Stato e Chiesa. Quale laicità in Europa

  • GIU 2010
  • Péter Erdö
La Rivista

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Venti anni dopo il crollo del Muro di Berlino giova ripensare alla situazione della nostra religione e dei credenti in un’Europa in cui si parla molto di laicità

 

. L’Europa è un continente complicato, dalle mille facce, con diversi popoli e diverse eredità culturali, diverse sensibilità, diverse posizioni sociali della religione in generale e della Chiesa cattolica nei singoli Paesi. Riflettendo sulla situazione attuale, tenendo presenti gli elementi culturali e sociologici, possiamo identificare alcune realtà, e forse alcune possibilità, di ulteriore sviluppo riguardo al rapporto tra Chiesa e Stati nel nostro vecchio continente.

La Situazione

La parola laicità è molto comune nei Paesi di tradizione latina e cattolica: Italia, Francia, Spagna e Portogallo. Essa è storicamente collegata con un processo di secolarizzazione della politica avvenuto in questi Paesi durante l’epoca moderna. Come tutti sappiamo, questa storia fu contrassegnata da aspri conflitti e da fenomeni anche violenti, le cui vittime erano spesso non soltanto i portatori delle antiche strutture politiche, ma anche la gente semplice, tra cui molti credenti. Oggi comunque, in tutti questi Paesi, vige un sistema di netta separazione tra Stato e Chiesa, la cosiddetta “laicità dello Stato”.

In un’altra regione del continente, precisamente nel Nord-Europa, dove la religione di Stato durante l’epoca moderna era qualche forma del protestantesimo, la separazione non si è manifestata in forma tanto violenta, ma il processo di secolarizzazione è stato comunque continuo, e ha condotto all’esaurimento delle istituzioni e dei legami religiosi. Le forme istituzionali religiose non sono state rifiutate in modo radicale, ma, con la secolarizzazione della società, pur conservando alcuni simboli religiosi, o magari, anche un ruolo istituzionale interno a qualche comunità religiosa – come nel caso della Chiesa di Inghilterra –, è stata permessa sempre di più anche la libertà delle altre religioni, e il funzionamento pienamente secolare delle istituzioni pubbliche.

La differenza tra i due sistemi si vede tra l’altro nella posizione delle facoltà di teologia nei diversi Paesi. Nei Paesi di tipo latino le università statali non hanno una facoltà di teologia confessionale, proprio per la loro forma di separazione tra Stato e Chiesa. In altri Paesi, come per esempio in Germania, il diritto costituzionale non esclude per niente l’esistenza di facoltà teologiche confessionali presso le università di Stato. Naturalmente, nessuno dei modelli può essere considerato quello ideale, e sembra chiaro che le differenze non sono soltanto filosofiche e giuridiche, ma si radicano nelle diverse tradizioni della cultura generale.

Un terzo gruppo dei Paesi europei è rappresentato dai cosiddetti “Paesi dell’Est”. In questi Paesi la lunga oppressione comunista ha separato in modo brutale la religione dallo Stato. Ufficialmente non si annunciava la neutralità dello Stato, ma piuttosto il suo collegamento istituzionale con l’ideologia marxista-leninista, chiamata visione scientifica del mondo, oppure socialismo scientifico, oppure materialismo dialettico e storico. In realtà, tale ideologia aveva pienamente il ruolo di una religione di Stato, fino al punto che in alcuni Paesi la stessa costituzione dichiarava che «la forza guida della società è il partito marxista-leninista della classe operaia». Ciò significava che quelli che non si professavano marxisti-leninisti, avevano meno diritto di partecipare alla direzione della società. Vent’anni dopo il crollo di questo sistema i popoli dei Paesi ex-comunisti hanno attraversato uno sviluppo istituzionale, sociologico e ideologico. La prima novità in questo contesto è stata la libertà di religione, espressa in diverse leggi più o meno fondamentali in questi Paesi.

L’emancipazione delle persone e delle comunità religiose ha provocato una certa rinascita istituzionale, ma anche effettiva nella religiosità della gente. Tale fenomeno si collocava nel contesto di una grande incertezza e di un crollo generale delle vecchie strutture. All’inizio degli anni Novanta non mancavano degli opportunisti che persino pensavano che la religione – quella più diffusa nel loro Paese – sarebbe stata la nuova ideologia ufficiale, come era prima il marxismo-leninismo. Ma tale imposizione non era né la volontà politica dei governanti di questi Paesi, né la vera pretesa e il vero desiderio delle Chiese cristiane

La Chiesa cattolica, da parte sua, aveva attraversato il periodo del rinnovamento conciliare, aveva precisato, particolarmente nella dichiarazione Dignitatis humanae, il vero senso cattolico della libertà religiosa, e cominciava ad affrontare la sfida del secolarismo con questo atteggiamento. Da parte cattolica, quindi, malgrado alcune nostalgie storiche, provenienti generalmente non dalla Chiesa stessa, ma piuttosto da altri gruppi della società, non ci fu nemmeno un tentativo di ottenere una posizione di religione di Stato.

Nei Paesi di tradizione ortodossa, parallelamente al risveglio di queste Chiese, si poté osservare anche una notevole riservatezza da parte degli organi statali, riguardo a un collegamento completo e ufficiale tra Stato e Chiese nazionali. Occorre notare che, specialmente in Russia, la distruzione della religione e la secolarizzazione erano talmente profonde che un tale collegamento, indipendentemente dalle intenzioni, non sembrava nemmeno troppo realistico

In questi ultimi Paesi del Centro-Est europeo, esistevano anche altri fatti culturali più o meno oppressi durante l’epoca comunista. L’elemento etnico o nazionale era uno di questi. Dopo il crollo del sistema si manifestarono più liberamente anche questi elementi di identità. Tale svolta era stata poco preparata anche dal punto di vista psicologico. Perciò scoppiarono conflitti nazionali ed etnici, come nel Caucaso, nei Paesi Baltici, nella ex-Iugoslavia, e, in una forma meno violenta, anche altrove nella regione. Tutto ciò fu confermato dalla nascita o rinascita di molti Stati nazionali che ottennero la loro sovranità dopo il crollo di Stati federali comunisti. Tale fenomeno nazionale si collegava in alcune parti con elementi religiosi, essendo stata la religione una parte integrante della cultura specifica delle diverse nazioni. Altri elementi specifici di queste culture spesso non potevano svilupparsi sufficientemente per la pressione dell’internazionalismo comunista. 
 

Tradizioni “imperiali” nel continente

L’Europa conosce diversi modelli di rapporti tra Stato e Chiesa. Ma conosce anche diversi tipi di Stato. Oggi il modello prevalente è ancora lo Stato nazionale, prodotto tipico dell’epoca moderna. Ma costituisce una realtà fondamentale dell’Europa di oggi la presenza dell’Unione Europea che comprende una moltitudine di Stati nazionali, e che sembra influire notevolmente sulla vita interna degli Stati membri e anche dei cittadini.

Stati grandi con la massima varietà di popoli, di regioni geograficamente ben diverse con profonde differenze economiche, linguistiche, culturali e religiose hanno contrassegnato per lunghe epoche la storia del nostro continente. Negli ultimi duemila anni i periodi senza grandi imperi in Europa sembra che siano stati molto più brevi di quelli che stavano nel segno di tali imperi.

Cronologicamente possiamo cominciare con l’Impero Persiano, il quale sin dall’epoca di Dario I (522-486 a.C.) comprendeva anche Tracia e Macedonia, e quindi, quella terra che oggi si considera europea. Come ben noto, l’Impero Persiano all’epoca della sua fioritura rappresentava uno Stato governato secondo princìpi quasi moderni. In esso i diversi popoli avevano una notevole libertà di espressione della loro cultura e della loro religione, anzi rispetto al fatto culturale e religioso, avevano anche una cospicua autonomia giuridica per organizzare la vita secondo le proprie tradizioni. Questa situazione ha la sua precipitazione classica in diversi libri dell’Antico Testamento.

L’Impero Romano, da parte sua, era portatore di una coscienza di missione storica del popolo romano, ma incorporava nella sua struttura organizzativa elementi dell’eredità delle monarchie universali ellenistiche. Già Cicerone identifica l’Imperium Romanum con l’Orbis Terrarum1 . I tentativi di introdurre una concezione assolutistica dell’Impero furono ripetutamente sconfitti.

Lo spazio notevole per l’autogoverno politico e culturale delle città nei primi due secoli dopo Cristo cedeva il suo posto gradualmente alle forme aperte della monarchia militare nel terzo secolo. Da Diocleziano in poi si verificò una tendenza al decentramento del potere che produsse la tetrarchia, ma non nel senso del riconoscimento delle proprietà culturali ed economiche dei diversi popoli e delle diverse regioni. Nella tarda antichità era così pesante la pressione tributaria che la lealtà dei sudditi cominciava a vacillare già per questo motivo. Problema che accompagnò poi anche la storia bizantina.

All’alba del Medioevo nacquero degli Stati posti sotto il potere di diversi popoli chiamati barbari, come il regno visigoto e quello dei franchi. In queste forme di Stato era un fenomeno fondamentale la duplicità della popolazione, cioè, il gran numero degli abitanti aventi cultura romana da una parte, e dall’altra parte, le comunità germaniche dalle quali proveniva la classe dirigente. Tale duplicità culturale condusse diversi re a promulgare varie leggi, diversi codici per le varie comunità viventi nello stesso Stato. Così il re Alarico II (506) promulgò la famosa Lex Romana Visigothorum per gli abitanti del suo regno che vivevano secondo la legge romana, mentre per altri esisteva la Lex Visigothorum (Codex Euricianus). Analogamente nella Borgogna stavano uno accanto all’altro il diritto germanico e la Lex Romana Burgundionum. I diritti popolari o tribali seguivano il principio personale e perciò, in quei Paesi, anche le collezioni del diritto romano riguardavano soltanto un gruppo di persone, e quindi rivestivano un carattere personale. Per non parlare degli ecclesiastici, i quali erano considerati come un gruppo che – in determinate relazioni rilevanti per la vita civile – seguiva il diritto romano (Ecclesia vivit lege romana).

Anche nell’Impero Romano-Germanico, chiamato in certi periodi Sacro Romano Impero della nazione tedesca, sopravvisse la pluralità dei diritti popolari e tribali anche nelle raccolte di diritto consuetudinario come erano il Sachsenspiegel o lo Schwabenspiegel. Dal risveglio della conoscenza del diritto romano, dalla fine del XI e poi dal XII secolo, i testi del diritto romano giustinianeo cominciarono a influenzare gli alti livelli della vita giuridica, a partire dall’insegnamento universitario. Sebbene questo diritto sia stato rispettato soprattutto come ratio scripta, e non tanto come diritto pienamente vigente in tutte le relazioni della vita sociale, esso ha influenzato lo sviluppo del diritto europeo, e ha avuto in molte parti del continente la funzione di diritto sussidiario che aiutava a colmare le lacune delle leggi.

Fu nel tardo Medioevo che anche il diritto canonico, sviluppato in base alle antichissime tradizioni anch’esso nel quadro dell’insegnamento universitario, cominciò a formare una certa unità culturale e teorica ma anche effettiva, per esempio nei dettagli del processo giudiziario o dei princìpi generali, con il diritto romano, dando origine allo ius commune. Tale diritto teorico ed elevato potè collegare le proprie legislazioni e le tradizioni dei singoli Paesi e dei divesi popoli dell’Occidente, non sopprimendo quello che era specifico, ma offrendo un linguaggio comune.

Altri imperi che dovettero affrontare la pluralità dei popoli e delle culture nel loro seno furono, per esempio, l’Impero Spagnolo e quello Asburgico, i quali, non sempre per la grande tolleranza teorica, ma sicuramente per la realtà dei fatti, rispettarono non di rado l’autonomia giuridica di diversi popoli e diverse entità statali o regionali. Con la crescita dell’autocoscienza nazionale nell’epoca moderna però, quel margine di autonomia che era stato rispettato, non risultava più sufficiente per soddisfare le pretese nazionali.

Un’altra logica morfologicamente più antica vigeva nell’Impero Ottomano, in cui i diversi popoli o le diverse comunità etnico-religiose godevano di grande autonomia anche giuridica e dove queste comunità portavano il nome di millet. Quanto ai cristiani, va precisato che ancora all’inizio del XX secolo, circa il 35% dell’intera popolazione era di religione cristiana. Riguardo alla funzione del Patriarca di Costantinopoli all’interno di quell’organizzazione imperiale, si ricorda la drammatica uscita solenne del Patriarca con il suo clero nel campo dell’imperatore Maometto II (Mohammed al Fatich, 1444-1446; 1451-1481), nell’anno storico 1453.

Il Sultano accettò l’atto di sottomissione del Patriarca, anzi lo riconobbe come capo dei cristiani del suo impero. Così accadeva che nel XVI e XVII secolo persino i prinStato e Chiesa. Quale laicità in Europa Atlantide 02-2010 def:Layout 1 29-07-2010 12:01 Pagina 30 31 cipi protestanti della Transilvania, che in quell’epoca dipendeva come vassallo dall’Impero Ottomano, dovessero recarsi a Costantinopoli e ottenere il consenso del Patriarca, prima di chiedere il riconoscimento dell’imperatore turco.

Un capitolo meno remoto è costituito dall’esempio dell’Impero Sovietico, Stato federale composto da molte repubbliche, il quale aveva però anche una serie di altri Stati un po’ meno strettamente dipendenti, ma legati a sé nel quadro del COMECON (Consiglio di Mutua Assistenza Economica) e del Patto di Varsavia. La possibilità dei popoli e gruppi di conservare la propria lingua, cultura e religione fu diversa nei diversi periodi della storia sovietica, e differente nei diversi stati satelliti. Cittadini ungheresi negli anni Settanta guardavano per esempio con grande ammirazione i molti ordini religiosi esistenti legalmente in Polonia.

Anche se la religione costituiva durante la storia un elemento determinante dell’identità etnica dei diversi popoli, nel quadro dei diversi imperi, nella storia si osserva una lunga serie di modalità di trattare questo fenomeno. Trattarlo, per esempio, in modi anche giuridicamente diversi, a seconda delle diversità dei popoli, dei Paesi, delle regioni autonome, delle tradizioni culturali, riconosciute in settori identificabili secondo criteri territoriali e personali. Nello specchio della storia, quindi, un elemento tipico e molto europeo dei rapporti tra Stato e Chiesa sembra essere proprio la diversità.

Gli elementi basilari di una comune visione del mondo

Prescindendo dalla stragrande diversità nella storia, dobbiamo osservare anche un altro fatto più o meno costante. In grandi imperi o in larghe e organizzate comunità di popoli, si dimostrava sempre necessario un denominatore comune riguardo alla visione del mondo. Tale denominatore comune poteva essere in alcuni imperi la personalità sacralizzata del sovrano, oppure, insieme con essa, il culto di alcuni dei comuni. Se un popolo, una religione, rifiutava questo elemento di culto della comunità, poteva esporsi a violente persecuzioni. Tale situazione è fin troppo conosciuta dalla storia della Chiesa.

Eppure, lo ius gentium era rispettato già all’epoca romana. Alcuni principi cristiani erano accettati in tutti i Paesi dell’Europa medievale fino al punto che si poteva parlare di res publica christiana. Il Cardinale Nicola da Cusa poteva scrivere con altri teorici della società della sua epoca che l’impero è il corpo, ma la Chiesa è lo spirito della res publica christiana. Non soltanto alcuni principi della fede quindi, ma la Chiesa come tale e il suo diritto erano tra questi elementi di unione della comunità medievale delle nazioni europee.

Nell’epoca moderna poi, cominciò a ricevere nuovi accenti il diritto naturale, interpretato comunque partendo dalla tradizione cristiana, per sfociare poi, all’epoca dell’illuminismo, nei diritti umani classici. Se oggi il contenuto e le basi dei diritti umani cominciano a perdere i loro chiari contorni, se assistiamo alla nascita di diritti umani di terza e quarta generazione i quali però cominciano ad avere la loro legittimazione nella sola maggioranza numerica e formale, allora è giustificata la preoccupazione per le basi comuni, a livello di visione del mondo, della comunità dei popoli europei.

Sorge la domanda tecnica della gestione della libertà e della pluralità. La pluralità non può comprendere senz’altro qualsiasi atteggiamento di violenza o di terrore, la libertà, come vediamo in questi tempi di crisi, può causare la distruzione dei più deboli, e può aprire la strada alle ingiustizie più gravi, se non viene regolata dal principio del bene comune. Ma per identificare un bene comune ci vogliono principi comuni antropologici. Ci vuole qualche visione comune su che cosa è buono per l’essere umano. E oltre a questo, ci vuole anche una autorità non sprovvista di forza che possa far valere le esigenze del bene comune. La dottrina sociale della Chiesa, arricchita recentemente dall’enciclica Caritas in veritate, è sempre attuale. Il dilemma del liberalismo classico dell’inizio del XX secolo è ritornato in dimensioni globali. Il mondo, il nostro vecchio continente specialmente, dovrebbe imparare dalle esperienze dell’ultimo secolo.

Una ribellione volontarista e violenta contro i problemi dell’egoismo sfrenato nell’economia può avere facilmente per effetto dittature sanguinose che risultano poi tentativi falliti di soluzione di un problema destinato a ritornare. Ma quanti milioni di vite umane sono il prezzo di questi tentativi! Non rimane dunque altra strada che quella della ricerca paziente e generosa delle forme regolate dal diritto e fedeli ai principi di sussidiarietà e di solidarietà che realizzano il bene comune, impegnandosi – come dice Benedetto XVI – «alla realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai valori della carità nella verità»2

La visione del mondo e quella dell’essere umano non dev’essere opera degli Stati, né delle autorità politiche. Nel senso di una giusta sussidiarietà, la visione del mondo costituisce un fatto personale, ma anche comunitario, trasmesso e condiviso da altre persone, da diversi gruppi, o anche dall’intera società. Le comunità religiose sono portatori eminenti della visione comunitaria del mondo. Quindi, la sana laicità dello Stato significa proprio che le autorità statali e politiche, anche quelle internazionali o continentali, non possono pretendere di definire la visione del mondo dei cittadini, ma devono fare riferimento agli elementi portatori di questi valori della società, nel quadro di una chiara sussidiarietà.

Ma è possibile arrivare in base a questa visione del mondo a un denominatore comune che possa offrire il minimo necessario per la coesistenza e la collaborazione delle persone e dei popoli? Secondo la convinzione cristiana, tutti gli uomini possono conoscere le verità essenziali su Dio attraverso la realtà creata. Già il Libro della Sapienza domanda circa i pagani: «Se sono riusciti a conoscere tanto da poter esplorare il mondo, come mai non ne hanno trovato più facilmente il sovrano?» (Sap 13,9). San Paolo invece, scrive nella Lettera ai Romani, sulla conoscenza di Dio: «Infatti, le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo, attraverso le opere da lui compiute» (Rom 1,20).

Crediamo quindi nella forza conoscitiva umana anche riguardo ai principi fondamentali della vita. Questa è la base anche della morale rivelata. La grazia, anche in questo ambito, presuppone la natura. La condizione di una sinfonia riguardo ai principi fondamentali della moralità nei diversi Stati è quindi, la conoscenza e il riconoscimento – aperto anch’esso verso il progresso delle ricerche e del ragionamento – della piena realtà delle cose oggettivamente esistenti. La verità, quindi, ci libera anche riguardo alla vita sociale. Così si delinea la possibilità di un equilibrio tra una “sana” laicità dello Stato, basata sulla sussidiarietà, nelle questioni della visione del mondo, e la possibilità di un consenso largo circa diversi principi fondamentali.

Conclusione

Proprio questa ricerca di equilibrio può essere un compito storico della nostra Europa multiculturale. E in questo contesto, i cristiani del continente che vent’anni or sono ha ritrovato molti valori della propria unità, sono chiamati a rendere testimonianza della piena verità di Cristo, della nostra speranza che vuol aprirsi a tutti e che invita tutti a una comune riflessione. Nuova evangelizzazione quindi, nel contesto della pluralità, del mutuo rispetto, e soprattutto, dell’apertura ecumenica, la quale deve rendere più forte la voce del Vangelo con la comune testimonianza e che deve essere una palestra del dialogo che ci prepara anche al dialogo con le altre religioni e con i non credenti nello spirito della carità e nella verità.

1 Cicero pro Murena 22.
2 Enciclica Caritas in veritate, 29 giugno 2009, n. 67. Discorso tenuto all’Assemblea Plenaria del CCEE (Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa). Parigi, Maison de la Conference des évêques de France, ottobre 2009.

 

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