Trimestrale di cultura civile

Editoriale. Conoscere i giovani per riconoscersi veri adulti

  • AGO 2023
  • Claudio Burgio

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Oggi i ragazzi vivono disagi estesi e profondi. Più visibili ed eclatanti nelle nostre periferie, ma è una frattura che riguarda una generazione e che chiama in causa drammaticamente gli adulti. Lo smarrimento dei giovani è l’inconsistenza degli adulti. Il presente racconta una grande assenza: il non rapporto che c’è. Nel loro mondo gli adulti non ci sono. Così fanno da sé. E traducono i propri desideri in qualcosa di scomposto, in esperienze di solitudine. Perché i ragazzi desiderano il bene, ma non sanno cosa sia. Decisivo è tornare a dargli un nome. Il che può avvenire solo dentro una relazione fiduciaria. Aprire un varco nel muro del non parlarsi è la strada per non accettare la sentenza del fallimento nella vita. Dei giovani. Degli adulti.

Dal mio osservatorio un po’ particolare, costituito di giovani provenienti da situazioni di disagio, non ho la presunzione di descrivere in toto questa generazione che ci interroga e inquieta; e che spesso sentiamo così lontana da quello che siamo e abbiamo cercato di trasmettere loro.

Il carcere, la comunità sono però avamposti che mi permettono di intercettare scenari che hanno una portata più ampia e che, in una qualche misura, riscontro presenti nel mondo giovanile.

Basti pensare ai numeri impressionanti di visualizzazioni che hanno i pezzi dei “trapper di San Siro”. I loro racconti – che narrano di povertà ed emarginazione – hanno un effetto detonante di disagi più estesi e profondi, che sarebbe riduttivo circoscrivere ai giovani dei quartieri di periferia.

L’urto della storia fa male

Quelli che incontro sono giovani che vivono in un cambio d’epoca reale, laddove le istituzioni tradizionali non sembrano reggere l’urto della storia. Dunque, sono smarriti. A stento si riconoscono nei loro padri, con i quali non hanno un rapporto di contestazione, piuttosto hanno un non rapporto condannato all’irrilevanza. Nel loro mondo gli adulti sono proprio scomparsi: è una generazione che si costituisce come una società tra pari. Faticano ad accettare la realtà che non comprendono e così la sfuggono, vivendo in dimensioni artificiali prodotte dai social e non solo.

Baby Gang in un suo recente post ha scritto “giovani, svegliatevi, che gli adulti ormai si sono persi”. Così, in un mondo pieno di incertezze e senza soggetti credibili e luoghi di riferimento, cercano di trovare la loro strada senza attingere ad alcuna eredità, in un solipsismo che li porta a partire solo da sé, un sé tutto proiettato sull’immediatezza del presente.

È una generazione che vive cercando risposte a bisogni istantanei, che cerca fuori di sé qualcosa che li faccia stare bene: una generazione incapace di guardare la propria interiorità, perché essa genera spavento. Sono ragazzi che desiderano un bene, ma non sanno cosa sia. Sono senza strumenti per leggere se stessi e la realtà in cui si trovano a vivere. Sono persi.

L’analfabetismo affettivo

Tale disagio li porta in molti casi a sviluppare una sorta di analfabetismo affettivo. Un ragazzo della mia comunità ha scritto una canzone dal titolo emblematico: Freddi dentro. Il testo racconta di come il dolore vissuto lo ha portato ad anestetizzarsi, per non soffrire più. Ecco, sembrano non soffrire più. O almeno ci provano. In questa situazione drammatica, lacerante e, apparentemente, disperante, gli adulti non riescono ad aprire un varco, a mettersi su quella strada sconnessa per tentare di avviare un rapporto. E certo non ha funzionato la proposta schematica di consuetudini pedagogiche inadeguate a fare i conti con la realtà.

Oggi più che mai gli adulti sono chiamati a una fatica da compiere, ovvero quella di provare a fare un cammino con loro, cercando di comprendere i loro linguaggi per arrivare al fondo del loro disagio, aiutarli a dargli un nome.

A me è successo a San Siro, quartiere di Milano che tutti conoscono per lo stadio e per la zona ricca in cui abitano alcuni giocatori di calcio di Serie A. In realtà la parte più sconosciuta, al di là della strada, è una zona popolare segnata da un degrado inimmaginabile per un quartiere ad appena venti minuti dal centro, dal salotto buono. Entrare dentro quel quartiere vuol dire accogliere e raccogliere il grido che si manifesta nei loro comportamenti trasgressivi e nelle loro canzoni. Occorre mettersi sulla stessa strada per conoscerli per davvero.

Perché – e lo dico per esperienza – quando ti trovano vicino a loro, qualcosa di nuovo succede.Mi colpisce sempre il brano del Vangelo in cui Gesù risorto incontra Pietro. Per le prime due volte gli chiede “mi ami tu?” usando il verbo “agapáo”, che è il verbo dell’amore totale, incondizionato. Pietro gli risponde con il verbo “filéo”, che è un verbo amicale, che ha una portata ridotta rispetto al verbo usato da Gesù. Pietro non ci arriva, non riesce a rispondere a tutta la portata di quello che Gesù chiede. La terza volta, in maniera clamorosamente inattesa, Gesù cambia il verbo e usa “filéo”, come Pietro. Gesù dimostra di avere il coraggio che tante volte noi adulti non abbiamo, quello di scendere su un terreno che sembra “di meno”. E che spesso ci disturba perché mette in discussione tutto ciò in cui ci sentiamo consistere, quello che la tradizione ci ha trasmesso.

Il rapporto non conosce la misura

Per questi ragazzi, così come per noi, il momento più importante è il momento della crisi, quello in cui si comprende di non farcela, di non essere all’altezza delle aspettative. Proprio quello è il momento in cui è possibile inserirsi, aprire un varco concreto per aiutarli a interagire, a guardare la realtà, i propri sbagli, a riconciliarsi con sé stessi e le proprie fragilità. In una vicinanza che non contiene misura. Perché il rapporto umano non si può misurare, eccede sempre.

Anche io imparo da loro a leggere la realtà, a reggerne l’urto in una quotidiana verifica. l’urto. Il disagio che loro esprimono è un disagio pienamente presente nella nostra società.

C’era un ragazzo che, qualche tempo fa, mi diceva “non voglio diventare adulto, perché tutti gli adulti che ho incontrato si lamentano da mattina a sera”. Noi siamo una società troppo piena di un ben avere nel quale però non abbiamo incontrato una felicità che ci compia come persone. Per questo siamo caduti in una sorta di nichilismo e di insensatezza, quel nichilismo e quella insensatezza che, evidentemente, hanno dovuto respirare anche i nostri figli.

Tante famiglie hanno cercato di crescere i figli affidandosi solo a una ripetizione stanca dell’identico, a una tradizione sociale o di valori che però non esprimono una possibilità reale di vita. Questi giovani impongono a tutti noi di guardare anche alle sconfitte dei nostri metodi educativi accettando di farci spostare, di cambiare e pure di fallire. È un tempo, il nostro, che necessita di adulti che non vedano il fallimento come la fine di tutto.

Come può avvenire la ripartenza

Viviamo una società delle eccellenze per cui si educa un figlio con l’idea che non debba mai sbagliare. Pertanto, loro non sanno recepire, accogliere, riconciliarsi con il fallimento, che invece appartiene alla realtà. Può accadere. Dunque: come riuscire a inglobarlo, accettarlo, accoglierlo? Come essere attrezzati per ripartire da un fallimento?

Il momento in cui emergono i limiti e gli errori è il “kayros”, il punto favorevole da cui ripartire, l’elemento ineludibile di ogni processo educativo; perché nel fallimento c’è già la risposta, se uno lo accoglie. Se, invece, non lo si ammette, la ripartenza non avviene. Se non contempliamo il fallimento come dato esistente, come possibilità, non abbiamo bisogno di essere perdonati.

Perdono è la parola meno utilizzata nella nostra società, ma è anche quella senza la quale non esiste rapporto, tantomeno educativo. Il perdono è ciò che genera e rigenera. Una società che non contempla il perdono è una società senza padri.

E l’individualismo sfrenato e il narcisismo dei nostri giovani sono gli indicatori dell’assenza del padre, che conosce, accoglie l’errore e perdona. Senza il padre i figli si devono autocostituire, autogenerare. Devono trovare in sé stessi la ragione per vivere.

Ai nostri giovani servono padri disposti a cambiare, a rompersi, a ripartire, a camminare, a comprendere l’incompreso, ad accettare che il fallimento non è l’ultima parola.

Si accetta il fallimento se si riconosce il bisogno del perdono.

Don Claudio Burgio, prete dal 1996, è il cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano ed è anche il responsabile della comunità Kayros che si occupa di minori in difficoltà.

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