Trimestrale di cultura civile

Giovani e sport: una relazione naturale

  • AGO 2023
  • Antonello Bolis

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La grave crisi delle agenzie educative tradizionali colloca sempre più al centro dell’attenzione le società sportive quali soggetti catalizzatori della domanda relazionale e di performance dei giovani. Tale evidenza provoca gli attori a un salto di qualità per rispondere da protagonisti a una sfida difficile e al contempo affascinante. Nella consapevolezza che lo sport assolve alla missione formativa quando se ne rispettano tutte le sue dimensioni costitutive. Con l’apporto innovativo e determinante delle life skills, o non cognitive skills, vale a dire quelle competenze trasversali ormai così decisive ai fini dello sviluppo e della crescita del giovane.

Giovani e sport sono, con tutta evidenza, un binomio inscindibile: una relazione quasi naturale che vede l’attività sportiva svolgersi durante le diverse fasi dell’età evolutiva. Una evidenza che ne rivela l’inevitabile implicazione formativa e quindi relazionale: un giovane in formazione e un adulto (allenatore, dirigente, genitore…) con lui impegnato in un percorso di apprendimento tecnico e sportivo. Ma sgombriamo subito il campo da equivoci o falsi miti: lo sport non è buono o cattivo per definizione. Nessun automatismo ne garantisce l’assoluta positività.

Tanti sport, un solo sport, tutto intero

Lo sport assolve a una funzione formativa, a patto che se ne rispettino tutte le sue dimensioni costitutive: dimensione ludica, competitiva, relazionale (con i pari età e con gli adulti), morale (il mondo delle regole intese in un’ottica formativa e non necessariamente ed esclusivamente punitiva), cognitiva (i processi di apprendimento che sollecita), fisico-atletica (schemi motori, capacità coordinative e condizionali), emotiva (emozioni, sentimenti, paure).

Dimensioni da intendere non come una mera somma di parti, ma come un insieme di quell’universo unico e unitario quale è la persona del giovane atleta. Oggi si assiste a una sempre più marcata “precocizzazione” della performance (per ragioni e interessi a volte legati alle società sportive), della prestazione, del risultato, della specializzazione in una disciplina sportiva.

Appare a tutti evidente quanto e come questo fenomeno abbia una ricaduta formativa decisiva e richieda un surplus di attenzioni anche alla luce degli stili di vita e del contesto socio-culturale in cui ci troviamo a vivere. Giovani che, come sappiamo, insieme alla straordinaria ricchezza tipica della loro età, oggi portano fragilità per esempio sul piano motorio (si parla di analfabetismo motorio); sul piano esperienziale con una sensibile mancanza di spazi e momenti di gioco sociale e libero in ambienti autogestiti; difficoltà dei giovani dal punto di vista socio-relazionale che fanno parlare di ritiro sociale (e non solo come conseguenza del Covid-19) e di individualismo (basti pensare all’utilizzo dei social e alla ricerca esasperata della propria immagine, dell’apparire…). Per quel che riguarda il piano emotivo, basti pensare alla difficoltà a reggere e accettare l’errore/limite anche a causa di un eccesso di protezione da parte dei genitori.

Ecco, allora, che lo sport può rappresentare un’occasione preziosa per consolidare o rafforzare un percorso di crescita alla luce di bisogni tipici dell’età evolutiva, ma anche nuovi rispetto al contesto socio-educativo in cui il giovane è immerso. Esasperare la richiesta di performance in ambito sportivo, soprattutto nei giovanissimi, significa non comprendere chi si ha davanti, lo si espone a una forzatura non rispettosa delle sue condizioni esistenziali, personali ed evolutive. È richiesto piuttosto di accompagnare il giovane coinvolto nella pratica sportiva rispettandone le differenti reazioni emotive. Accompagnare lo sviluppo della persona del giovane atleta nella sua globalità attraverso la pratica sportiva vuol dire, per esempio, riconoscere che il giovane sportivo partecipa a una rete affettiva e relazionale che ne costituisce un tratto originario della sua personalità di cui non si può non tenerne conto.

Giocare per vincere, vincere con il gioco

Le life skills, o non cognitive skills, cioè quelle competenze trasversali oggi al centro dell’azione formativa e da tutti ritenute così decisive ai fini dello sviluppo e della crescita del giovane, possono trovare a pieno titolo nell’attività sportiva un eccellente luogo di esercizio e di cura: capacità relazionali, di adattamento, di iniziativa, di osservazione, di valutazione e decisione, capacità di scelta, capacità pratiche, di problem solving, capacità di collaborazione, di gestione delle emozioni, di accettazione del limite e dell’errore. A patto che la metodologia utilizzata (e qui è chiamata in causa la competenza anche tecnica dell’adulto perché è attraverso la tecnica, attraverso la relazione tecnica, che passa una personalizzazione della relazione) sia intenzionalmente guidata a promuovere le diverse potenzialità che lo sport sollecita. Allora lo sport è educativo: tirar fuori, valorizzare, favorire la realizzazione di dimensioni già presenti nel giovane. Adulto (allenatore/dirigente) come facilitatore di processi, creatore di occasioni.

Ma per poter programmare una corretta metodologia didattica in ambito sportivo, dobbiamo partire da quell’universo chiamato giovane, dove caratteristiche psico-motorie, tecnico-tattiche, cognitive e affettive si fondono in un’esperienza unica e personale, dove qualità della relazione e apprendimento tecnico danno vita a un binomio vitale.

L’esperienza sportiva è una questione motoria, tecnica, cognitiva e affettiva nello stesso tempo. Più un giovane sta bene con se stesso, con il proprio corpo, con i compagni, con l’allenatore, più impara. Fare sport vuol dire fare un’esperienza tutta intera, unitaria, pratica.

Conoscere le caratteristiche motorie, tecniche, affettive, cognitive e psico-dinamiche del giovane sportivo è un fattore necessario per realizzare quella formazione armonica e integrale (e non specialistica e settoriale) da tutti agognata e che è possibile solo a patto di gettare, in continuità con l’età precedente, le seguenti fondamenta:

costruire una corretta e solida immagine di sé (in che cosa consiste il mio valore agli occhi dell’allenatore? quanto valgo? solo se sono bravo e faccio gol?) e una positiva apertura alla relazione con il compagno-risorsa;

valorizzare il rinforzo prodotto dalla prestazione intesa come l’espressione il più compiuta possibile delle proprie potenzialità/talenti qualunque essi siano (in questo consiste la vera riuscita);

realizzare una socializzazione nel gruppo come esito dell’apprendimento delle abilità sociali, quali ad esempio il rispetto delle regole (altrimenti si verificano strategie di esclusione);

trovare il giusto equilibrio tra competizione e cooperazione (voglia di “farsi vedere/emergere” e scoperta del valore del compagno/squadra). Gli altri/squadra come necessari alla mia affermazione dove la mia individualità rappresenta una risorsa per il gruppo superando la sbagliata contrapposizione individualità vs collettivo, accompagnando e sostenendo la capacità di far evolvere il proprio egocentrismo (il ragazzo riconosce l’importanza delle diverse forme di collaborazione…).

Nella consapevolezza che fare sport non può essere spunto e pretesto per spostare il problema su un piano educativo o morale, trascurando o eludendo la specificità della pratica sportiva. Le dimensioni sopra descritte devono trovare riscontro all’interno della pratica sportiva, in quanto il patto implicito con il giocatore si basa sulla pratica, sul miglioramento delle sue abilità sportive. In sostanza: attenti alla iperspecializzazione, alla “precocizzazione”, allo stress da performances ma anche alla desportivizzazione (utilizzo il tuo interesse per fare altro: ti aggancio sulla tua passione rispetto a uno sport e poi ti faccio fare laboratori).

Si educa allenando, bene!

Ciò che conta, ciò che dà valore all’attività sportiva, è innanzitutto il processo stesso che si realizza nel mentre, cioè la competizione in sé, per il valore che le abbiamo riconosciuto. Paradossalmente, un’attività agonistica può anche non essere infiorata di successi, ma ciò non toglie il valore formativo del percorso e perciò la soddisfazione dello sportivo.

L’appartenenza al gruppo dei pari età (la squadra negli sport collettivi) rappresenta un momento altrettanto decisivo per la crescita armonica ed equilibrata del giovane. A mano a mano che cresce, l’altro (compagno o avversario) assume la connotazione di una relazione sociale carica di valori quali l’amicizia, gli affetti, il senso di gruppo e l’appartenenza alla squadra, il confronto, il rispetto. Di contro, oggi, il modello educativo prevalente tende a esasperare la prestazione individualistica, il voler emergere individualmente: la dimensione della collaborazione, tratto costitutivo dell’attività sportiva e, nello stesso tempo, bisogno primario della persona, sembra non essere al centro del percorso formativo. Anche la regola in questo senso riveste un significato positivo in quanto non è vista come ostacolo alla propria libera espressione ma, piuttosto, come reale aiuto a un reciproco rispetto di sé, del contesto e delle persone.

Infine, l’altro fattore caratteristico dell’attività sportiva consiste nell’esperienza intensa e quotidiana che il giovane si trova a vivere con l’adulto, sul campo di gioco e fuori, nell’attività propriamente sportiva e in alcune situazioni, nei momenti extrasportivi. È in questo contesto di prossimità costante con il mister/allenatore che il giovane può sperimentare l’importanza che la relazione con lui assume per la propria crescita, riconoscendogli quell’autorevolezza che è condizione necessaria al costituirsi e consolidarsi di una personalità in via di formazione e in continuo paragone e confronto con l’adulto.

Allenare attiene così a un ambito che riguarda il rapporto tra un soggetto, il giovane, teso alla sua realizzazione personale (tecnica e sociale) e un adulto che vuole sostenerlo in questo cammino. L’azione dell’allenatore, dunque, consiste nel costruire un rapporto significativo tra un soggetto che vuole apprendere (in questo consiste la volontà del giocatore) e l’oggetto di questo desiderio, l’attività sportiva.

Se, da un punto di vista tecnico, formare attraverso lo sport, vuol dire rendere salde delle competenze tecniche, facendo sì che il giovane atleta possieda con sicurezza delle abilità, allora l’educazione non è accanto all’allenamento, prima o dopo, ma è dentro l’allenamento, dentro la seduta tecnica. Si educa allenando, cioè prendendo sul serio il desiderio di fare sport del giovane, per un suo sviluppo unitario e armonico.

Uscire dalla fase emergenziale

In un momento di grave crisi delle agenzie educative per eccellenza, la famiglia e la scuola, si assiste a una crescita esponenziale della responsabilità affidata alle società sportive. In un momento di forte disagio giovanile, la prospettiva più interessante e sicuramente anche più funzionale, è quella di promuovere l’agio provando a uscire dalla continua fase emergenziale, dalla continua dimensione di eccezionalità che rimanda a una soluzione estemporanea, immediata, magica. L’attività sportiva può rappresentare un prezioso alleato nel percorso educativo dei giovani: creare nessi, sinergie, nuove forme di collaborazione tra famiglia, scuola e organizzazioni sportive per realizzare quel tanto agognato e oggi mai così frammentato patto educativo che valorizzi e sostenga il difficile compito di ciascuno dei soggetti impegnati.

Certamente questo richiede la costruzione di una nuova progettualità complessiva all’interno di una visione pedagogica che assegni a ognuno dei soggetti coinvolti ruoli, responsabilità e competenze capaci di dar vita a un lavoro di rete integrato e dialogante. Nella consapevolezza che nessuno degli attori in gioco può sostituirsi all’altro, ma piuttosto collaborare in uno sguardo d’insieme che esalti le caratteristiche di ognuno. Una grande sfida per lo sport di oggi che lo proietta verso una progettualità a medio lungo termine al fine di recuperare e riaffermare un processo di umanizzazione del mondo sportivo.

Antonello Bolis, pedagogista, docente di Teoria, tecnica e didattica degli sport individuali e di squadra presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Già tecnico di squadre del settore giovanile A.C. Milan e già coordinatore del progetto “Attivazione e monitoraggio di un servizio psicopedagogico nel Settore Giovanile di A.C. Milan”.

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