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ARTICOLO | Tema di "Atlantide" n. 12 (2007)

Un decennio fondamentale per il clima

Considerando l’anno trascorso, ho l’impressione che vi sia oggi un generale riconoscimento della necessità di arrivare a un approccio più completo nelle politiche internazionali sui cambiamenti climatici per il post-2012, scadenza fissata per gli accordi di Kyoto. Penso anche che ci sia un crescente accordo sul fatto che la politica post-2012 debba essere inclusiva, cooperativa, globale e, soprattutto, inserita nello sviluppo sostenibile che è sostanzialmente l’obiettivo su cui stiamo lavorando. Credo che si debba dare importanza sia all’adattamento che alla riduzione delle emissioni, includendo la tecnologia come componente chiave della soluzione. Questo significa che i Paesi industrializzati devono assumersi forti impegni e rimanere in prima fila nell’opera di riduzione delle emissioni, data la loro responsabilità storica nei riguardi di questo problema, e credo inoltre che essi abbiano una responsabilità e un ruolo importante nell’aiutare i Paesi in via di sviluppo a prenderlo nella dovuta considerazione. Presto entreremo in una fase in cui i Paesi in via di sviluppo emetteranno più gas serra dei Paesi industrializzati, dato che la loro preoccupazione dominante è lo sviluppo economico e la lotta alla povertà. Ciò significa che dobbiamo trovare dei meccanismi di cooperazione internazionale che permettano loro di agire sul problema del cambiamento climatico, rispettando al contempo gli obiettivi di sradicamento della povertà. Che cosa abbiamo ottenuto al momento e a che punto siamo? In primo luogo, penso che sia importante evidenziare che prima del Discorso sullo stato dell’Unione di Bush all’inizio dell’anno, i vertici delle aziende che partecipano alla U.S. Climate Action Partnership hanno invitato il presidente a sostenere un limite obbligatorio sulle emissioni di gas serra, per tagliarle di più del 60% entro il 2050. Ciò corrisponde a quanto avviene nel mondo degli affari in Europa, in Australia e in Canada, con il settore privato che chiede certezza sul lungo termine, indicazioni precise su dove i governi intendano andare, e chiare prospettive sulle politiche ambientali all’interno delle quali dovranno fare i loro investimenti. Da porre in evidenza è anche il fatto che al momento al Senato e al Congresso vi sono 12 proposte legislative con a tema il cambiamento climatico e, di queste, otto hanno una componente internazionale. Questa è per me un’altra chiara indicazione di un desiderio politico di andare avanti nell’affrontare il problema, e di farlo in un contesto internazionale. È il caso quindi di vedere che cosa accade sotto gli auspici delle Nazioni Unite. In primo luogo, abbiamo il Protocollo di Kyoto, ratificato da 175 Paesi, che riguarda il 61,6% delle emissioni di gas serra. Il Protocollo di Kyoto prevede un approccio flessibile e non cerca di imporre gli obiettivi, o una particolare strategia politica, ma lascia liberi i Paesi di decidere, singolarmente o insieme, come nel caso dell’Unione Europea, le politiche per realizzarli. Il Protocollo di Kyoto è riuscito a creare un mercato del carbonio e a fornire un insieme di strumenti per aiutare i Paesi a raggiungere i loro obiettivi in modo efficiente. Nel 2006, il valore del mercato del carbonio è salito a 30 miliardi di dollari, un valore tre volte superiore a quello dell’anno precedente. Circa 25 miliardi sono stati generati dal programma commerciale europeo sotto l’egida dell’Unione Europea, e altri cinque miliardi attraverso il Clean Development Mechanism, che comprende la cooperazione con i Paesi in via di sviluppo. Da questo programma ci si attende una riduzione delle emissioni di anidride carbonica di circa 1,9 miliardi di tonnellate entro il 2012, quantità pari alle emissioni annuali di Canada e Grecia messe assieme. Le risposte politiche alle richieste della scienza Malgrado questi passi importanti, i dati scientifici più aggiornati ci indicano chiaramente che abbiamo bisogno di più iniziative di quante ne siano in atto al momento; è quindi il caso di fare il punto della situazione. La temperatura globale media è aumentata di 7,4° C durante l’ultimo secolo, il trend di riscaldamento più ampio e più veloce che gli scienziati abbiano potuto individuare nella storia della Terra. Le proiezioni attuali indicano che questa tendenza continuerà e accelererà: nel XXI secolo, la Terra potrebbe riscaldarsi di circa 3° C. Secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), il cambiamento di clima è inequivocabile, e la maggior parte del riscaldamento è causata dalle attività umane. È quindi urgente fornire alla scienza risposte politiche. Ci sono stati vari segnali incoraggianti che testimoniano l’aumento di attenzione della politica in proposito, e vorrei qui accennare a tre di essi. Il primo è il risultato molto importante dell’incontro dei G8 a Heiligendamm all’inizio di quest’anno, dove i partecipanti hanno messo a punto un programma di lavoro ambizioso e un rigido scadenziario per le trattative. Tutto ciò in vista di una gestione futura del cambiamento di clima da completare per il 2009, attraverso strumenti per affrontarlo come, in particolare, il mercato del carbonio e il suo ruolo nel creare incentivi economici per stimolare i Paesi in via di sviluppo ad agire. È anche incoraggiante il fatto che al G8+5, che comprende anche i cinque grandi Paesi in via di sviluppo, si sia chiesto di includere in un accordo futuro, insieme all’intensificazione del finanziamento e della cooperazione nella tecnologia, anche i mezzi per l’adattamento. Si punta così realmente a un approccio globale, focalizzato non solo sulla riduzione delle emissioni, ma anche sull’adattamento, argomento che sta diventando particolarmente importante per alcuni tra i Paesi più poveri del mondo. L’Unione Europea ha messo sul tavolo un’offerta per ridurre le emissioni del 20% nel 2020, che potrebbe diventare il 30% con l’apporto di altri Paesi. Un altro importante sviluppo si è verificato nel contesto dei cosiddetti Colloqui sul cambiamento di clima di Vienna, tenutisi ad agosto, dove all’interno del Protocollo di Kyoto si è concordato di lavorare con obiettivi basati, per i Paesi industrializzati, su una gamma di riduzione di emissioni tra il 25% e il 40% rispetto ai livelli del 1990, in linea con gli scenari più rigidi dell’IPCC. La gamma indicata verrà presa come riferimento per il lavoro futuro nel quadro del Protocollo. Il terzo importante sviluppo che voglio menzionare è l’esito di Gleneagles, dove sotto la presidenza britannica del G8 si è stabilita un’agenda per gli sviluppi futuri che mostra chiaramente l’intenzione di continuare i passi intrapresi. Le ragioni per un intervento urgente e globale Perché questa necessità di muoversi con tale urgenza? Vale la pena di accennare a un paio di questioni. La prima si riferisce all’accesso all’energia, una delle preoccupazioni predominanti dei Paesi in via di sviluppo, in quanto la crescita economica richiede sempre maggiori quantità di energia. La seconda questione è che l’energia riveste un’importanza cruciale per lo sviluppo economico, ma nei Paesi meno sviluppati e in via di sviluppo 1,6 miliardi di persone non hanno ancora accesso a forme moderne di fornitura d’energia, e 2,4 miliardi di persone, per cucinare o riscaldarsi, ricorrono ancora a combustibili tradizionali, insostenibili da un punto di vista ecologico. In terzo luogo, secondo la International Energy Agency, la domanda d’energia globale aumenterà del 60% entro il 2030; fino a quel momento, le infrastrutture per la fornitura di energia su scala mondiale richiederanno un investimento totale di 20 miliardi di dollari, di cui circa la metà nei Paesi in via di sviluppo. Una parte consistente dell’investimento totale è richiesto dal solo mantenimento del livello attuale di forniture. Le fonti di petrolio e metano si stanno esaurendo, le centrali elettriche stanno diventando obsolete e le linee di trasmissione e distribuzione dovrebbero essere sostituite. In totale, il 51% dell’investimento nella produzione di energia sarà necessario solamente per sostituire o mantenere l’attuale e futura capacità produttiva; il rimanente 49% sarà destinato a fronteggiare la crescente domanda. La sfida per le politiche relative al cambiamento climatico, sia nazionali che internazionali, è di svolgere un ruolo determinante nel far crescere globalmente la disponibilità di energia e lo sviluppo economico. Accanto alle politiche, sono anche necessari spostamenti nei flussi finanziari verso investimenti nell’energia rispettosi del clima e dell’ambiente. Le proiezioni portano alla cifra di circa 432 miliardi di dollari investiti annualmente nel settore energetico. Di questi, 148 miliardi saranno indirizzati verso il sequestro e l’immagazzinamento dell’anidride carbonica, le fonti rinnovabili, l’energia nucleare e quella idroelettrica. Si prevede che gli investimenti nei combustibili fossili continuino ad aumentare, ma a un tasso ridotto. In sintesi, durante i prossimi 25 anni dovremo spendere 20.000 miliardi di dollari per fornire l’energia necessaria per lo sviluppo economico. Se li spenderemo male, le emissioni di gas serra aumenteranno del 50%; se li spenderemo saggiamente, le emissioni potrebbero diminuire del 50%, come richiesto dalla comunità scientifica internazionale. Cosa ci dice oggi la comunità scientifica? Prima di tutto, che tra il 1970 e il 2000 le emissioni di gas serra sono aumentate non meno del 70%; in secondo luogo, afferma che senza un provvedimento globalmente concertato ci si può aspettare per il 2030 un aumento delle emissioni di gas serra fra il 25% e il 90% rispetto al 2000. In terzo luogo, per ridurre questa tendenza, le emissioni globali devono raggiungere il culmine e poi diminuire per rispettare i livelli di stabilizzazione della concentrazione di gas nell’atmosfera. Quanto più bassi saranno i livelli di stabilizzazione prescelti, tanto più veloce dovrà essere il raggiungimento del picco e la successiva discesa. Secondo lo scenario più rigoroso dell’IPCC, un obiettivo a lunga scadenza in linea con le più recenti posizioni scientifiche dovrebbe prevedere un picco delle emissioni nei prossimi 10 o 15 anni, seguito da un declino, entro la metà del secolo, del 50% rispetto ai livelli del 2000. Questo stabilizzerebbe le emissioni in circa 450 parti per milione d’equivalenti di CO2 nell’atmosfera e corrisponderebbe a un aumento di temperatura di circa 1,7-2,2° C. L’urgenza della situazione è messa in evidenza dagli effetti prospettati dall’IPCC, che includono eventi come la riduzione dei raccolti nelle aree tropicali, l’aumento dei rischi di fame, la possibilità che metà della popolazione africana debba far fronte a problemi con l’acqua e un incremento dal 20% al 30% dell’estinzione di piante e animali. Nel prossimo decennio, interventi decisi possono ancora evitare alcuni degli eventi catastrofici ipotizzati dall’IPCC. Occorre che per il 2009 o il 2010 sia già operativa una forte struttura per affrontare il cambiamento climatico, così da assicurare che non vi sia nessuna interruzione tra la fine del primo periodo d’impegno nel Protocollo di Kyoto e l’entrata in vigore di un nuovo regime. Per realizzare tutto questo, ritengo necessario che alla Conferenza sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite di Bali, nel dicembre di quest’anno, venga presentata un’esauriente agenda sul futuro, cosicché i governi decidano di iniziare formali trattative, che si accordino sui punti fondamentali di queste negoziazioni e che stabiliscano un termine massimo per il 2009 o 2010 entro cui queste trattative devono essere completate. Questa è l’agenda che abbiamo davanti e che non possiamo realizzare senza l’aiuto e il consenso degli Stati Uniti e degli altri Paesi del mondo.

Dall’intervento tenuto il 21/09/2007 alla Brookings Institution di Washington

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