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ARTICOLO | Primo Piano di "Atlantide" n. 16 (2009)

Come parlare di Dio in Europa

  • MAR 2009
  • Javier Prades
La Rivista

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La cultura dell’Europa moderna nella visione di Benedetto XVI. Meriti e debolezze della matrice illuminista e della matrice cristiana. L’invito a una «laicità positiva».

Il Discorso pronunciato da Benedetto XVI al Collège des Bernardins di Parigi ha avuto un’ampia risonanza nel mondo culturale e mediatico. 
Atlantide vuole unirsi al riconoscimento internazionale che ha ottenuto la testimonianza del Papa, analizzando alcuni dei suoi contenuti più rilevanti. Questo Discorso, a due anni dalla famosa Vorlesung di Ratisbona, aggiunge un anello alla catena di interventi del Papa sulla cultura dell’Europa moderna, con le sue due componenti principali, quella di matrice illuminista e quella di matrice cristiana, delle quali indica meriti e debolezze. Il Discorso alla Curia romana del dicembre 2005 e la Lezione mancata all’Università La Sapienza di Roma sono altri paletti di questo sforzo per dare ragione della speranza che è in noi (cfr. 1Pt 3,15) nell’attuale situazione dell’Europa, cui il Pontefice ci invita continuamente. Il Papa esercita quella che si è venuta a chiamare «laicità positiva». Ci insegna a porre i termini di un dibattito su alcune delle questioni fondamentali della vita comune, che figurano tra i fondamenti pre-politici del sistema democratico. In questa sede mi limiterò a esaminare in che modo il Papa parla di Dio quando si rivolge a un pubblico composto non soltanto da cattolici, ma anche da intellettuali di tendenze molto diverse, e da rappresentanti del mondo islamico.

Uno stile che accetta domande e offre risposte a tutti

La prima osservazione, elementare, è che il Papa si colloca immediatamente nel presente, grazie a quella sensibilità verso gli interlocutori che lo caratterizza fin da quando era professore universitario. Inizia formulando a voce alta le domande che potrebbero venire in mente a uno qualsiasi dei suoi ascoltatori. Le solide mura del Collège des Bernardins (1245) hanno conosciuto vicende di ogni genere. Per secoli il monastero ha irradiato sulla città di Parigi il suo splendore educativo e culturale, ma è stato anche utilizzato come prigione o caserma dei vigili del fuoco. Solo recentemente è stato ricomprato e restaurato su iniziativa del cardinal Lustiger e destinato a sede per la ricerca sui rapporti tra Chiesa e società. Di fronte a queste meravigliose arcate il Papa si domanda se il loro significato sia puramente archeologico, oppure se suscitino ancora interesse negli uomini di oggi: «È questa un’esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato?». Proprio come se Benedetto XVI volesse farsi eco della tradizione medievale della disputatio, in cui il Maestro di Teologia cominciava esaminando le obiezioni dell’avversario per poi fornire le sue risposte1. Il primo modo di mettere in pratica il riconoscimento dell’altro è accogliere le sue domande e permettere che risuonino dentro di noi, senza artifici. Così inizia il dialogo, a partire dalla posizione che realmente tiene l’interlocutore, non da quella che dovrebbe mantenere. Solo così la risposta potrà essergli utile, secondo l’acuta intuizione di Reinhold Niebuhr, che affermava: «Niente è tanto incredibile quanto la risposta a una domanda che non si pone»2. La capacità di riconoscere l’altro, decisiva nella vita sociale, non è frutto di pura deferenza o cortesia verso gli altri. Implica un esercizio cosciente della ragione, proprio della sua capacità di formulare domande sul senso della realtà. Di fronte allo scetticismo di coloro che privano la ragione della sua capacità non già di rispondere, ma perfino di domandare, Benedetto XVI inizia indagando sul significato che quel luogo storico ha di per se stesso e per noi. Così offre alla ragione la possibilità di trovare una risposta significativa e testimonia inoltre la sua fiducia nella ragione stessa proprio come strumento per trovarla. Il secondo insegnamento del Discorso del Papa viene dal modo di rispondere alle domande. Non enuncia direttamente una dottrina sulla vita spirituale, ma ha la pazienza di descrivere la vita di quella comunità monastica. Se non erro, ciò che fa il Papa è illustrare diversi aspetti dell’esperienza umana così come fu realmente vissuta dai monaci cistercensi. Mostra, infatti, come questa esperienza concreta abbia un valore universale e quindi sia comprensibile da qualsiasi interlocutore. Rivendica al contempo entrambe le dimensioni di concretezza e universalità, che sono tipiche del «metodo dell’Incarnazione»: il Padre ha scelto una storia particolare – quella di suo Figlio Gesù Cristo e quella di coloro che l’hanno perpetuata nel suo corpo ecclesiale, mediante il dono dello Spirito Santo – che pretende di avere un valore universale, ossia di essere vera. A tale scopo il Papa sintetizza quattro aspetti della cultura monastica. In primo luogo, l’amore alla Parola di Dio comporta l’amore per le lettere, che dà luogo a una cultura del linguaggio. Il desiderio di comprendere la Scrittura e la sua sacra dottrina si traduce nella proliferazione di studi sulla lingua e sull’ermeneutica dei testi letterari, delle copie manoscritte di grandi opere dell’antichità, nella costruzione di biblioteche e nella creazione di scuole (la dominici servitii schola di san Benedetto) per approfondire la Parola di Dio. In secondo luogo, il compito di interpretare il testo sacro non è puramente individuale, per quanto il suo messaggio tocchi ognuno nel più profondo del cuore e richieda la sua risposta personale, ma «introduce nella comunione con quanti camminano nella fede». Per questo motivo esiste un’analogia tra la scuola monastica e la scuola rabbinica, dato che entrambe costituiscono il luogo ermeneutico imprescindibile per un’adeguata comprensione della sacra pagina. Nasce così una cultura delle forme di vita comunitaria.
Il dialogo con Dio, che ci fa oggetto della sua Parola viva, si esprime nella preghiera liturgica, specialmente nei Salmi, che erano abitualmente accompagnati dalle istruzioni su come cantarli, e da suggerimenti sugli strumenti musicali. Si giunge quindi al terzo aspetto: una cultura della bellezza attraverso la musica sacra. A chi si prenda la briga di ricordare le opere d’arte nate dalla creatività spirituale dei cristiani, dal gregoriano fino a Poulenc o Messiaen, attraverso Tomás Luis de Victoria, Bach o Mozart, non risulterà difficile comprendere l’importanza di questo criterio nella storia culturale dell’Europa. E neppure comprendere quanto siano dannose molte celebrazioni liturgiche attuali, che sembrano trascurare qualsiasi parvenza di bellezza nel canto, o di ordine nei gesti comuni, precipitando i fedeli nella regio dissimilitudinis di agostiniana memoria. Infine, la vita monastica dà origine a una cultura del lavoro manuale. Ancora una volta, il Papa vi trova un’analogia con la tradizione rabbinica, che personifica nell’atteggiamento di san Paolo, opposta alla sensibilità dei saggi greci, la cui dedizione alla theoria era incompatibile con i lavori manuali, considerati inferiori. La tradizione agostiniana e benedettina incarnava invece un ideale che si fondava su san Giovanni, il quale dice che il Padre opera, e anche il Figlio stesso opera sempre (cfr. Gv 5,17). Il Papa ne deduce un’interessante conclusione teologica: «Il mondo greco-romano non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il “costruire” il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano: Egli, l’Uno, il vero e unico Dio, è anche il Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia». Questi quattro aspetti – amore al linguaggio e ai libri, amore alla vita comunitaria, amore alla bellezza e amore al lavoro – sono caratteristiche della cultura umana. Su di essi si deve costruire una vita sociale buona. Per questo abbiamo detto che il Papa contribuisce a una «laicità positiva» dimostrando che questi atteggiamenti – tra gli altri – alimentano una cultura e così costituiscono un fondamento sociale imprescindibile per sviluppare la civiltà. Effettivamente senza questa cultura «lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili». Senza questa ricchezza culturale della società il sistema politico si riduce a procedure formali che non riescono a regolare l’esercizio del potere al servizio del bene comune. Non è possibile pensare che i presenti all’evento di quel giorno di fine estate del 2008 si sentissero esclusi, come se la loro umanità o la loro tradizione culturale fossero emarginate a priori, ma piuttosto si deve invece supporre che si saranno sentiti riconosciuti nelle parole del Papa tutti gli uomini che considerino proprie quelle dimensioni dell’esperienza umana elementare, in cui si riflettono le esigenze e le evidenze elementari di bene, unità, giustizia, verità, bellezza. Vi si possono includere molti degli ascoltatori che, non essendo cristiani, non avranno condiviso l’origine di quella cultura: il dono soprannaturale della fede in Gesù Cristo come Figlio di Dio, fattosi uomo propter nos homines et propter nostram salutem. Forse per questo non pochi intellettuali europei lontani dalla fede cristiana oggi considerano Benedetto XVI uno dei pochi referenti significativi per la costruzione del futuro dell’Europa. Il suo dialogo con Jürgen Habermas in Germania, il recente libro di Marcello Pera in Italia, o le posizioni di Gustavo Bueno in Spagna, tra gli altri, bastano a illustrare questa tendenza3.

Esercitare la ragione e la libertà fino in fondo

Il primo modo con cui il Papa ha usato la ragione è stato quello di fare domande. Successivamente ha scelto un metodo «storico» o narrativo per descrivere gli elementi della cultura monastica. Ma con ciò non è arrivato alla fine del cammino. Non si ferma finché non raggiunge grazie alla ragione, il Fondamento, che può essere riconosciuto attraverso i fenomeni che abbiamo descritto. Già all’inizio del Discorso il Pontefice fa allusione al motivo di fondo del comportamento dei monaci. Vuole evitare qualsiasi rischio di divisione dell’esperienza, che è “una” nelle sue dimensioni umana e cristiana. Per questo, in alcune frasi che, a mio parere, sono un autentico esempio di metodo per il dialogo e per l’annuncio agli europei, dice queste parole, riferendosi ai monaci: «Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si riunivano? Che intenzioni avevano? Come hanno vissuto? Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio». Esaminiamo alcune affermazioni di questa citazione. Salta nuovamente agli occhi l’importanza delle domande che nascono dall’osservazione della realtà. E nella risposta del Papa vi sono insegnamenti decisivi per la situazione attuale dell’Europa, una confusione i cui motivi sono simili a quelli di allora: il «grande sconvolgimento culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi». In questa situazione, la cultura cristiana non nasce là dove si cerca in modo primordiale di contenere la confusione e per questo si tenta di attuare – o difendere – gli effetti umanizzanti della cultura cristiana, quelli che si potrebbero chiamare i valori dell’umanesimo cristiano. Poiché non possiamo pensare che Benedetto XVI sia contrario a tali valori – nessun cristiano lo è –, che cosa ci sta indicando il Papa? Ci invita a non dare mai per scontato il fatto che questi effetti positivi nascono da una motivazione più profonda, si potrebbe dire anteriore alla creazione o alla difesa di una civiltà. A trasformare la confusione in ordine e in convivenza sono stati coloro che cercavano Dio. Questo era il fatto essenziale. Affinché si possa intendere questa affermazione, il Papa ne offre una traduzione esistenziale. Si vede che un uomo cerca Dio quando lo si vede «impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre». Questa osservazione esistenziale del Papa è universalmente accettabile. Si potrà discutere su che cosa sia ciò che vale. Ma sarà possibile iniziare a comprendersi con chi considera che di questi tempi è conveniente lavorare con impegno per trovare ciò che vale, ciò che permane sempre. Non possiamo alzarci ogni mattina senza sentirci spinti fino all’ultima fibra del nostro essere a trovare qualcosa che valga e permanga sempre: nel lavoro, negli affetti, nel riposo. Abbiamo bisogno di trovare la vita, la vita stessa. Non possiamo evitare queste domande: “che cosa sarà di me?” oppure: “sto facendo della mia vita il miglior uso possibile? sto vivendo nel miglior modo possibile?”. In queste domande si manifesta il nostro desiderio più profondo, il nostro desiderio di vivere in pienezza, di conoscere la verità, di essere felici. Per questo non ci sentiamo estranei a qualsiasi uomo che si ponga queste domande e abbia questo desiderio. Dalle parole del Papa si sprigiona l’atteggiamento di chi vuole lottare, sforzarsi di cercare e trovare la verità per la propria vita, senza considerarla un patrimonio acquisito che non richieda di tornare a decidere su di essa ogni giorno. È indubbio che la conoscenza e l’amore a Cristo sono risvegliati e alimentati da una tradizione cui apparteniamo, in cui siamo nati o alla quale ci siamo incorporati per la grazia di un incontro. In entrambi i casi il dono ricevuto gratuitamente si trasforma sempre in un impegno, in quel lavoro personale per il quale ognuno fa suo ciò che vale, ciò che permane sempre. Non può essere diversamente, addirittura nel caso della relazione personale con Dio, che non sarà mai una semplice eredità del passato, una pura caratteristica culturale. Niente mette così totalmente in gioco le dimensioni dell’esperienza umana: ragione, affetti, libertà come il rapporto con il Mistero di Dio in ogni istante e in ogni circostanza. Lo stesso Benedetto XVI ha offerto l’interpretazione autorizzata di questo Discorso e ha identificato nella relazione personale con Dio il nucleo della laicità positiva. «Autentica laicità non è pertanto prescindere dalla dimensione spirituale, ma riconoscere che proprio questa, radicalmente, è garante della nostra libertà e dell’autonomia delle realtà terrene, grazie ai dettami della Sapienza creatrice che la coscienza umana sa accogliere ed attuare». Per questo i risultati umanizzanti della cultura monastica non si possono mai svincolare dalla loro origine, che è la relazione personale con Dio: «quaerere Deum – cercare Dio, essere in cammino verso Dio, resta oggi come ieri la via maestra e il fondamento di ogni vera cultura»4.

Dove la pura ragione non arriva: Egli si è mostrato

Il Discorso di Parigi contiene inoltre alcune considerazioni molto importanti per la nostra domanda su Dio. Benedetto XVI chiarisce fin dall’inizio che la ricerca di Dio non era indeterminata o generica. I monaci «erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza strade, una ricerca verso il buio assoluto. Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla». Dio non si identifica con una trascendenza negativa, in cui il «puro essere » indeterminato coincida con il «puro nulla», tanto di moda nei nichilismi occidentali o del lontano Oriente. Innanzitutto, il Dio che è pienezza d’amore nella sua vita trinitaria ha voluto per prima cosa darci delle segnalazioni di percorso – possiamo presumere che il Papa si riferisca alla creazione – e poi spianarci una via – nella rivelazione dell’uno e l’altro Testamento – affinché la ricerca dell’uomo acquisisca una modalità nuova. Non è pura speculazione, ma qualcosa di molto più semplice e drammatico: trovare e seguire una Presenza storica, quella del Figlio incarnato. Dio non è un’idea più o meno sofisticata che l’uomo può esplorare da sé, impiegando il tempo e le risorse necessarie, fino a chiarirla del tutto. Dio è Uno, una realtà singolare e personale, che si può veramente conoscere solo quando Egli si manifesta. Se è così, gli uomini devono modificare la loro comprensione dell’universale, alla luce della singolarità dell’essere divino. In effetti, il fatto che ciò che è veramente universale sia Uno singolare (Dio), limita le pretese accampate dalla ragione moderna, e la «costringe» ad aprirsi all’attesa, al libero ascolto di una rivelazione storica. Se il Fondamento è Uno singolare, per conoscerlo veramente, per sapere Chi sia, sarà necessario ascoltarlo, se liberamente volesse rivelarsi (come aveva presentito Platone nel Fedone). Questo è l’evento che gli uomini realmente desiderano e che ora si è manifestato nella storia. Il Papa lo riprende con grande bellezza quando, alla fine del Discorso, commenta la scena di Paolo nell’Areopago (cfr. At 17,18-34). Di fronte a diverse tendenze del pensiero filosofico moderno e contemporaneo, Benedetto XVI cita due caratteristiche tipiche di Dio nella tradizione giudeo-cristiana: il suo carattere reale e non meramente pensato, e la sua effettiva comunicazione nella storia umana. Della prima, che abbiamo già commentato, il Papa dice: «Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere. Che all’origine di tutte le cose deve esserci non l’irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani (1,21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole». Alla fine del Discorso ricompare dunque, in un linguaggio più riflessivo, il metodo dell’incarnazione. Se la vita dei monaci era intessuta di fatti ragionevoli, e quindi si poteva comprendere e condividere, ora sappiamo che ciò era dovuto al fatto che la sua origine è un Avvenimento unico, l’Incarnazione del Figlio, che è Logos in sé e pertanto «presenza della Ragione eterna nella nostra carne», nell’ambito dell’esperienza umana. Si arriva così al vertice di questo intervento di Benedetto XVI. Ha accompagnato gli ascoltatori a partire dalle loro stesse domande attraverso il racconto di una tradizione, per giungere infine a proclamare i dogmi cristiani per antonomasia: Trinità e Incarnazione. Com’è ovvio, non si può accedervi senza la luce soprannaturale della fede, ma tutti hanno potuto riconoscere i loro effetti umanizzanti. Credere in Gesù Cristo è un atto impossibile senza la grazia di Dio, ma chi lo realizza sa che crede perché è credibile, perché è ragionevole per la propria umanità e per quella di tutti, come hanno sempre sottolineato Agostino e Tommaso5. Per questo, il Papa può concludere con un prezioso suggerimento missionario: «I cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia d’Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono».

 

Note e indicazioni bibliografiche
1 Per immergersi nel clima intellettuale e culturale del Medioevo, sono sempre appassionanti i classici lavori di M. D. Chenu sulla teologia del XII e XIII secolo.
2 R. Niebuhr, Il destino e la storia. Antologia degli scritti, Rizzoli, Milano 1999, p. 66.
 J. Habermas - J. Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, Marsilio, Venezia 2005. M. Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l’Europa, l’etica, Mondadori, Milano 2008. G. Bueno, “¡Dios salve la razón!” in: AA.VV., Dios salve la razón, Encuentro, Madrid 2008, pp. 57-92.
4 Angelus dell’Udienza generale di mercoledì 17 settembre 2008.
5 Cfr. Sant’Agostino, De praedestinatione sanctorum II, 5. San Tommaso, Summa Theologiae II-II q.1 a.4 ad2; q.2 a.9 ad3.

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