L'Europa del Diritto

  • GIU 2009
  • Paolo Grossi
La Rivista

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Chiamato da Jacques Le Goff e dall’editore Laterza a disegnare la storia del diritto in Europa dal tempo medievale ad oggi, mi si pose immediatamente un primo difficile problema: non lasciarsi soffocare dalla mole enorme del materiale sedimentato in ben millecinquecento anni di svolgimento storico e, al tempo stesso, redigere una sintesi che non tradisse la complessità di quello svolgimento.

 

Un metodo per la storia dell’ordinamento giuridico

Lo strumento metodologico disciplinatore di un cumulo strabocchevole di dati mi venne offerto da un filosofo italiano del diritto, Giuseppe Capograssi, che, nella prima metà del secolo scorso, aveva insegnato essere il diritto non un insieme di comandi autoritarii, ma prima di tutto esperienza, esperienza di vita vissuta, un modo di vivere la propria storia secondo l’ordinamento giuridico che ogni civiltà ha forgiato a suo essenziale salvataggio. Carattere, dunque, ordinativo del diritto, che si immedesimava con i valori di quella specifica civiltà e permetteva loro di esprimersi, realizzarsi, consolidarsi.

Tenendo dietro alla ipotesi teorica capograssiana, la storia del diritto mi si proponeva non come una catasta diacronica di giorni, anni, secoli, ma piuttosto come una sequela di diverse maturità di tempi, ciascuna delle quali, pur recando nel proprio grembo tracce del passato, realizzava e viveva una costruzione del diritto in coerenza con i valori in essa circolanti. In altre parole, io avevo la possibilità di scandire senza forzature la catasta diacronica nelle varie esperienze giuridiche susseguìtesi. Dovunque io trovassi varii e diversi modi di percepire, vivere, costruire il diritto, lì avrei potuto segnare dei confini non illegittimi

Mi si prospettavano nitidamente tre esperienze giuridiche con tratti fortemente differenziati: la medievale, che dal secolo IV d. C. corre per quasi un millennio fino al secolo XIV; la moderna, che arriva fino agli ultimi decennii dell’Ottocento; la pos-moderna, che attraversa tutto il Novecento e che è ancora in itinere. Ogni esperienza – come ho sempre insegnato ai miei studenti – non nasce dal nulla, nutre nel suo seno le cellule tumorali che la condanneranno a morte e che, a loro volta, costituiranno i primi germi dell’esperienza successiva, in un insopprimibile intreccio di continuità e discontinuità, ma anche in un susseguirsi di momenti sincronici contrassegnati – ciascuno – da un’intensa tipicità e, conseguentemente, da un’intensa autonomia.

Vorrei aggiungere una notazione quasi scontata, ma illuminante per il lettore: il mio fondamentale strumento storicizzante era la comparazione, chiamata a esaltare le singole peculiarità; adottando un’ottica comparativa, io storico non abdicavo a essere uomo del presente con i piedi ben piantati nel presente, giacché soltanto la compiuta coscienza del presente mi avrebbe permesso di valorizzare appieno le tipicità proprie a ogni esperienza. Non cercavo nel passato modelli da trapiantare indebitamente nel presente, né volevo proiettare nel passato altrettanto indebitamente modelli attuali, ma, al contrario, valorizzare presente e passato nella loro storicità, nella loro ricchezza espressiva.

 

Medioevo, modernità, pos-modernità

Alla luce di questa elementare intelaiatura metodologica, io mi prefiggevo nel libro di tentar di fissare quale fosse la cifra capace di svelarmi il volto essenziale – anche se riposto – delle tre esperienze giuridiche che avevo dinnanzi, a cominciare da quella medievale. In questa, la tipicità stava tutta nell’essere il potere politico un potere incompiuto, alieno cioè dal volersi occupare di tutto il sociale, dal volerlo interamente controllare; stava nell’assenza di un soggetto politico totalizzante come sarà – di lì a poco – lo Stato moderno. Il diritto medievale mi appariva (e tuttora mi appare) un diritto senza Stato, con la conseguenza enorme di non essere monopolizzato in alto e dall’alto controllato, bensì vincolato al magma della società, espressione delle forze plurali in essa circolanti. Un diritto, pertanto, che nasce dal basso, nasce dal mondo dei fatti e su questi si fonda; un diritto che non trova la sua fonte principale nella volontà di un Principe, ma – al contrario – squisitamente rei-centrico, dove è la res, la cosa, il mondo delle cose, il cosmo con le sue ragioni oggettive a farla da padrone. Non è la legge – la voce del titolare del potere supremo – il nerbo di questo ordine giuridico, ma l’uso, la consuetudine, la miriade di consuetudini che si sviluppano lentamente e spontaneamente in seno alla società.

Il volto tipico cambia quando si affaccia, dal Trecento in poi, un Principe, che non identificherà più la cifra essenziale del suo potere nell’essere il giustiziere supremo del suo popolo, ma nel produrre diritto, nell’essere legislatore, nello stabilire un diritto che pretende di creare; che, lentamente ma progressivamente, si occuperà di tutto il diritto, anche di quello non strettamente connesso all’esercizio del governo, consapevole della funzione cementatrice della dimensione giuridica all’interno dell’organismo politico.

È l’itinerario, che contempliamo netto e limpido nel regno di Francia, autentico laboratorio politico-giuridico della modernità, in una progressione costante che va da Filippo il Bello (ai primi del Trecento) a Napoleone I (a inizii Ottocento), quando il sovrano tenterà (riuscendoci) la codificazione di quasi tutto l’ordine giuridico. Codificazione, infatti, significa riduzione di questo in un sistema chiuso di comandi, in un testo scritto autorevole e autoritario cui si deve obbedienza. Il diritto si trasforma in un sistema coerente e armonico, chiaro e certo, ma interamente controllato dall’alto; si trasforma in un sistema di leggi, al cui centro sta la legge/madre, il Codice. Una notazione: qui “legge” non è più la lettura razionale del mondo delle cose, come imponeva al Principe medievale Tommaso d’Aquino nella sua Summa Theologica, ma è l’espressione potestativa assoluta di una volontà suprema. Al pluralismo giuridico medievale si sostituisce progressivamente quello che io chiamo credo, correttamente) assolutismo giuridico moderno, lucidamente disegnato dall’illuminismo giuridico settecentesco, realizzato dalla rivoluzione francese e dall’erede di questa, Napoleone.

Al rei-centrismo medievale si va sempre più sostituendo un soggettivismo esasperato, tanto che lo scenario giuridico è ormai dominato da due individualità, il sovrano e il soggetto abbiente. Non dimentichiamo mai, infatti, che l’età moderna viene a coincidere con la montante ascesa della classe borghese e che la stessa rivoluzione dell’Ottantanove è rivoluzione fatta da quella classe e nel suo prevalente interesse; è l’età della sostanziale alleanza tra potere politico e borghesia, traducendosi sul piano giuridico in un ferreo individualismo; e lo Stato protegge l’individuo abbiente, protegge le sue proprietà e i suoi traffici, mentre – a sua volta – il borghese si affida volentieri allo Stato che garantisce efficacemente la sua libertà economica. Insomma, per concludere sulla modernità, il paesaggio giuridico è divenuto semplice: due soggetti protagonisti, Stato e individuo; una sola fonte a livello pubblico, la legge; una sola fonte a livello privato, il contratto; un istituto centrale della comunità politica e sociale, la proprietà privata individuale, che è addirittura sacralizzata e che non è neppure sfiorata dalla tanto conclamata uguaglianza illuministico/rivoluzionaria perché di uguaglianza unicamente formale si tratta che lascia intatta la più crassa disuguaglianza delle fortune.

 

La complessità dei passaggi giuridici

 

Un simile paesaggio cambia, quando, a fine del secolo XIX, lo Stato mono-classe borghese è costretto a cedere – dietro la spinta di lotte spesso aspre e cruente – alle richieste di quel ceto proletario che non aveva fatto la rivoluzione del 1789, ma che ora reclama una propria presenza a ogni livello.

Il paesaggio giuridico da semplice si fa complesso. Comincia la riscoperta della complessità sociale e giuridica, che sarà l’impronta del Novecento e il segno che si sta lasciando la modernità e che ci si sta inoltrando in un tempo di transizione, verso nuove sponde; un tempo che stiamo ancora attualmente vivendo e che, in modo insoddisfacente e approssimativo, possiamo chiamare pos-moderno. Non più soltanto Stato e individuo, ma anche quelle formazioni sociali che la rivoluzione francese aveva cancellato con la sua falce; non più soltanto lo Stato, fino a ieri gigantizzato e idolatrato, ma la intiera società civile, realtà magmatica ma plurale; non più solo comandi autoritarii dall’alto, ma anche fatti, con una rinnovata fattualità del diritto; non più solo Codici e leggi, ma anche consuetudini e sentenze di giudici, riflessioni di scienziati/giuristi e prassi di notai e avvocati. L’assolutismo giuridico cede a un pluralismo sempre più accentuato.

Oggi si parla fittamente di crisi del diritto, ed è sbagliato. Il diritto, realtà di radici, non è mai in crisi, mentre lo sono le forme entro le quali lo abbiamo costretto nell’età moderna. Sono in crisi Stato e leggi perché incapaci di seguire e ordinare il movimento/mutamento – sociale, economico, tecnico – rapido e sconvolgente della pos-modernità: l’età della globalizzazione – la nostra – questo significa per il giurista di oggi: un pluralismo che è diventato confuso e disordinato, una complessità riottosa sul piano nazionale sovranazionale globale, che deve essere ricondotta a ordine. È l’esperienza difficile, incerta ma fertile nella quale siamo immersi.

 

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