Educazione > Capitale Umano
ARTICOLO | Tema di "Atlantide" n. 5 (2006)

Investire in educazione

L’investimento in capitale umano porta a un incremento della produttività. Sotto questo profilo l’articolo analizza i dati del Rapporto annuale (2005) dell’Ocse sulle caratteristiche dei sistemi educativi dei paesi membri.

È ormai risaputo che l’investimento in capitale umano, tradizionalmente inteso come incremento della capacità lavorativa e professionale ottenuto attraverso istruzione e formazione professionale, porta a un incremento della produttività: si stima che un aumento dell’istruzione media di un anno nei paesi Ocse possa provocare, nel lungo periodo, un incremento stabile dell’output economico del 3-6%. Il Rapporto annuale dell’Ocse sulle caratteristiche dei sistemi educativi dei paesi membri, Education at a Glance, nell’edizione 2005 segnala un generalizzato aumento delle risorse pubbliche destinate all’istruzione: in media, ogni paese Ocse destina annualmente al settore educativo il 6,1% del Pil, pari al 13% dell’intera spesa pubblica, per un investimento in formazione su ciascun singolo studente di oltre 7.000 dollari. Nel Rapporto viene evidenziato anche un costante incremento del livello di scolarizzazione della popolazione: il 78% dei giovani arriva a completare l’istruzione secondaria e il 53% di essi prosegue nell’istruzione terziaria, accademica o professionalizzante. anche la durata del periodo dedicato alla prima istruzione è in crescita; infatti, la durata prevista del percorso istruttivo per i bambini che hanno compiuto cinque anni nel 2003 è pari a 17,3 anni e arriva, dunque, a comprendere anche la frequenza di quasi tre anni di istruzione post-secondaria. Questa condizione vale in generale per tutti i paesi Ocse. Ma cosa possiamo dire specificatamente della situazione di Stati Uniti, Europa e Italia? In questa sede cercheremo di fornire alcune brevi risposte.

L'Europa e Stati Uniti a cinque anni da Lisbona 2000

L’Unione Europea, durante il vertice di Lisbona del 2000, si era prefissata di diventare «l’economia, basata sulla conoscenza, più competitiva e dinamica del mondo». A cinque anni di distanza, quali obiettivi sono stati raggiunti? Il Consiglio Europeo di Lisbona, nel marzo del 2004, ha invitato la Commissione a creare un Gruppo di Alto Livello che valutasse i passi compiuti in tal senso. Il Gruppo ha realizzato il documento Facing the challenge, presentandolo alla Commissione il 3 novembre 2004. Questo documento, unitamente al Working Paper Progress towards the Lisbon Objectives in Education and Training e al Rapporto OCSE fornisce un ampio quadro della situazione. Complessivamente la spesa statale per istruzione nell’UE è cresciuta negli ultimi anni, arrivando a toccare nel 2002 il 5,2% del PIL, quota simile a quella degli USA (5,35%). Allo stesso modo, non sembra sussistere, per quanto riguarda le scuole primarie, un sostanziale gap tra Europa e Stati Uniti. Anche il rapporto tra la spesa per studente, a livello di scuole primarie e secondarie, e il PIL pro capite è pressoché identico nell’Unione Europea e negli Usa. Per quanto riguarda la qualità dell’istruzione primaria e secondaria, le performance degli studenti europei sono pressoché uguali, se non superiori, a quelle degli studenti americani, mentre il tasso di abbandono scolare risulta più alto oltre oceano: la percentuale dei giovani dell’UE che hanno completato almeno gli studi secondari superiori è pari al 78,4% contro il 70% degli USA. La durata attesa dell’istruzione per un bambino americano di cinque anni e di circa 16,8 anni contro i 17,3 di un suo coetaneo europeo. Per quanto riguarda l’istruzione universitaria, il tasso degli studenti americani che vi accedono non è tra i più alti, pur essendo superiore al 60%, così come la quota di popolazione laureata, che risulta inferiore a quella di Paesi come Finlandia, Irlanda e Polonia. Vi è anche un altro dato significativo per gli USA: il 10% dei giovani tra i 25 e i 29 anni non studia e non lavora. Tuttavia quando si esaminano i dati sulla spesa per l’istruzione superiore si comincia a percepire la diversità americana: negli USA si spende per studente una quota due volte e mezzo superiore a quanto non avvenga nei Paesi dell’Unione Europea. Inoltre tutto il sistema, nel bene e nel male, è basato sulla competizione e sulla diversificazione. Esistono livelli di studio (Batchelor, Master, Phd) chiaramente differenziati. Ad ogni livello esistono test di ingresso per gli studenti (quale il SAT, cui si sottopongono gli studenti alla fine dell’high school) tanto più selettivi quanto più è elevato il livello dei corsi. Ad esempio, per l’ammissione agli MBA (Master in Business Administration) occorre superare il test nazionale GMAT (Graduate Management Admission Test), somministrato dall’Università di Princeton, i cui punteggi sono fortemente correlati (per circa il 50%) con i salari di lungo periodo, a significare un forte nesso con la reale riuscita nel mondo del lavoro. I Phd, tanto più meritocratici quanto più elevato è il livello qualitativo dell’università in cui si svolgono, sono i luoghi di reclutamento dei migliori: infatti, nel 2001, negli Stati Uniti è stato conseguito complessivamente il 41% dei dottorati in materie scientifiche e ingegneristiche di tutto il mondo.
I master, spesso destinati a persone che già lavorano, sono il modo privilegiato per formare lungo tutto il ciclo vitale i quadri e i dirigenti d’azienda. Non è un caso, quindi, che il 40% dei lavoratori americani (tasso eguagliato solo da piccoli Paesi, quali Svezia e Danimarca) non smetta mai di studiare e partecipi a programmi di formazione continua e che il 60% degli studenti laureati torni, nell’arco di pochi anni dall’entrata nel mondo del lavoro, a formarsi nuovamente attraverso questi mezzi. Il reclutamento dei docenti avviene sulla base del merito scientifico e con retribuzioni proporzionali alla capacità; la loro assunzione a tempo indeterminato avviene solo alla fine di una lunga e rigorosa valutazione. Non esiste il valore legale del titolo di studio, le università sono differenziate sulla base delle loro qualità e valutate pubblicamente sia sul piano didattico che scientifico: per questo quelle migliori ricevono più fondi, la maggior parte dei quali di origine privata. Le tasse sono molto elevate (mediamente quelle di iscrizione per un corso universitario di quattro anni in una istituzione privata ammontano a 20.000 dollari), così come gli aiuti agli studenti sotto forma di prestiti e borse di studio legate al rendimento (le sole borse di studio federali, circa il 10% di quelle complessive, possono arrivare a 4.000 dollari all’anno). Tale meccanismo permette di aiutare, nel miglior modo possibile, gli studenti capaci e meritevoli, evitando di “regalare” risorse a chi non vuole realmente impegnarsi (dal 1991 al 2001 gli aiuti statali basati sul merito sono quadruplicati, mentre quelli basati sul censo sono rimasti sostanzialmente invariati). La conclusione che si può trarre da questi dati è che il gap UE/USA non riguarda la scuola, bensì l’università e concerne più la qualità che la quantità: gli Stati Uniti concentrano le risorse, anche con l’ausilio dei privati, per supportare una elite di atenei e professori e per formare una minoranza meritocratica di studenti che riceve una istruzione superiore e continua, nel tempo, ad accrescere la propria formazione. Così, anche a costo di trascurare una maggioranza di atenei e studenti che rimangono a un livello più basso, ci si preoccupa di mantenere il proprio vantaggio competitivo. La logica competitiva e meritocratica può non essere condivisa, ma ha una sua profonda razionalità: il sistema universitario americano costituisce un reale investimento in capitale umano con forti ritorni, come dimostrato dagli stipendi dei neo-laureati americani che, insieme a quelli dei loro colleghi finlandesi, sono i più elevati del mondo. Inoltre, le competenze acquisite vengono meglio utilizzate: infatti, pur essendo il numero di laureati in materie scientifiche più alto nell’UE che negli USA, i ricercatori europei sono numericamente inferiori a quelli americani (per pareggiare il conto ci sarebbe bisogno di 550.000 nuovi ricercatori nel 2010, essendovene 1,26 milioni – di cui 85.000 europei - oggi negli Usa contro i 1,08 milioni dell’UE). Infine, anche a livello di equità e mobilità verticale si raggiungono risultati sorprendenti: in un recente studio1, Daniele Checchi, Andrea Ichino e Aldo Rustichini hanno dimostrato che in Italia un padre non laureato ha una probabilità del 93% di avere un figlio ugualmente non laureato, mentre negli Stati Uniti tale probabilità è pari al 79%. Quello statunitense non è però un sistema appagato dai risultati raggiunti, ma anzi un sistema in cui è scattato l’allarme per un possibile declino. Infatti, il recente rapporto del Council on Competitiveness, organismo creato dalla National Academy of Sciences, dalla National Academy of Engineering e dall’Institute of Medicine, ha lasciato intravedere possibili motivi di crisi: la concorrenza crescente di Paesi emergenti come India e Cina, le fortissime disuguaglianze esistenti tra le classi sociali e la rilevata diminuzione del rendimento degli studenti e della capacità educativa del sistema. Di fronte a questi problemi, la risposta suggerita consiste in un incremento dell’investimento in capitale umano, in particolare nell’eccellenza. Accanto a massicci e selettivi investimenti per il rilancio della ricerca, vengono chieste 10.000 borse di studio da 20.000 dollari annui per gli studenti di materie scientifiche disposti a insegnare nelle scuole primarie e secondarie, 25.000 borse di studio quadriennali per studenti undergraduate (oltre a 5.000 per quelli graduate) in scienze e ingegneria, nuovi sussidi da destinare a un centinaio tra le migliori università per la creazione di nuovi master o Phd scientifici che possano formare nuovi ricercatori, incentivi agli studenti che frequentano corsi di tipo scientifico e tecnologico nelle scuole secondarie, programmi di aggiornamento continuo per 250.000 insegnanti e finanziamenti ai programmi di formazione permanente per gli scienziati e gli ingegneri che lavorano in aziende o in università. Questo programma diventerà presto una realtà, perché questi sono i temi su cui gli Stati Uniti ritrovano la loro unità nazionale: ne è una dimostrazione l’enfasi conferita da Bush al tema dell’educazione e dell’istruzione durante il suo ultimo discorso all’Unione. Di fronte a questa forte scelta per la creazione di una minoranza meritocratica, l’UE semplicemente continua a non scegliere, così come in tanti altri campi. Il rapporto sul raggiungimento degli obiettivi fissati dalla Strategia di Lisbona nel 2000, mostra che diventare, nel 2010, la regione del mondo con il più alto investimento in capitale umano sembra ormai utopico. Il motivo principale di questo insuccesso sembra essere l’assenza di un’azione politica con obiettivi chiari e la mancata volontà di scommettere sulla libera iniziativa creativa. I diversi Stati, al di là delle dichiarazioni di principio, non sembrano aver dato molta importanza alla strategia di Lisbona, soprattutto per quanto riguarda l’università, la formazione permanente, gli interventi dei privati nell’istruzione e la selettività degli investimenti. I Paesi che si sono mossi positivamente – soprattutto quelli del nord Europa – sembrano averlo fatto per propria tradizione e capacità, mentre l’Agenda di Lisbona si presenta in modo talmente blando da non suscitare nessuna passione politica, dato che non contiene incentivi o sanzioni capaci di indurre i governi a seguirla seriamente. L’obiettivo fondamentale della Strategia di Lisbona - accrescere la competitività dell’economia europea - non ha ancora ottenuto la garanzia di un contributo comunitario adeguato, soprattutto a livello finanziario, come ha evidenziato il vicepresidente del Parlamento Europeo, Mario Mauro. L’accordo raggiunto durante il Consiglio Europeo del 15-17 dicembre 2005 sul bilancio UE 2007/2013 prevede un’allocazione complessiva di 72,12 miliardi di euro per la rubrica dedicata alla strategia di Lisbona. Sulla base di tale proposta, avanzata dalla presidenza britannica, ma già respinta dal Parlamento Europeo, esiste il forte rischio che alcuni settori prioritari per Lisbona (reti transeuropee, ricerca, competitivitá, innovazione, istruzione e formazione) possano essere penalizzati. Allo stesso modo, altri obiettivi, quali l’investimento in istruzione e ricerca, l’eliminazione di ostacoli per le PMI e il potenziale imprenditoriale, l’incremento della popolazione attiva, la garanzia dell’approvvigionamento efficiente, sicuro e sostenibile dell’energia, appaiono utopici. Per questo motivo un personaggio autorevole come Mario Monti, ex commissario a Bruxelles, ha affermato2 che la strategia di Lisbona è «un’ottima idea, ma finora di modesta efficacia», volendo sottolineare come la crescita economica e occupazionale sperata non si sia realizzata. Monti suggerisce a Bruxelles di esercitare maggiore pressione sui singoli stati per realizzare i punti dell’Agenda. In caso contrario sarebbe meglio «abbandonare l’etichetta “europea” di questa Strategia».
La mancanza di un tale tipo di scelta è in parte dovuta all’incapacità di valorizzare i “capaci e meritevoli”. Su questo punto l’Unione Europea, egemonizzata dai governi e dalla burocrazia, è agli antipodi degli Usa e ha pensato, come altre volte, di raggiungere i suoi obiettivi in modo burocratico e centralistico, senza il fondamentale coinvolgimento dei cittadini, della libera iniziativa e della sussidiarietà orizzontale. Roberto Perotti, su «Il Sole 24 Ore» di qualche tempo fa3, ha sottolineato il meccanicismo omologante con cui è stata tentata l’attuazione della Strategia di Lisbona. Per esempio, essa ha posto l’obiettivo del raggiungimento dell’occupazione femminile del 57% nel 2005; sicuramente però, per motivi culturali e sociali, i tassi di occupazione femminile desiderabili o raggiungibili a Messina e a Stoccolma sono molto diversi. Come può Bruxelles annunciare, con tanta sicurezza, il livello di impiego ottimale in società così diverse? Nel campo dell’istruzione, continua Perotti, la Commissione ha proposto «un quadro di riferimento europeo per definire le qualifiche da fornire attraverso l’istruzione permanente, le qualifiche in tecnologie dell’informazione, lingue straniere, cultura tecnologica e le qualifiche sociali e di imprenditorialità». Esattamente il contrario di ciò che è necessario per generare innovazione: infatti, la concorrenza e la diversificazione fra modelli educativi e formativi è fondamentale per individuare quelli che funzionano meglio. Inoltre, secondo un documento della Commissione, «tutti coloro che sono coinvolti in un’industria dovrebbero contribuire all’identificazione dei bisogni strategici di ricerca di quell’industria, per massimizzare le risorse esistenti». Si tratta di un esempio, fra le centinaia possibili, di un sogno tipicamente europeo: l’idea che gli investimenti possano essere ottimizzati centralizzandoli, per evitare che si disperdano in rivoli che si possono rivelare infruttuosi.

Il sistema dell’istruzione italiana e l’investimento in capitale umano

In questo quadro non confortante, qual è la situazione dell’Italia? Per quanto riguarda il livello di spesa per studente, come abbiamo già visto, nel 2002 quello italiano è, rispetto alla media OCSE, nettamente inferiore per quanto riguarda l’università e nettamente superiore per la scuola primaria e secondaria (rispettivamente 8.636 e 10.655 dollari per l’istruzione universitaria e 14.799 e 12.513 per quella primaria e secondaria), dove in generale spendiamo più degli Stati Uniti. Da questi dati possiamo concludere che in Italia spendiamo male per l’istruzione inferiore e poco per quella superiore: lo si nota anche dai risultati quantitativi e qualitativi. Per quanto riguarda la partecipazione al sistema educativo bisogna innanzitutto ricordare che lo sforzo per il cambiamento negli ultimi quarant’anni in Italia è stato enorme. Negli anni Sessanta si è ottenuta una considerevole diminuzione dell’analfabetismo, cui hanno fatto seguito negli anni Ottanta l’aumento dei diplomati e negli anni Novanta quello dei laureati. Per ciò che concerne l’abbandono scolastico, nel 1961 si registravano, rispettivamente per i primi due livelli di scuola, l’11,4% e il 12,3% di ripetenti. Oggi gli alunni ripetenti sono meno 20 Investire in educazione di Giorgio Vittadini dell’1% nella scuola elementare e circa il 6% in quella media. Tuttavia il gap rispetto agli altri Paesi sviluppati resta ancora ampio. Infatti, la percentuale di giovani tra i 18 e 24 anni con il solo diploma di scuola secondaria inferiore è stata, nel 2004, del 23,5%, contro una media europea del 15,9%. In Italia, nel 2002, solo il 71% dei giovani compresi tra i 15 e i 19 anni risultava iscritto a scuola, contro una media europea dell’81%; solamente il 42% delle persone tra i 25 e i 34 anni ha un diploma, contro il 60% nel resto dell’Unione Europea, mentre il tasso di giovani che hanno conseguito almeno il diploma di scuola secondaria superiore in Italia è pari al 69,9%, contro una media europea del 76,4%. L’abbandono degli studi senza aver conseguito alcun titolo secondario moltiplica la probabilità di non trovare un lavoro e questo spiega il motivo per cui l’Italia si colloca nel Rapporto OCSE tra i Paesi in cui è più lunga (superiore ai due anni) la durata media della ricerca di un lavoro per i giovani tra i 15 ed i 29 anni. Un’indagine campionaria del MIUR dimostra poi che la dispersione scolastica (determinata dagli alunni non frequentanti e da quelli ritiratisi senza motivo) è molto più elevata nella scuola media inferiore e negli istituti tecnici e professionali del Sud e delle Isole rispetto al Nord e mette in evidenza come il disagio scolastico si concentri soprattutto in alcuni tipi di scuola. Le stesse forti differenze territoriali si notano anche a livello di qualità degli studi. Se si considerano le performance degli studenti in matematica, il Nord-Italia ha un punteggio superiore alla media OCSE (510 contro 500), mentre il Centro e le Isole hanno risultati scadenti (rispettivamente 470 e 425). Mediocre è anche il livello della formazione permanente: in Italia solo il 4,7% della popolazione di età compresa tra i 25 e i 64 anni partecipa ad attività di formazione, contro una media europea del 9,4%. Il nostro Paese si trova anche agli ultimissimi posti tra i Paesi OCSE per quanto riguarda i programmi finanziati dalle imprese. La nostra classe docente ha la seconda più alta età media d’Europa: nel 2003 il 47,8% degli insegnanti italiani aveva più di 50 anni, mentre la media europea era del 30,2%. È però a livello di università che il ritardo dell’Italia appare più evidente. Il nostro sistema è diametralmente opposto a quello americano: finanziamenti scarsi ed erogati a pioggia con tasse basse e borse di studio esigue (da notare l’assenza dei prestiti agli studenti e il 15% della spesa per l’istruzione destinata alle borse di studio, contro una media OCSE del 17%), nessuna differenziazione qualitativa per i finanziamenti, pressoché totale assenza di fondi privati, proliferazione di piccole università e di corsi di laurea senza la minima attenzione al livello qualitativo, disattenzione qualitativa verso dottorati e master con conseguente marginale attenzione alla formazione permanente della classe dirigente e intellettuale (solo il 9,1% dei laureati italiani partecipa a un corso professionale della durata di un mese, a fronte di una media UE del 18,1%), fuga degli studenti dalle facoltà scientifiche, mancanza di criteri razionali per l’iscrizione degli studenti all’università, concorsi per i docenti condotti per molti anni su base locale (e, di conseguenza, non sempre legati alla qualità reale dei candidati), precoce accesso ai contratti a tempo indeterminato, mancanza di sistemi di valutazione universali condivisi (solo adesso si sta cominciando a farlo con la ricerca del CIVR), stipendi inadeguati e fuori mercato per i docenti. Non è quindi un caso che, per il nostro sistema scolastico, i ritorni siano scarsi. Infatti, nonostante il nostro Paese abbia una tradizione universitaria di tutto rispetto, molti laureati italiani decidono di frequentare master e Phd all’estero, riuscendo spesso a intraprendere con successo carriere accademiche e scientifiche. Questa situazione determina un tasso italiano di ritorno dell’investimento in istruzione superiore post-secondaria, in termini di salari lungo il ciclo vitale, inferiore all’8% per i maschi e leggermente superiore per le femmine, a fronte rispettivamente di un 15% e di un 12% per gli Usa e di un 5% e di un 12% per la Francia.

Alcuni suggerimenti

Si può cominciare ad ipotizzare, almeno per il nostro Paese, che il sistema di istruzione formale, pur avendo conseguito nei decenni passati risultati molto importanti nella generalizzazione dell’accesso, non sia stato però capace di rispondere adeguatamente alla sfida dell’istruzione di massa e di qualità, irrigidendo il fenomeno educativo in procedure standardizzate di trasmissione di contenuti, attraverso un’offerta particolarmente uniforme. Come è potuto avvenire tutto questo, dato che le risorse investite sono via via aumentate? Semplicemente perché una quantità crescente di investimenti nei sistemi di istruzione e formazione non è sufficiente a incrementare il capitale umano. Il premio Nobel Heckman in uno studio condotto sui dati OCSE-PISA del 2000, ha infatti dimostrato, che la correlazione tra la spesa in istruzione e l’incremento di capitale umano (come riferimento è stata presa la competenza nella lettura) è molto bassa: il coefficiente è pari a -0,09. Alcuni Paesi hanno ottenuto risultati eccellenti, pur avendo sistemi educativi meno costosi, classi più numerose ed un numero di ore di insegnamento inferiore. Riguardo quest’ultimo dato, l’Italia si è classificata prima tra i Paesi OCSE, con una durata dei curricula, tra i 7 e i 14 anni, superiore a 8.000 ore, contro una media OCSE di 6.800. Per recuperare efficienza nell’investimento di risorse nel sistema educativo, e per incrementare conseguentemente l’efficacia dell’investimento in capitale umano, occorre, quindi, riconsiderare i processi di istruzione e formazione secondo una prospettiva che non sia soltanto quantitativa. Di seguito vengono riportati alcuni suggerimenti mirati a tale scopo:

Verso il “lifelong learning”

Conseguentemente a quanto detto finora, un percorso formativo basato su una quantità eccessiva di ore e uguale per tutti è ormai superato: occorre, invece, che l’istruzione sia distribuita lungo tutto il ciclo vitale (lifelong learning).

Meritocrazia e diritto allo studio

I dati PISA dimostrano che i risultati degli studenti migliorano quando il sistema scolastico è serio e qualificato fino al punto di dotarsi di esami seri e centralizzati. Nel nostro Paese si è scelto invece di abolire progressivamente qualsiasi criterio meritocratico. Questo ha determinato la diminuzione della qualità e la penalizzazione delle fasce deboli e delle zone meno sviluppate del Paese, cui si accennava nei precedenti paragrafi. Occorre dunque affermare che la scuola, anche grazie a un rilancio deciso della politica di diritto e di aiuto allo studio, diventi capace di valorizzare i meritevoli, anche se privi di mezzi, contribuendo a un generale miglioramento qualitativo e a un incremento netto della mobilità sociale verticale. In questa prospettiva, è prioritario sviluppare compiutamente il Servizio nazionale di valutazione esterna e di autovalutazione, garantendo l’indipendenza dal Ministero dell’Istituto nazionale di valutazione del sistema di istruzione e formazione professionale (Invalsi).

Autonomia e libertà di educazione

I dati OCSE-PISA dimostrano che la qualità delle scuole cresce in funzione della loro autonomia riguardo alla determinazione dei programmi, all’allocazione delle risorse e agli stipendi da attribuire agli insegnanti. Occorre che nella ridefinizione, ancora necessaria, dei curricula si lasci larga autonomia ai singoli istituti nell’integrazione della proposta formativa, nella possibilità di gestire risorse economiche, nel reclutamento del personale, compreso quello docente, con concorsi a livello di istituto, come del resto è reso possibile dall’art.5 della legge 534. Perché tale autonomia non diventi la “dittatura di una maggioranza” (o dei presidi), occorre anche rispettare la libertà d’insegnamento delle minoranze culturali, come prevede il Regolamento dell’Autonomia5, e che gli organi di governo degli istituti valorizzino e rispettino tutte le loro componenti.

Formazione professionale

Dopo lo smantellamento dei vecchi istituti tecnici, è stata sempre più trascurata la valenza educativa del “fare”, a tutto vantaggio della modalità educativa “tradizionale”, ovvero quella teorico-formale. Questo ha portato a una progressiva “licealizzazione” dell’intera istruzione secondaria, che, insieme a quella rigidità e a quella uniformità sopra richiamate, ha causato l’abbandono degli studi da parte di tanti alunni. Se non si prevedono alternative serie, chi ha capacità spiccate nell’apprendere in modo eccellente un “mestiere” viene penalizzato. Occorre, quindi, potenziare la possibilità, introdotta dalla legge 53/2003 (la cosiddetta “riforma Moratti”), di assolvere l’obbligo scolastico attraverso la formazione professionale, e quella di passare dal sistema scolastico a quello professionale, rilanciando, allo stesso tempo, l’istruzione tecnica superiore non universitaria, oggi quasi assente nel nostro Paese.

Sistema paritario

Il premio Nobel Gary Becker ha dichiarato: «Sono favorevole a un sistema di voucher che consenta alle famiglie di scegliere tra scuola privata e pubblica. Credo, anzi, che questo tipo di concorrenza aumenterebbe, e non diminuirebbe, la qualità delle scuole pubbliche, perché le costringerebbe a migliorare per attrarre più studenti».6 Occorre perciò riconoscere e sostenere il servizio pubblico svolto dalle scuole paritarie non costringendole a uniformarsi a un modello statale, ma riconoscendo loro la possibilità di libere sperimentazioni di percorsi educativi e didattici che migliorino la qualità complessiva del sistema7. È necessario garantire a tutti i cittadini la possibilità di accedere a tali scuole, indipendentemente dal censo, rendendo effettiva la libertà di scelta delle famiglie. A questo scopo chi sceglie le scuole paritarie deve poter recuperare almeno parte delle tasse scolastiche, attraverso voucher, deduzioni e detrazioni fiscali.

Valorizzazione della professionalità dell’insegnante

Gli effetti positivi che una classe docente più esperta può portare in termini di maggiore esperienza e professionalità sono oggi fortemente compromessi da un sistema che non incentiva il miglioramento e l’acquisizione di nuove competenze durante la vita professionale, che appiattisce le retribuzioni e impone carriere con scatti burocratici non legati al merito. Occorre riconoscere la specificità del corpo docente rispetto agli altri settori del comparto scuola, legando carriera e stipendi al miglioramento della professionalità, rivedendo i meccanismi burocratici e centralistici di reclutamento, riconoscendo il ruolo delle associazioni professionali soprattutto nell’ambito della formazione permanente8.
 

Riqualificazione degli studi superiori

Occorre riqualificare la spesa in istruzione, allocando fondi maggiori verso l’università, imitando l’esempio americano nella ricerca della qualità e della valutazione delle istituzioni, nell’incentivazione dei capaci e meritevoli ancorché privi di mezzi, nel supporto agli studi scientifici, nell’incremento della formazione dei ricercatori di alto livello (dottorati) e della formazione permanente lungo il ciclo vitale (master). Inoltre, come sostenuto da Giancarlo Cesana, per riformare l’università occorre che essa si apra alla concorrenza, intesa come “correre insieme”, cercando una collaborazione che renda possibile il riconoscimento delle università e delle lauree migliori.

Il valore dell’educazione

Il segnale più preoccupante che proviene dalle indagini PISA riguarda la diffusa assenza di motivazione dei quindicenni rispetto all’investimento del proprio tempo e delle proprie energie nell’istruzione: da un questionario distribuito a margine delle prove del 2000, infatti, emerge che ben il 38% degli studenti ritiene la scuola «un luogo dove non si ha voglia di andare»; se un numero così elevato di ragazzi quindicenni esprime questa disaffezione per le istituzioni dell’istruzione formale, occorre interrogarsi sull’attrattività dei percorsi formativi offerti e sulla loro corrispondenza con gli interessi degli studenti. Tale riflessione è tanto più urgente se si considera che una delle cause più importanti della dispersione scolastica in Italia è costituita dall’assenza di motivazioni e di interesse da parte degli studenti. Si aggiunga un altro dato: i risultati ottenuti nella capacità di risoluzione di problemi sono stati inferiori, sia pure di poco, a quelli ottenuti nelle competenze matematiche; ciò potrebbe segnalare una difficoltà da parte dell’istruzione formale nel fornire ai giovani una serie di abilità sociali (capacità di ascoltare, di comunicare, di controllare, di pianificare, di organizzare, di lavorare in gruppo, di sapersi adattare) che sono col passare del tempo diventate indispensabili. Cosa suggeriscono questi risultati confortati da un’evidenza empirica da tutti constatabile? É sempre più evidente nelle scuole la mancanza di qualcuno che sappia comunicare, a partire da una tradizione viva, il sapere unito a una vibrante esperienza ideale; il mondo del lavoro e della produzione, non ha bisogno di robot, ma di uomini capaci di ragionare, di rischiare, dotati di gratuità e passione per quello che fanno. Occorre che l’istituzione scolastica ospiti chi sa non solo istruire, ma anche educare, cioè «introdurre alla realtà totale», secondo la definizione di J. A. Jungmann, ripresa da Monsignor Luigi Giussani. L’istituzione scolastica ha sì lo scopo di istruire, ma in essa deve anche poter avvenire l’incontro con maestri che, nell’alveo di movimenti ideali, collaborando con i genitori, possano educare in un contesto di libertà di insegnamento. Occorre che noi tutti recuperiamo con urgenza questo orizzonte, sottolineato anche dal recente Appello per l’Educazione, firmato da numerose personalità del mondo della politica e della cultura, perché dall’educazione dipende non soltanto la ripresa economica, ma innanzitutto il nostro futuro.

Note
1 D. Checchi, A. Ichino, A. Rustichini, More equal but less mobile? Intergenerational mobility and inequality in Italy and in the US, «Journal of Public Economics» 1999, n. 74, pp. 331-352. 2 M. Monti, Lisbona è più importante, «Il Sole 24 Ore», 23 marzo 2005. 3 R. Perotti, Dimenticare Lisbona, «Il Sole 24 Ore», 26 marzo 2005. 4 A questo proposito, cfr. «Il Sole 24 Ore» del 18/03/2001. 5 DPR 275/99 “Regolamento recante norme in materia di Autonomia delle istituzioni scolastiche ai sensi dell’art.21 della legge 15 marzo 1999, n.59”, art.3, comma 2 : «Il Piano dell’offerta formativa comprende e riconosce le diverse opzioni metodologiche, anche di gruppi minoritari, e valorizza le corrispondenti professionalità». 6 Conferenza pubblica sul tema Capitale umano mercato e innovazione, Milano, Giugno 1998. 7 Associazione Diesse-Didattica e innovazione scolastica: Tre idee per la prossima legislatura, febbraio 2006. 8 Ibid.
 

Bibliografia
OECD, Learning for Tomorrow’s World - First Results from PISA 2003, OECD Publishing, Paris, 2004. European Commission, Progress towards the Lisbon Objectives in Education and Training, Directorate General for Education and Culture, Bruxelles 2005. The National Academies, Rising Above the Gathering Storm: Energizing and Employing America for a Brighter Economic Future, National Academies Press, Washington 2006. OECD, Education at a Glance: OECD Indicators - 2005 Edition, OECD Publishing, Paris 2005.

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GIU 2011 | Philip Booth

L’educazione concerne lo sviluppo dell’intera persona umana in accordo con la verità. Come è ribadito nella Caritas in veritate: «Con il termine ‘educazione’ non ci si riferisce solo all’istruzione o alla formazione al lavoro, entrambe cause importanti di sviluppo, ma alla formazione completa della persona» (61).


ARTICOLO | Primo Piano di "Atlantide" n. 19 (2010)

Autonoma, responsabile e diversificata

MAR 2010 | TOMMASO AGASISTI, GIORGIO VITTADINI

L’evidenza, dal dopoguerra in avanti, mostra come lo sviluppo dell’istruzione terziaria e della ricerca sia strettamente legato non solo alla cultura di un Paese, ma anche al suo tasso di crescita e di sviluppo


RICERCA | Rapporto sulla Sussidiarietà 2006/2007

Sussidiarietà e... educazione

2007 | A CURA DI FONDAZIONE PER LA SUSSIDIARIETA'

Una forte percentuale di italiani è ancora a favore di un sistema di istruzione "statalista" e "centralista". Ma una netta maggioranza vuole un cambiamento, verso un modello più libero e flessibile.


Tema Atlantide 5 . 2006 . 1

Libertà di educazione: un diritto fondamentale

MAR 2006 | Luca Antonini e altri 1

Lo scorso 17 gennaio, Mary Ann Glendon è stata relatrice al convegno Virtù e Torti del diritto nelle società post moderne, organizzato dall’Università di Padova e Treviso, assieme alla Fondazione Novae Terrae e alla Fondazione per la Sussidiarietà. Mary Ann Glendon è uno dei più illustri accademici degli Stati Uniti, insegna Constitutional Law ad Harvard, ed è Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.

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