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Libertà di religione: una risorsa per tutti

Un discorso che investe ogni aspetto della vita umana e sociale I passaggi del discorso di Benedetto XVI al Collège des Bernardins che riguardano la scrittura e l’interpretazione, meriterebbero di essere adeguatamente approfonditi anche in riferimento all’interpretazione dei testi giuridici.

Il diritto è tuttora troppo spesso ridotto a puro “positivismo giuridico”, cioè al diritto dei codici, delle leggi e dei testi, e proprio per questo diviene facilmente preda dell’arbitrio dell’interprete che lo deve applicare. «La Scrittura ha bisogno dell’interpretazione e della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta» è una frase che contiene di certo un passaggio di capitale importanza per la comprensione dei testi sacri; ma non meno cruciale è il suo significato se essa – togliendo la “S” maiuscola – viene riferita ai testi giuridici, primi fra tutti le costituzioni. Ogni testo, sia pur ricco di principi nobili e condivisi, di valori fondanti – come accade nelle costituzioni – diviene facilmente pretesto per battaglie culturali soggettive o di singoli gruppi, se non rimane saldamente ancorato all’esperienza giuridica, storica e viva del popolo da cui promana (Capograssi, Grossi). L’interprete che nel leggere e applicare i testi ai casi sempre nuovi e imprevedibili della vita umana non si facesse portavoce della storia viva della comunità in cui opera finirebbe per imporre per via giuridica solo le proprie preferenze soggettive e quelle dei gruppi di pressione più potenti di cui egli diviene facilmente preda. Juristocracy – cioè una nuova forma di aristocrazia dominata da giudici e giuristi (Hirschl) – sarà il destino delle nostre forme di convivenza civile se chi detiene la custodia dell’interpretazione dei testi non si lascerà guidare dalla storia più profonda dei popoli, alla luce della ragionevolezza: in una parola dal logos presente nella storia, come ricorda a più riprese il Papa.

La libertà di religione e il suo valore per la convivenza

L’intervento del Pontefice è ambientato all’epoca del tramonto dell’Impero romano d’Occidente e ci riporta alle origini della cultura europea. Ma è doveroso chiedersi se il Papa stia soltanto compiendo una rivisitazione storica, in omaggio al luogo che lo ospita, o come sembra più credibile, stia parlando al mondo contemporaneo.Grave e severa è la situazione sociale dell’epoca storica che il discorso descrive. Grave e severa quanto la situazione attuale che in quella descrizione può rispecchiarsi facilmente. Le parole del Pontefice parlano di un «grande sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione dei popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi»; di una «confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere» e più avanti del «crollo di vecchi ordini e sicurezze». Come non riconoscere i caratteri della situazione attuale nei tratti con cui viene descritta la fine dell’impero, lo sconvolgimento culturale che ne è derivato, il crollo delle vecchie sicurezze e di un ordine politico che sembrava dovesse essere eterno? La veloce evoluzione della società contemporanea del XXI secolo è caratterizzata da fenomeni paragonabili a quelli ivi descritti: un imponente rimescolamento di popoli e di culture e un repentino crollo delle certezze della sicurezza e del benessere economico mettono a dura prova il vecchio ordine della convivenza civile, i suoi principi fondamentali e le sue stesse istituzioni. Su questo sfondo, dai toni nient’affatto irenici, il Pontefice non solo afferma, ma mostra la rinascita culturale dell’Europa, che si sviluppa intorno a luoghi puntiformi diffusi in tutto il continente: i monasteri. Nel desolante panorama di una società devastata dalla barbarie, «i monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento ad essi, veniva formata passo passo una nuova cultura». Non un progetto di ricostruzione politica e giuridica ha salvato l’Europa, ma germogli di vita nuova. È a partire da realtà circoscritte – ma vive – che si è gradualmente sviluppata una rinascita culturale, che ha poi investito l’intero continente per lunghe stagioni di prosperità.

I luoghi umani dove si esprime un’autentica libertà religiosa

La narrazione della rinascita della civiltà europea intorno ai monasteri contiene un implicito invito a considerare con maggiore attenzione il valore della libertà religiosa nelle società attuali. In vero, nell’Europa unita e in ciascuno degli Stati che la compongono, la libertà di religione è garantita: il fenomeno religioso non è perseguitato alla stregua di quanto accade in altre parti del mondo e la libertà di religione compare in tutte le Carte dei diritti, anche se spesso non è differenziata dalla più generica libertà di coscienza o di pensiero. Nondimeno, il discorso del Papa al Collège des Bernardins potrebbe suggerire un’importante correzione al comune modo di intendere tale libertà. L’interpretazione attualmente più diffusa e più accreditata tratta il fattore religioso come un fenomeno strettamente intimo e riservato, attinente alla sfera individuale e alle preferenze soggettive, che può liberamente dispiegarsi solo all’interno di uno spazio pubblico secolarizzato. Libertà di religione e secolarizzazione dello stato sono spesso considerati due lati della stessa medaglia: di norma si ritiene che la vita religiosa può essere pienamente libera in quanto lo stato sia perfettamente estraneo al fenomeno religioso, sia cioè secolarizzato. Il fattore religioso è protetto in quanto aspetto della privacy, della vita privata dell’individuo, ma – almeno in Europa – diviene un fenomeno imbarazzante quando pretende di affacciarsi nella vita pubblica. Il trattamento giuridico dei simboli religiosi, così come si è evoluto nella società francese – lo stato laico per eccellenza – è la più chiara espressione di questa concezione dominante: il principio di laicità non sopporta l’esposizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici – il velo islamico, il crocefisso, la kippah, ecc. – perché altrimenti ne risulterebbe violata la neutralità dello stato. Con la secolarizzazione non si è trattato appena di separare la chiesa dallo stato, ma più radicalmente si è inteso negare ogni valore pubblico al fatto religioso. Feriti dalle guerre di religione, segnati dalla diffusione della religione di stato anche all’epoca dei totalitarismi, i paesi europei tendono a considerare la secolarizzazione come un ingrediente indispensabile per ogni autentica democrazia. Il rigetto della storia passata si è un po’ sbrigativamente tradotto nella espulsione del fattore religioso dallo spazio pubblico e nella sua reclusione nella sfera delle preferenze soggettive dell’individuo.

L’alternativa tra laicità e religiosità

I più attenti osservatori (Weiler) hanno da tempo mostrato come il rischio insito in tale sbrigativa svolta sia la deriva verso uno stato non laico, ma laicista, che tende ad agire all’insegna di una laicità militante, nient’affatto neutrale, ma impegnata nella difesa e nella diffusione dei valori laici. L’alternativa tra laicità e religiosità è di natura binaria, si osserva, e non è compatibile con scelte neutrali. Inoltre, le più recenti riflessioni sullo stato post-secolare (Habermas, Böckenförde) hanno mostrato come dal massiccio e persistente fenomeno di secolarizzazione perpetrato nel corso del XX secolo sia derivato un evidente impoverimento della vita sociale. La secolarizzazione ha avuto rilevanti costi in termini di ethos sociale e il vuoto così generatosi oggi ha urgente bisogno di essere colmato. Il sintomo più evidente di questo bisogno indotto dalla secolarizzazione è dato dalla diffusione di iniziative dirette alla “educazione ai valori” rivolte in primo luogo alle aule scolastiche. Basti richiamare, ultimo di una serie di interventi autorevoli effettuati in occasione del 60° anniversario della Costituzione italiana, il discorso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano del 4 ottobre 2008, in cui il Capo dello Stato ha parlato esplicitamente di “emergenza educativa”, in riferimento ai valori fondamentali della convivenza civile. Il male che si vorrebbe curare ricorrendo all’educazione ai valori costituzionali è una debolezza sul piano etico delle giovani generazioni e più in generale della società attuale. Se si alza lo sguardo oltre l’orizzonte di casa nostra, si constata una singolare concordanza di accenti: in Spagna da diverso tempo il dibattito sull’educazione ai valori civili è stato sollecitato dalla introduzione in tutte le scuole di un corso di “educazione alla cittadinanza”, basata sull’insegnamento dei valori contenuti nella Costituzione spagnola, nelle leggi e in altri documenti in materia di diritti fondamentali; in Canada, è stato introdotto in tutte le scuole, pubbliche e private, un corso di etica e cultura religiosa che a partire dai primi anni delle elementari è destinato a svolgersi lungo un curriculum di ben undici anni. A queste proposte corpose ha fatto eco in Italia – in termini per ora meno definiti – la reintroduzione dei corsi di educazione civica anche nella scuola italiana, da parte dell’attuale ministro dell’istruzione. Queste forme di educazione ai valori civili sono necessitate dall’impellente urgenza di colmare il vuoto etico, spirituale e religioso determinatosi con la “deconfessionalizzazione” della società (Leroux). Significativa è anche la ripresa, nell’ambito della riflessione della filosofia politica più recente della tematica dell’educazione alla democrazia e dell’educazione etica (Dahl, Walzer). Una serie di iniziative, assai diversificate per portata e livello di intervento, denotano, dunque, l’esistenza di un comune bisogno, segnalato con lungimiranza da Böckenförde sin dal 1976: «Da dove attinge e come mantiene lo stato liberale, secolarizzato, oggi il criterio, quella comunanza pregiuridica o l’ethos portante che è indispensabile per un prospero convivere in un ordine liberale?». Da un lato lo Stato liberale ha bisogno di un ethos; d’altra parte se promuove un proprio ethos esso nega la sua essenza di Stato liberale. Apparentemente la proposta di affrontare il “deficit etico” delle democrazie e delle società contemporanee secolarizzate sul piano della educazione sembra risolvere elegantemente il dilemma di Böckenförde. Lo Stato liberale non impone attraverso le sue leggi e i suoi atti normativi alcun ordine morale, anzi è bene attento a preservare la neutralità degli spazi pubblici, e tuttavia non rinuncia a coltivare la dimensione etica, non già tramite imposizioni e comandi, ma tramite un percorso educativo, formando le coscienze. La neutralità dell’ordinamento giuridico liberale è salvaguardata senza rinunciare a un impegno etico pubblico.

L’“educazione ai valori” è un’operazione delicata

Il primo è il rischio di un ritorno all’etica di Stato che, di certo, non è negli auspici di nessuno. Ispirati ai valori costituzionali e ai diritti universali, i programmi educativi sopra ricordati sono senz’altro pregevoli per il loro intento di ricostituire un tessuto di integrazione nelle società contemporanee, fortemente frammentate e pericolosamente esposte a fattori erosivi. Tuttavia, educare ai valori è un’operazione estremamente delicata, nella quale si può insinuare una deprecabile operazione di condizionamento culturale, tanto più insidiosa in quanto effettuata da istituzioni pubbliche e quindi condotta all’insegna della neutralità. Da questo punto di vista, il baluardo dell’obiezione di coscienza e la conseguente possibilità di esenzione dagli insegnamenti pubblici di educazione civica ed etica sono diritti che non possono venire meno, come ha di recente affermato il Tribunale supremo spagnolo (febbraio 2009). Il secondo rischio è in qualche misura antitetico al primo. Ricostruire un ethos pubblico insegnando i valori civili dai banchi di scuola può rivelarsi illusorio. Educare non equivale a insegnare. L’Europa oggi ha bisogno più di virtù praticate che di valori proclamati (Weiler). Come ci ricorda la cultura classica, l’ethos pubblico ha bisogno di luoghi dove le virtù possano essere praticate, più che impartite sotto forma di insegnamento scolastico. Educare la sostanza morale delle persone necessità più di luoghi sociali che di materie di insegnamento: per questo nella tradizione del liberalismo americano, seguendo la traccia segnata da Tocqueville, si valorizzano le realtà comunitarie presenti nella società dove si sperimentano “forme di vita nuova” (McIntyre) e che costituiscono “vivai delle virtù civiche” (Glendon). La storia del monachesimo descritta da Benedetto XVI nel discorso al Collége des Bernardins mostra che i monasteri sono stati per l’Europa esattamente questo: luoghi di rinascita spirituale e insieme culturale, sociale ed economica, a beneficio dell’intero continente. Si è trattato di comunità, piccole o grandi, di rigenerazione dell’umano.

I luoghi religiosi sono scrigni preziosi per la società

Ma come è potuto accadere che proprio dai monasteri, dove si svolgeva una vita religiosa totalizzante, potesse rinascere un’intera civiltà? Come è stato possibile che proprio coloro che erano disposti a lasciarsi alle spalle la vita mondana, fossero all’origine della rinascita della società civile? I monaci non intendevano rifondare la civiltà Europea, spiega il Papa, ma più semplicemente cercare Dio, quaerere Deum: «volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane per sempre, trovare la Vita stessa». È da questa ricerca di ciò che vale e permane, di ciò che dura e resiste alle intemperie sociali e da questa capacità di sguardo capace di bucare l’apparente desolazione della realtà che è rinata la cultura europea in tutti i suoi aspetti: musica e arte, grammatica e linguistica, e persino lavoro materiale, coltivazioni e produzioni artigianali. In tutto il discorso il Pontefice mostra come la ricerca di Dio, lungi dall’estraniare i monaci dal contesto storico in cui vivevano, li gettava al cuore delle cose umane: «proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane». Proteggere e valorizzare la libertà di religione, i suoi luoghi fisici, ma soprattutto i suoi luoghi umani e sociali, non significa appena porgere un deferente ossequio ai valori spirituali, ma salvaguardare un patrimonio di cui può beneficiare la società intera. Uno stato autenticamente laico e proteso alla rinascita civile non può non dare spazio a quelle realtà dove la ricerca di ciò che permane restituisce valore a ogni espressione umana. Gli ambiti sociali in cui si esprime la libertà religiosa, allora, non sono luoghi oscuri e chiusi da guardare con sospetto – come sembra talvolta di cogliere in alcune tendenze normative –, ma realtà vive che meritano tutta l’attenzione e la simpatia di chi ha la responsabilità del bene comune.

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