molto denaro ed energie per prevenirlo.
Sono qui oggi per dirvi una cosa molto semplice: sì, certamente la politica ha un suo ruolo nell’alimentare questo estremismo. E gli estremisti sono bravi a cavalcare il malcontento politico: lo usano e lo sfruttano. Ma il suolo in cui vengono piantati i semi dell’odio è il terreno dell’ignoranza, del pensiero distorto che produce menti distorte e, in particolare, una visione snaturata e falsa della religione. Non riusciremo ad affrontare le cause di fondo del terrorismo finché non ci confrontiamo con questo fatto. Perciò affermo che nel ventunesimo secolo l’educazione è una questione di sicurezza: dev’essere un’educazione capace di aprire le giovani menti all’idea dell’“altro”, delle persone diverse da sé per cultura e religione; e mostrare loro che l’unico futuro possibile è quello in cui le persone siano rispettate e considerate eguali. “Vedo me stesso in te”: la coesistenza pacifica dev’essere il nostro obiettivo. È tempo di mobilitarci e organizzarci per raggiungere questo traguardo: ma per il momento non stiamo facendo abbastanza, né abbastanza in fretta.
La minaccia proveniente da questo estremismo è ben nota a molte delle nazioni rappresentate in quest’aula. Ed è una minaccia sia a causa delle azioni che compie direttamente, sia per le conseguenze indirette che crea: divisioni e settarismo. Ogni omicidio è una tragedia umana, ma provoca anche una reazione a catena fatta di rancore e odio. Nelle comunità flagellate da questo estremismo serpeggia la paura, uno sgomento che paralizza la vita e allontana le persone tra di loro.
È un’ideologia, addirittura un culto. Somiglia agli estremismi politici del ventesimo secolo, come il fascismo: anch’essi sostenevano di possedere “la” risposta, e chiunque non fosse d’accordo era un nemico. Lo stesso accade con l’estremismo basato sulla religione: i suoi aderenti insistono di avere “la” risposta. I casi più noti riguardano estremisti che affermano di seguire l’Islam, ma in realtà anche i musulmani subiscono atti di violenza a causa della loro fede; e in tutte le principali religioni – cristianesimo, ebraismo, induismo, buddismo – ci sono elementi fanatici che deturpano la vera natura della loro fede. L’estremismo religioso chiama nemico il diverso: non solo nemico degli estremisti, ma nemico di Dio. Quindi giustifica l’assassinio in nome di Dio. Questa è un’oscena perversione dell’autentica fede religiosa, perché tutte le religioni hanno al centro il valore dell’amore per il prossimo, della compassione e della giustizia sociale.

L’urgenza di rispettare chi è diverso
La globalizzazione intensifica e moltiplica l’estremismo. Oggi il mondo è più connesso che mai, e l’integrazione fisica e le interazioni online sono così spiccate che sempre più persone diverse tra loro vengono in contatto. Dunque si fa tanto più urgente la necessità di rispettare chi è diverso da noi, ma diventa anche più facile identificarlo come nemico.
A tutti piace provare un senso di appartenenza: a una tribù, una nazione, una comunità, un’etnia o una religione. La fede può infondere un senso di identità. Portato agli estremi, questo senso di identità e di appartenenza etichetta tutti gli estranei come inferiori, dannosi, ostili. Lo sanno bene gli estremisti che usano la religione in questo modo. Ed è questo che dobbiamo capire. Sono organizzati. Indottrinano. Si infiltrano nei luoghi di culto, nei centri di aggregazione e nelle comunità, nell’istruzione informale; sono online, sulla stampa e soprattutto educano: propagandano le loro idee e lo fanno con successo. I giovani ingoiano il loro veleno.
Come riescono a organizzarsi? Facendo leva sulla paura, che nasce dall’ignoranza. Molti giovani non conoscono davvero chi è diverso da loro. Si insegna loro a fraintendere il prossimo e a pensare falsità sul suo conto.
Gli estremisti riescono a organizzarsi perché noi siamo disorganizzati. Questo deve cambiare. Dobbiamo educare; dobbiamo insegnare alle nuove generazioni a tenere la mente aperta, a conoscere “l’altro” e, attraverso quella conoscenza, a imparare a rispettarlo.
Dobbiamo organizzarci: costruire nelle nostre comunità, online e soprattutto nelle scuole, una piattaforma basilare di comprensione e conoscenza che si opponga ai falsi messaggi diffusi dagli estremisti. Dobbiamo considerare questa forma di educazione altrettanto importante che l’istruzione in matematica, scienza e letteratura.
Naturalmente, nel prossimo futuro, governi e Stati dovranno tutelarsi con misure di sicurezza e, dove necessario, con la forza. Ma in questo modo si può solo contenere il problema, non risolverlo. Per risolverlo dobbiamo sradicare il pensiero degli estremisti, non semplicemente fermare le loro azioni. Dobbiamo reclutare nuovi adepti con la stessa passione con cui lo fanno loro. Dobbiamo organizzarci con la stessa determinazione. Dobbiamo opporre alla loro idea di esclusione dell’altro un’idea migliore: quella della coesistenza che nasce da una mente aperta e conduce alla prosperità, alla pace e al progresso.
Il nostro compito, dunque, è mostrare ai nostri giovani, vulnerabili agli appelli dei terroristi, che esiste un modo migliore di vivere, un modo più efficace per far sentire la propria voce, un modo più significativo di interagire col mondo. E dobbiamo abbattere le fonti di sostegno e finanziamento usate dagli estremisti, per impedire loro di insegnare e promuovere l’odio, la persecuzione e l’omicidio.
La buona notizia è che io e voi sappiamo quali ambienti permettono ai semi della coesistenza di germogliare. Sono ambienti in cui sussistono validi programmi di educazione che promuovono l’accettazione delle altre culture. Ogni società di successo, oggi – ogni società economicamente prospera –, è una società che promuove l’accettazione delle altre culture. Raramente, nella storia recente del mondo, uno Stato è fallito in un territorio in cui vigeva la tolleranza religiosa.
Le lezioni sulla tolleranza come ingrediente indispensabile per la pace e la prosperità economica sono state confermate dall’esperienza: le si può mettere in pratica, sappiamo che funzionano. La tolleranza è liberatoria e ispiratrice, e certamente più economica che consentire agli estremisti di indottrinare i nostri giovani, o lasciar emergere minacce alla sicurezza che poi richiederanno imperfette soluzioni militari.
Allora, come possiamo riuscirci? Prenderò la mia Fondazione solo come esempio. La Tony Blair Faith Foundation ha avviato un programma di educazione, attivo da oltre quattro anni e oggetto di una valutazione indipendente, che promuove il dialogo interculturale tra gli studenti di tutto il mondo nella fascia d’età fra i dodici e i diciassette anni.
Operando in venti Paesi, ai quali si è appena aggiunto il Marocco, il programma della mia Fondazione intitolato Face to Faith mette in contatto studenti di tutto il mondo tramite un sito web sicuro, su cui possono interagire dalle aule scolastiche sotto la guida di un insegnante addestrato a facilitare lo sviluppo delle competenze critiche, sociali ed emotive di cui i giovani hanno bisogno. Per le scuole che sorgono nelle aree più povere, e che non possono accedere autonomamente a Internet, adottiamo accorgimenti speciali.
Il programma comprende videoconferenze facilitate, in cui gli studenti si confrontano sui temi globali a partire da una varietà di prospettive religiose. Attraverso Face to Faith, gli studenti acquisiscono le competenze dialogiche necessarie a prevenire i conflitti, sradicando gli stereotipi religiosi e culturali. È una forma di alfabetizzazione religiosa e culturale, che insegna a persone di diverse origini e tradizioni religiose a ritrovare se stesse nell’altro. In questo modo lavoriamo per promuovere la multiculturalità, fornendo ai giovani le competenze che saranno cruciali nel ventunesimo secolo per vivere in un mondo abitato da fedi diverse, e le importanti capacità di mediazione e negoziazione necessarie per confrontarsi con persone di altre fedi all’insegna del rispetto, anche dove le opinioni divergono.

Cambiare idee e mentalità
Naturalmente raggiungiamo solo una piccola parte dei giovani di tutto il mondo. Ma con cinquantamila studenti in oltre mille scuole di Paesi come gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e l’Italia, da un lato, e, dall’altro, Pakistan, India, Giordania, Egitto, Filippine e Indonesia, possiamo già vedere l’impatto fortemente positivo di queste interazioni. In sostanza, il metodo funziona. Diverte gli studenti e fa cambiare idee e mentalità. Ci sono molti altri ottimi programmi interconfessionali per i giovani, varati in ogni angolo del pianeta.
Allora, qual è la sfida? Queste persone non hanno le risorse, l’influenza e il riconoscimento di cui hanno bisogno. Anche i nostri avversari hanno i loro programmi, ben finanziati e altamente organizzati. Purtroppo, le loro azioni sono efficaci. Quindi la nostra sfida è chiara. Sappiamo cosa funziona. La sfida è mobilitarci. Per vincere tutti i pregiudizi sono necessarie due cose: una discussione aperta e la mobilitazione del sostegno. Questo vale per i pregiudizi di razza, nazione o genere, ma vale anche per i pregiudizi religiosi.
Vorrei che le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza riconoscessero questa verità. Chiedo ai governi di prendere sul serio la responsabilità di educare i giovani all’accettazione delle altre culture e al rispetto tra persone di diverse fedi e origini. Chiedo a ogni governo di varare almeno un progetto pilota per la comunicazione interculturale. Chiedo loro di sperimentare, di fare esperienza.
Date ai giovani del vostro Paese l’occasione di imparare qualcosa sul mondo e stringere un legame con qualcuno che abita molto lontano da loro, e che ha un aspetto fisico molto diverso; ma nel quale, una volta educati all’interculturalità, si potranno riconoscere.
La mia Fondazione è disposta a lavorare in ogni Paese che ci inviterà, ma esistono molte altre eccellenti organizzazioni che svolgono un lavoro simile: i Principi guida di Toledo sull’insegnamento delle religioni nelle scuole pubbliche, adottati dall’Osce nel 2007, mostrano che questo lavoro può essere svolto in maniera sensata. Le Nazioni Unite dovrebbero cercare di incamminarsi sulla stessa strada. Consideriamo allora i risultati di questi programmi pilota, e vediamo come li si può ampliare e come ogni governo può rispondere alla sfida di aprire le menti dei giovani al rispetto reciproco di religioni e culture.
L’educazione nel ventunesimo secolo è una questione di sicurezza. In questo senso sappiamo già qual è “la” risposta: educare la prossima generazione ad aprire la mente. Non c’è causa più meritevole né più urgente.
Intervento agli Stati Membri delle Nazioni Unite durante una sessione del Comitato antiterrorismo del Consiglio di sicurezza, 21 novembre 2013

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