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ARTICOLO | Editoriale di “Atlantide” n. 45 (2019)

Europa. Pace prosperità pessimismo

C’è uno scarto tra le aspettative dei cittadini europei per “l’ideale Europa” del dopo guerra e quella attuale, spesso gretta e burocratica. La costruzione europea è un processo lungo, ma indispensabile

Alla vigilia di queste elezioni europee diventa più che mai necessario fare alcune considerazioni. Innanzitutto è la prima volta, dopo l’esordio del 1979, che le urne del Parlamento europeo assumono un’importanza decisiva. Importanza che spesso è stata trascurata, relegata prevalentemente a una sorta di gigantesco sondaggio continentale, più che altro utile per verificare le tendenze e, al massimo, considerare quali forze politiche prevalessero in Europa e ne caratterizzassero le scelte istituzionali, sociali ed economiche di cornice.
Anche dopo la firma del Trattato di Maastricht nel 1992, non ci fu mai “grande passione” e partecipazione per i risultati elettorali europei. Oggi, a quasi vent’anni dall’introduzione dell’euro, si può invece affermare che le consultazioni dell’Unione europea sono ritenute non solo importanti, ma sono seguite e attese anche come momento di svolta politica che riguarda sia l’intera Europa sia le singole politiche nazionali. Non è questo un fatto secondario ed è invece un aspetto che si deve considerare positivo e che è da sottolineare. Rappresenta in sintesi la realtà, la presa di coscienza che 550 milioni di cittadini si sentono finalmente europei.
Fatta questa prima considerazione, si potrebbe affermare che, in modo paradossale, nel momento in cui gli europei avvertono con maggiore interesse l’ importanza della consultazione europea, allo stesso tempo mai come in passato, in Italia e in altri Paesi, si è assistito a una crescita di contestazioni verso l’Unione Europea, le sue scelte politiche, economiche e sociali, la sua stessa architettura istituzionale.Paradosso nel paradosso, anche tutte queste critiche potrebbero rappresentare un segno di maggiore interesse e di maturazione dei cittadini europei per vivere, in una “casa comune”, in una patria più allargata, ma in modo migliore. Tuttavia non c’è dubbio che la speranza di un miglioramento è al contempo condizionata negativamente da fenomeni come la Brexit, dal governo dichiaratamente populista/sovranista/nazionalista in Italia e in altri Paesi dell’Est Europa e da rigurgiti di nazionalismi sparsi ovunque, da forme di neo-populismi indefinibili che compromettono la coesione e la maggiore integrazione dell’Unione Europea. È comunque significativo che in Italia ci sia una percentuale “europeistica” più bassa che negli anni dell’ideale europeo (dalla Ceca, dai “patti di Roma” e dalla stessa Maastricht) ma allo stesso tempo ci sia sempre il 75 per cento degli italiani che non vogliono affatto uscire dall’Europa e si sentono anche orgogliosamente europei. Del resto, è comprensibile da una stragrande maggioranza che l’Europa, con un quinto della popolazione mondiale, con quasi il 25 per cento del PIL del mondo e con il 50 per cento della spesa sociale, rappresenti una civiltà quasi ineguagliabile nella sua storia millenaria e non possa essere emarginata nel nuovo mondo globale e nel “grande gioco” della ricerca degli equilibri strategici, economici, sociali e geopolitici, nel momento in cui si cerca di fissare nuovi assetti planetari dopo la fine del mondo bipolare e la nuova grande, probabilmente malgestita, ondata di globalizzazione.
Se non si può fare a meno dell’Europa, tanto meno si può fare a meno dell’Italia e dell’Italia europea, per il contributo che il nostro Paese ha dato per millenni alla costituzione della civiltà europea, prima fino al Reno e poi fino e oltre l’Elba, verso il Nord, e persino nelle isole britanniche. Considerando infine che il mondo occidentale, con i suoi principi e i suoi valori, sta sempre lì nel “centro del mondo”, nel mar Mediterraneo. Oggi l’Europa unita, con l’Italia al suo interno, non è necessaria, ma è letteralmente indispensabile.
Il problema allora si sposta tra la grande speranza dell’Europa unita e forte, e la realtà che si sta vivendo in questo particolare periodo storico, tra grandi trasformazioni di carattere tecnologico, economico e sociale. In mezzo ad anni di crisi maturati dalla metà degli anni Novanta fino alla devastante crisi mondiale finanziaria del 2008. In altre parole, c’è uno scarto micidiale tra le aspettative dei cittadini europei per “l’ideale Europa”, non solo quella di di Altiero Spinelli, ma di Robert Schumann, Jean Monnet, Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi e quella attuale, spesso gretta e burocratica, degli Junker e di tutta la classe dirigente che lo circonda o lo spinge a dirigere un continente che, pur crescendo complessivamente, ha al suo interno grandi sacche di malessere che provocano rancore e risentimento, delle diseguaglianze sociali spesso impressionanti, una noiosa invadenza su problemi quasi marginali nella vita dei singoli popoli europei.
Guido Carli, che firmò il Trattato di Maastricht nel 1992 (forse incalzato dal ciclone di “tangentopoli” che si stava abbattendo sull’Italia) era soddisfatto per la “tendenzialità” dei parametri stabiliti, ma era rimasto sconcertato che tra le funzioni della BCE non ci fosse,come nella FED americana, un compito di controllo e intervento per la disoccupazione. Resta il fatto che la costruzione europea è un processo lungo, che avviene tra persone di 25 lingue differenti, che viene costruito su un passato di guerre continue fino alle due “mondiali” del Novecento. Occorre comunque realizzarlo, passo dopo passo con costanza, nonostante le delusioni e i contrattempi inevitabili. Perché, lo ripetiamo: è indispensabile.

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