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ARTICOLO | Primo Piano di "Atlantide" n. 30 (2013)

“Mare nostrum”, una scommessa sulla pace

Il 2013 è stato caratterizzato da una notevole instabilità in Nord Africa e Medio Oriente, regioni strategiche per il mondo. La portata storica di questi avvenimenti chiama l’Europa a una nuova politica verso il Mediterraneo

Il 2013 è stato caratterizzato da una notevole instabilità nelle aree della sponda sud del Mediterraneo, del Medio Oriente e del Golfo, regioni strategiche per il mondo intero e tanto più per l’Italia, storicamente legata ai Paesi dell’area mediterranea da una lunga tradizione politica, economica, culturale e di solidarietà. 
La portata storica degli avvenimenti recenti nel mosaico mediterraneo chiama in causa tutto il Vecchio Continente, non solo per la prossimità geografica. Da una nuova politica dell’Europa verso il Mediterraneo dipende il futuro delle generazioni che verranno, le speranze dei popoli in lotta per la democratizzazione o in fuga da guerre e povertà, la pace e la sicurezza internazionale, quali componenti essenziali dell’Unione europea. L’assegnazione nel 2012 del Premio Nobel per la pace alla nostra casa comune, nonché le motivazioni presentate per tale riconoscimento, costituiscono il più evidente sigillo a quanto fatto e ottenuto dall’Europa negli ultimi sessant’anni nella promozione della pace e della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani. Tutti apprezzano il contributo dell’Ue, in particolare le popolazioni civili che, anche grazie all’intervento europeo, sono scampate alle tante, terribili offese inferte dai conflitti.
È dunque evidente che l’interesse strategico dell’Italia verso i Paesi del Mediterraneo si sposa perfettamente con gli obiettivi proclamati dall’Europa, che rappresenta il passato e il futuro del nostro Paese, memoria e identità, ma anche progetto condiviso di sicurezza comune e solidarietà. Peraltro, buona parte del confine meridionale europeo corrisponde a quello nazionale. Tuttavia, i problemi non mancano.

La pace prima di tutto
Gli strascichi delle cosiddette “primavere arabe” non si sono ancora placati, ma negli ultimi, mesi nello scenario mediorientale, l’attenzione è stata dominata dalla guerra civile siriana. In particolare, il rischio di deflagrazione al di là dei confini della Siria, oltre a destare l’interesse e l’allarme della comunità internazionale, ha visto impegnato il Pontefice in un’azione senza precedenti. Papa Francesco, infatti, ha voluto indire lo scorso 7 settembre, per tutta la Chiesa, una giornata di digiuno e di preghiera per la pace in Siria, nel Medio Oriente e nel mondo intero. Sua Santità si è fatto interprete della forza del dialogo e del «grido della pace» salito da ogni angolo della Terra.
L’appello, al quale ho aderito in prima persona e che è stato sostenuto nei contenuti dal governo italiano, non è rimasto inascoltato, così da scongiurare il rischio di un conflitto dalla portata ben più vasta. L’Italia, com’è nella sua migliore tradizione politica, ha perseguito con determinazione la via del dialogo e del negoziato, pur non restando indifferente di fronte all’escalation di violenze in Siria che ha già provocato centinaia di migliaia di vittime e oltre due milioni di profughi, secondo i dati dell’Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati. Una massa di persone, per lo più donne e bambini, che bussa alle porte dell’Europa, ma che soprattutto preme ai confini dei Paesi vicini: l’Egitto, l’Iraq, ma innanzitutto la Turchia, la Giordania e il “piccolo” Libano, che già ne accoglie circa un milione. Con un rischio di maggior destabilizzazione dell’area che si fa sempre più alto.
È la ragione per cui l’Italia, peraltro presente in Libano con la missione internazionale di peacekeeping denominata Unifil, è stata sempre contraria a un intervento che prescinda da un mandato chiaro delle istituzioni internazionali, pur seguendo giorno dopo giorno con attenzione e preoccupazione l’evolversi della crisi siriana: una situazione che condensa elementi di complessità tali da rendere indispensabile una soluzione politica per allontanare il rischio di un conflitto “allargato”. In Siria non solo si combatte una guerra civile tra i sostenitori del regime di Assad e i suoi oppositori; attorno a Damasco sono impegnate potenze regionali come Iran, Arabia Saudita, Qatar, Paesi del Golfo, tutte schierate, più o meno massicciamente, con sostegno militare ed economico alle diverse fazioni in lotta, per tutelare i loro interessi. Sono le stesse potenze che stanno conducendo una partita accesa in tutto il Medio Oriente. Per non parlare degli interessi strategici delle potenze mondiali, la Russia in primo luogo.
Nella sua politica orientata alla solidarietà, alla sicurezza e alla stabilizzazione delle aree di crisi, l’Italia ritrova la sua coerenza, continuando a scommettere sulla pace e sulla verità “forza della pace”. Il predecessore di Bergoglio, papa Benedetto XVI, citava sant’Agostino che ha descritto la pace come “tranquillitas ordinis”, la tranquillità dell’ordine. Vale a dire quella situazione che permette, in definitiva, di rispettare e realizzare appieno la verità dell’uomo. Da qui l’urgenza di essere accanto ai popoli che ambiscono alla “normalità”. L’Italia lo dimostra sia attraverso precise scelte politiche, sia attraverso lo strumento delle missioni di pace e umanitarie, legittimate dal Parlamento e coordinate con gli organismi internazionali di cui è parte. L’Italia non ha mai fatto mancare il suo supporto laddove si sia reso necessario a ristabilire o a supportare processi di pace, legalità e ricostruzione delle istituzioni, fuori o dentro i confini nazionali.
La più recente delle operazioni, è quella avviata per gestire la crisi determinata dalla presenza di un numero molto elevato di richiedenti asilo o migranti che, dal Nord Africa, tentano con ogni mezzo di raggiungere le coste dell’Europa. L’operazione, denominata “Mare nostrum”, è partita nell’ottobre del 2013.

Operazione “Mare nostrum”
All’indomani della tragedia di Lampedusa, la strage di migranti che ha commosso il mondo intero, l’Italia ha implementato in maniera significativa il pattugliamento del canale di Sicilia dando il via alla missione “Mare nostrum”. Gli assetti impiegati sono: 6 navi, compresa una unità anfibia, ognuna con equipaggi da 80 a 250 uomini, con elicotteri a bordo e 1 aereo P. 180 della Marina Militare e anche un aereo Atlantic e 1 Predator – aereo da ricognizione senza pilota – dell’Aeronautica Militare. Il compito della missione è umanitario, ovvero salvare vite umane. Ma si tratta anche di una missione di sicurezza, in quanto i mezzi della Marina hanno anche il compito di identificare le navi madri impiegate dagli scafisti, allo scopo di mettere fine al tragico contrabbando di esseri umani. In mare, le attività di sorveglianza si trasformano di sovente in azioni di soccorso, condotte spesso in condizioni meteo-marine critiche, a favore di migranti duramente provati dalla traversata e perciò anche fisicamente molto deboli. Fino a questo momento sono stati 2000 i migranti portati in salvo e 3500 quelli assistiti.
È risaputo che una delle vie per incidere alla radice sui flussi migratori era ed è quella del rafforzamento delle autorità centrali libiche, in particolare per ciò che riguarda la capacità di controllare il territorio e far rispettare le leggi. A tale scopo, l’Italia e altri Paesi hanno risposto immediatamente alla richiesta del premier libico Zeidan, lo scorso giugno ai Paesi del G8 affinché si impegnassero ad addestrare alcune migliaia di reclute, al fine di formare in tempi brevi delle forze statali credibili e ben preparate in grado di garantire la sicurezza del Paese. L’attività andrà ad affiancarsi alla “Missione militare Italiana in Libia” (MIL), nata per supportare le autorità libiche nel difficile processo di ricostruzione delle istituzioni. Parallelamente all’azione nazionale, l’Italia concorre poi all’iniziativa europea che si sostanzia nella Missione EUBAM Libya, finalizzata al miglioramento della sicurezza della frontiera libica.
Quello che accade nel “mare nostrum” è un fenomeno epocale che non riguarda solo l’Italia, ma l’Europa intera, che ha nella sponda sud del Mediterraneo il suo confine naturale. Per questa ragione l’Ue dovrà decidere il suo destino: girarsi dall’altra parte o adottare una politica comune. Gli uomini e le donne delle Forze armate impegnate a Lampedusa sono mattoni che ergono un ponte di civiltà in grado di sostenere la sfida che viene dal bisogno del mondo. Alla politica europea spetta il compito di garantire la stabilità politica dei Paesi africani che alimentano le partenze e i traffici di esseri umani; infine, la necessità di dotarsi di strumenti legislativi fortemente orientati all’integrazione, più che all’esclusione.

Le missioni internazionali di pace
L’Italia è impegnata in missioni di pace che trovano nella Carta Costituzionale e nel voto del Parlamento la loro legittimazione. La più longeva è UNIFIL, la missione delle Nazioni Unite in Libano, Paese che occupa una posizione cruciale nello scacchiere mediorientale. Crocevia di tensioni e rischi, a cui si aggiungono anche le possibili ricadute del conflitto siriano sugli equilibri libanesi. Il che rende ancor più decisivo il ruolo sinora svolto dai “caschi blu” a supporto delle autorità locali libanesi, a Sud del fiume Litani, teso a prevenire il ritorno delle ostilità. UNIFIL, a guida italiana, è un chiaro esempio di missione tesa a favorire il dialogo (tra libanesi e israeliani) e a creare le condizioni di stabilizzazione dell’area, ad esempio attraverso l’attività di sminamento della Blue Line, cioè il tracciato che di fatto costituisce la linea di demarcazione fra Libano e Israele, nella quale il contingente italiano dà prova di elevata professionalità. Peraltro, è significativa l’esperienza italiana di cooperazione civile e militare, che si sostanzia in tutti gli interventi in campi che vanno dall’istruzione all’agricoltura. Attività che, grazie al raccordo con le istituzioni locali, creano opportunità di riscatto per le famiglie libanesi.
Ma è tanto più in Afghanistan che l’Italia conferma la sua capacità di intervento in contesti sensibilissimi, ponendosi come fattore di equilibrio e stabilizzazione, privilegiando in quel teatro così difficile le armi del dialogo e della cooperazione. Mosaico di culture millenarie, l’Afghanistan sta costruendo il suo futuro anche grazie all’aiuto di una missione internazionale che vede l’Italia protagonista nel settore Ovest del Paese. Grazie agli interventi messi in campo, quel Paese da “restituire agli afghani” sta prendendo forma, nonostante le difficoltà legate a decenni di conflitti che lo hanno reso insicuro, povero e arretrato.
Va avanti senza sosta il processo di “transizione” della responsabilità primaria della sicurezza verso le Autorità afgane. È in corso, nell’ambito della missione ISAF, la quinta e ultima fase, con la quale tutti i Distretti passeranno sotto la responsabilità afgana. Già oggi circa l’87 per cento della popolazione vive in aree controllate dalle autorità locali.
A partire dal 2002, sono state realizzate migliaia di scuole e reclutate decine di migliaia di insegnanti. Questo è un fattore essenziale per lo sviluppo umano e – nel lungo termine – anche politico ed economico perché l’Afghanistan ha per lo più una popolazione molto giovane che può cambiare il futuro del Paese. Oggi tra i 7 e i 9 milioni di ragazzi e ragazze afgani vanno regolarmente a scuola. Un successo, se si pensa che alla partenza della missione ISAF gli studenti erano poco meno di 900.000, e tutti maschi. Le bambine, in particolare, prima erano escluse da ogni educazione; oggi rappresentano circa il 40 per cento del totale degli studenti. Ci sono 164.000 ragazze che frequentano scuole secondarie; 40.000 frequentano istituti universitari pubblici o privati, oppure scuole di formazione professionale. Inoltre, grazie ai progressi in campo medico, anche la mortalità infantile è diminuita, negli ultimi dieci anni, di circa il 60 per cento.
Così l’Italia scommette sulla pace e sul desiderio dei popoli di vivere nella sicurezza, preservando antiche e ricche culture. Lo fa anche nei Balcani, con la missione KFOR in Kosovo, in atto dal 1999, e attualmente sotto il comando italiano, nell’Oceano indiano e nel Corno d’Africa, in Somalia, per citare solo alcune delle attività internazionali che il Parlamento italiano ha avviato sotto l’egida di ONU, NATO e UE, organizzazioni di cui il nostro Paese è parte integrante.
Il Santo Padre Papa Francesco, durante un Regina Coeli in piazza San Pietro, ha detto: «La vita bisogna metterla in gioco per grandi ideali». Proprio in nome di questi ideali, gli uomini e le donne in divisa lavorano per evitare la guerra, si interpongono tra coloro che vogliono destabilizzare, rischiano e, talvolta, perdono la vita per evitare che i conflitti armati siano utilizzati come mezzo di risoluzione delle controversie. Questo impegno è il risultato di scelte politiche coerenti, in linea con le decisioni degli organismi internazionali, di cui l’Europa è uno dei principali attori. Europa che dovrà necessariamente ritrovare la capacità di progettare il futuro per continuare a svolgere nel contesto mondiale quel ruolo che l’ha resa grande nella storia.

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