L’Unione europea in bilico

Oggi, un’Europa “sospesa” L’Unione europea in cui viviamo e che abbiamo sotto gli occhi, l’Europa in fieri, ossia l’Europa che vorrebbe che il suo attuale e incerto “divenire” alla fine approdasse a una realtà politico-istituzionale chiara e stabile, quanto prefigurano e anticipano dell’”Europa che verrà”?

 

Come tutte le risposte che intendono formulare previsioni su ciò che accadrà in un domani più o meno distante dall’oggi, anche la risposta a questo interrogativo – per non restare intrappolata nelle propensioni all’ottimismo, piuttosto che al pessimismo, di chi risponde – necessariamente richiede una premessa in cui cercare di capire perché l’Europa dell’incombente futuro assomigli a un enigma dalle radicalmente opposte soluzioni, più che non all’ulteriore tappa, già ben visibile e fra le ultime, prima del traguardo.
In una tale premessa, sarebbe ovviamente assai ampio lo spazio da riservare al ruolo che la lunga e pesantissima crisi economico-finanziaria sta avendo rispetto all’”Europa che verrà”. Quando ci si accorge di essere diventati meno ricchi o ancora più poveri rispetto a ieri, e quando si teme che il prossimo futuro possa ulteriormente peggiorare per noi, per i figli e i nipoti, la preoccupazione del presente appanna lo sguardo sul futuro. E, quasi inevitabilmente, ogni scelta o decisione che sembri attenuare le difficoltà contingenti appare di gran lunga preferibile a quelle che, magari richiedendo sacrifici aggiuntivi, riguardano una condizione (auspicabilmente) migliore in un domani non databile con ragionevole certezza.
La prolungata crisi economico-finanziaria, che è – a guardare bene – l’aspetto più visibile e sensibile di una più grande trasformazione geopolitica, sociale e culturale in atto, non solo ha messo in stallo il “divenire” politico-costituzionale dell’Unione europea, ma ha gettato ombre preoccupanti sulla meta che per l’Europa in fieri sembrava, e resta, obbligata.
Certo, quelli che potremmo considerare i punti fondanti e qualificanti del cammino sin qui compiuto – dal Trattato istitutivo della Comunità europea sino al Trattato sull’Unione europea e al Trattato di Nizza, entrato in vigore il 1 febbraio 2003 – sembrano appartenere al patrimonio consolidato del processo di integrazione dell’Europa. Ma, se così è, sono risorse o riserve davvero in grado di garantire che un tale processo, una volta oltrepassata la crisi economico-finanziaria, possa non solo proseguire più speditamente e positivamente, ma anche resistere a ogni eventuale avversità esterna o alle inattese lacerazioni interne che la crisi stessa ha provocato?
L’Europa messa in uno stato di “sospensione” dalla crisi economico-finanziaria è, in realtà, un’Unione europea in bilico politico. Quanto questa posizione sia precaria e pericolosa, lo si capisce meglio se si guarda non solo alle conseguenze che la crisi ha prodotto e sta producendo, bensì e soprattutto a ciò che essa ha brutalmente portato allo scoperto.

Un “plusvalore” di politica per costruire il domani
L’Unione europea manca di una “visione politica” dell’Europa che verrà. O, se la possiede, non sembra in grado di comunicarla convincentemente ai popoli europei, facendola sentire non come il progetto di ristrette e lontane élite, ma come un orizzonte “comune” dei cittadini europei, come quel necessario “bene comune” attraverso il cui perseguimento costruire un domani per tutti migliore del presente. L’interminabile crisi economico-finanziaria di questi anni, invece, ha posto sotto i nostri occhi un dato che per molte ragioni si è a lungo rimosso o sottostimato. Vale a dire: la caduta della fiducia nell’Unione europea, nell’utilità del suo faticoso processo di costruzione, nella possibilità ragionata e ragionevole che al termine di un tale processo vi sarà una realtà in grado di far vivere e crescere una politica per nulla identica (e quindi preferibile) a quella che da tempo conosciamo dentro gran parte delle democrazie nazionali.
Le imminenti elezioni europee del 25 maggio rivestono allora uno speciale significato. Nell’interpretare i risultati, occorrerà però evitare due contrapposte forzature. Se – com’è probabile, e come l’avanzata in Francia del Front National di Marine Le Pen ha preannunciato – aumenteranno, e magari assai sensibilmente, i voti valutabili come espressione pur eterogenea di critica radicale o rifiuto dell’Unione europea, dei suoi poteri decisionali e del contenuto delle decisioni sin qui assunte, dei suoi programmi, bisognerà resistere alla tentazione di attutire la forza d’urto di simili dati, considerandoli manifestazione di uno stato transitorio, determinato quasi per intero dalle inquietudini economiche e dall’irritazione nei confronti di ogni tipo di politica. Se, viceversa, il complessivo risultato elettorale non dovesse gettare ulteriori e troppo pesanti ombre sul futuro prossimo dell’Unione europea, sarà necessario non archiviare la consultazione popolare in modo routinario, quasi che essa in qualche modo convalidasse le condizioni attuali dell’Unione europea. Quali che siano gli esiti definitivi, essi arrivano infatti nel momento in cui all’Europa – alle sue istituzioni, a chi la rappresenta nei diversi livelli, a chi è convinto della sua indispensabilità in un mondo che sta rapidamente cambiando, e anche alle burocrazie dell’Unione europea – è richiesto uno slancio coraggioso, uno slancio creativo.
Per proseguire il suo cammino verso “l’Europa che verrà”, l’Unione europea ha necessità di un “di più” di politica. Ciò che la crisi ha portato allo scoperto – con brutalità tanto più forte, quanto più ci si era illusi, e talvolta ancora ci s’illude, che le integrazioni o armonizzazioni economiche di per sé producano o significativamente agevolino il formarsi di nuove realtà politiche – è proprio il deficit di una politica attuata (e “pensata”) in nome dell’Europa, in vista di un interesse autenticamente europeo, sulla base di valori radicati nella storia dell’Europa sin dai suoi albori. Ma è un “di più” che, per non essere subito soffocato e spento dai venti odierni della “contro-politica” e della crescente diffidenza verso tutto ciò che sembra “politico”, richiede appunto il coraggio di voler delineare una visione chiara della politica europea, cambiando e abbandonando i caratteri peggiori e ormai indifendibili della politica in cui ristagnano le “tarde democrazie” degli Stati nazionali europei.
Un simile slancio creativo, bisogna ammetterlo, è tutt’altro che semplice. Il “di più” di politica europea va cercato e realizzato proprio nel momento in cui, se non si è divenuti insofferenti od ostili a tutto ciò che sembra provenire dalla politica, ci si è quantomeno rassegnati a nutrire scarsissima confidenza nelle promesse politiche e nell’utilità stessa di ogni azione politica. Del resto, proprio perché ogni positivo e pacifico cambiamento politico richiede di norma una classe politica che lo guidi e un complesso di istituzioni che lo agevoli, l’”Europa che verrà” rischia di essere orfana dell’una e senza adeguata tutela da parte delle altre.
Per misurare quanto sia sempre più preoccupante l’assenza o la latitanza di un’autentica classe politica europea, basta ricordare che, nei momenti più critici della travagliata fase economica che stiamo attraversando, le preoccupazioni interne e gli interessi nazionali sono sembrati gli elementi decisivi nei comportamenti dei maggiori leader politici. Sino al punto di far ritenere che la prerogativa di rappresentare e promuovere l’interesse dell’Europa, anziché alla politica, spetti alle istituzioni e agli apparati burocratici dell’Unione europea. Rispetto alle attuali istituzioni europee, invece, fintantoché non si riesca a concordare fra gli Stati un coerente (e innovativo) “sistema politico-costituzionale”, esse tenderanno inevitabilmente a divaricarsi: fra istituzioni, da un lato, guidate esclusivamente da una logica burocratica che si pretende superiore non solo a qualsiasi interesse, ma anche a ogni valore nazionale, e, dall’altro, istituzioni che, pur ricalcate sull’antico “tipo” dello Stato, sono ben lontane dal poter disporre presso i cittadini della legittimazione a rappresentare e di quella a governare, di cui quest’ultimo – per convinzione o per abitudine, e pur in mezzo a opposizioni e aumentate difficoltà – continua ancora a godere.
Eppure, per non restare né imprigionati nel dilemma di un “di più” di politica che non può essere realizzato senza un’adeguata classe politica europea, né soffocati dal mortale paradosso per cui una “Costituzione” ed efficaci innovazioni politico-istituzionali sembrano diventare impossibili proprio nel momento in cui si rivelano assolutamente necessarie, occorre forse sollevare un interrogativo solo all’apparenza ingenuo. E l’interrogativo è questo: davvero l’”Europa che verrà” dipende esclusivamente dalle classi politiche e dalle istituzioni odierne, e non – anche e in modo del tutto speciale, oltre che essenziale – dal “vitalismo europeo” presente in molte delle parti che compongono la società dell’Europa attuale?

La solidarietà come “atto politico”
Quale che possa essere la “forma” politico-istituzionale dell’”Europa che verrà”, il suo grado di approssimazione a una qualche unitarietà e coerenza di sintesi politica (o, al contrario, l’incolmabile distanza da una simile realtà) non sarà semplicemente il risultato delle capacità o incapacità di ideazione e costruzione di una classe politica già europea o dell’accordo fra le attuali classi politiche nazionali. Nemmeno potrà considerarsi semplicemente il prodotto inevitabile (e “logico”) di azioni ed eventi – alcuni previsti, altri imprevedibili – di cui le classi politiche e le istituzioni europee sono le esclusive protagoniste.
Dell’Europa in fieri è soggetto attivo, e responsabile, anche la società europea. Dentro quest’ultima, concretamente, sono soggetti attivi e responsabili – pur nell’ampia diversità delle loro convinzioni, delle loro scelte e del loro impegno nei confronti dell’Europa di domani – non solo i singoli cittadini, ma anche e soprattutto le associazioni, i corpi intermedi, i movimenti. Il futuro “politico” dell’Europa dipende da questi soggetti, in misura forse non minore di quello che sembra ancora fra le mani delle classi politiche e delle istituzioni. Per convincersene, basta riflettere sul fatto che il “di più” di politica non può essere cercato e prodotto usando le tradizionali e ormai quasi esauste risorse politiche, bensì ricorrendo – finalmente, e senza retorica o infingimenti ideologici – al principio della solidarietà. E a saper impiegare bene la solidarietà, a saperla usare come risorsa politica non confondibile con quelle più usurate e oggi meno popolari, sono appunto le molte parti vitali della società europea.
È significativo che un filosofo come Jürgen Habermas sottolinei con vigore che la solidarietà non è solamente un gesto più o meno occasionale di altruismo morale, bensì può costituire un vero e proprio “atto politico”, funzionale e indispensabile al positivo svolgimento dei più rilevanti processi di trasformazione e innovazione. Ed è ancora Habermas a insistere sulla necessità di fondare sulla solidarietà non solo ogni sforzo di cooperazione fra gli Stati dell’Unione europea, ma anche quello di completare – senza nebulosi e pericolosi differimenti temporali – l’unione monetaria con l’unione politica.
Non incomprensibilmente, le imminenti elezioni europee costituiranno una sorta di approssimativo referendum sull’enigma dell’Europa odierna. E, non appena noto il loro esito, rischiano di essere poi usate soprattutto dalle contrapposizioni partitiche interne a ogni Stato. O, al più, di venire lette come l’ennesimo e scarsamente efficace monito dei cittadini, affinché le classi politiche e le istituzioni operino meglio e meno lentamente a favore dell’”Europa che verrà”. Ancora una volta, pertanto, ci troveremmo a lamentare che anche le consultazioni elettorali europee, in modo assai simile a quelle nazionali, sempre più sembrano appartenere alla superficie della politica, anziché rappresentarne un elemento fondamentale e decisivo.
Ciò che è presente e si muove sotto la scorza dei processi politici, tuttavia, si rivela di norma più importante di quello che si replica in superficie. E, se si guarda a questa realtà più profonda, non è allora irragionevole pensare che il futuro dell’Europa non sia già del tutto consegnato alla dura forza di eventi incontrollabili, bensì resti affidato all’entusiasmo e al conseguente impegno collettivo di chi crede nell’autentica solidarietà. Come risorsa “creativa” fra le pochissime oggi a disposizione a tutti i livelli dell’agire politico. E come il principale “atto politico” con cui contrastare e invertire ogni inclinazione alla “contro-politica”, ogni tendenza a sottomettere la democrazia – per rassegnazione, o per vantaggi immaginari – al potere di oligarchie e minoranze tecnocratiche.

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