Trimestrale di cultura civile

Legge del desiderio o desideri da leggere al tempo del post-moderno

  • AGO 2023
  • Cesare Maria Cornaggia
  • Federica Peroni

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I giovani sono investiti da due fenomeni che ben descrivono la complessità di questo tempo: l’assenza del limite e l’abolizione delle differenze. Le ragioni di tale evidenza vanno fatte risalire alle generazioni precedenti. Quando è stata messa in discussione la figura del padre in quanto tale. Nel complesso la crisi strutturale che vivono i giovani appartiene a un radicale cambiamento storico dove il paterno e il materno hanno assunto nuove connotazioni. In cui prevale la legge della negazione. Ma non si tratta di una legge definitiva. Ecco allora che si tratta di tornare a mettersi in gioco, accettando il limite e la novità della realtà che non è una chimera, riprendendo confidenza con il dono della relazione. Dell’io in relazione.

Il tempo che viviamo può essere descritto attraverso due fenomeni che investono i giovani e che sono: l’assenza del limite e l’abolizione delle differenze. Il tutto proviene dalle generazioni precedenti che, progressivamente, hanno messo in atto un’opera di autocentramento e di onnipotenza.

L’assenza del limite la colleghiamo all’osservazione, da decenni in più luoghi ribadita, che chiameremmo di “rinuncia alla funzione paterna”. Ci basti qui ricordare come questa rinuncia nasca, a partire dagli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso, connotandosi come una abdicazione della figura del padre, sia esso genetico, che istituzionale, rispetto ai suoi compiti, sia concreti che simbolici, che praticamente da sempre hanno costituito il suo ruolo, anche come rappresentante della legge e del limite. Siamo dinnanzi a un cambiamento storico dove paterno e materno devono assumere nuove connotazioni all’interno del passaggio dalla “regola acriticata” alla “regola compresa”. Siamo in un’epoca dove è necessario comprendere che il limite è dentro di noi, non come segno di una carenza, ma come elemento imprescindibile per aprirsi alla vita.

Se non ho un con-fine, resto con-fuso

Ci troviamo a una vera e propria negazione del limite, anche in quanto l’obiettivo che la società post-moderna sembra perseguire è andare oltre a sé senza mai soffermarsi sul momento presente. Il vivere il “qui ed ora” diviene, nella assenza del simbolico, uno stato mortifero e non una base di evoluzione per il dopo. Espressione di questo è la grande difficoltà narrativa dinanzi alla quale oggi ci troviamo, con una riduzione terribile del linguaggio verbale (pensiamo alle modalità comunicative e agli slang giovanili). Paradossalmente, a oggi, tutto è così contratto che non si riesce più a leggere il proprio mondo interiore e a fare i conti, non solo con le proprie emozioni, ma anche con la propria fede, intesa come fiducia profonda di un bene nel reale.

Subentra la paura e l’onnipotenza, e lo stesso padre non è più disposto a “morire” nel senso di riconoscere nei figli qualcosa che andrà oltre a lui e che sarà più bello e più forte. Mirabile è il passaggio che fa Ettore prima di andare alla battaglia che lo condurrà alla morte: alzando il figlio al cielo, chiede benedizione ed esclama: “Zeus e voi altri dei, rendete forte questo mio figlio. E che un giorno, vedendolo tornare dal campo di battaglia, qualcuno dica: ‘è molto più forte del padre’”. Oggi un padre che non accetta il limite non può spingere il figlio ad un dopo di lui.

A questo riguardo, il filosofo Nicolò Terminio afferma: “La nostra società non è più orientata dalla funzione del limite, i messaggi sociali dominanti rimandano semmai a un imperativo che promuove la spinta al soddisfacimento”. La nostra esperienza clinica odierna ci fa vedere come l’assenza del limite crei soggetti smarriti e privi di riferimenti simbolici e non. Come dice ancora Terminio: “Il ricorso compulsivo e senza filtri alla soddisfazione immediata non consente infatti ai figli di scoprire il proprio desiderio”, tanto che oggi ogni percorso educativo ha bisogno di esperienze virtuose del limite, presupposto per poter avventurarsi nella scoperta del desiderio.

Senza limite non vi è definizione: se non ho un con-fine, resto con-fuso. L’Io resta impossibilitato nella propria ricerca identitaria anche dal fatto che l’assenza del limite produce il suo non ingresso nel mondo del simbolico e quindi la propria possibilità di rappresentarsi e di rappresentare, così che tutto resta nell’istante e sul corpo.

Il limite porta, poi, con sé anche un secondo elemento, altrettanto fondante l’essere-nel-mondo del giovane, che ha a che fare con la nascita del desiderio. È la mancanza del mio possibile oggetto d’amore o di sicurezza che mette in movimento la mia mente, che indirizza la mia attenzione, che spinge la mia ricerca, che, pur dolorosamente, mi fa cercare al di fuori di una diade altrimenti soffocante e priva di pensiero. Ci si ferma pertanto a una situazione che potremmo definire come l’“impossibilità di accesso al desiderio”.

La metafora del camaleonte

A pensarci bene, poi, le cose possono anche essere più complicate in quanto la figura materna, a oggi, si trova a interpretare diversi ruoli ai quali non può rinunciare. Rispetto a una famiglia classicamente intesa di moglie-madre e solo a volte lavoratrice, oggi si assiste a un assetto moglie-madre-lavoratrice-amministratrice domestica-figlia-amica con la conseguente frammentazione dei ruoli che vengono passati al figlio. Di fatto, la diade materna diventa una “diade allargata” dove subentrano nonni, baby-sitter, asili nido, micronidi e il bambino si trova, sin da subito, a gestire diverse distanze e diverse negoziazioni con il principio del piacere e della realtà. Si cercano di costruire ritmi molto densi e pieni e si perde lo spazio del silenzio.

Incominciamo, sin qui, a prefigurarci questo giovane o questo ragazzino: egli inizia il suo stare nel mondo non avendo una precisa identità di sé stesso (in sostanza non sa chi è), non percepisce un suo desiderio (cosa lui stesso voglia dalla vita), non sa definirsi come diverso dall’altro e a cosa serva lui e a cosa serva l’altro.

Questa condizione è però molto funzionale al potere e rappresenta la base dell’attuale epoca della/e dipendenza/e. Il potere, se la persona non identifica un desiderio proprio, ha il più largo spazio per offrire come buona qualsiasi cosa. Potrà vendere e procacciare qualsiasi oggetto e la persona potrà a vita continuare a rappresentare il consumatore ideale. Pensiamo oggi a quanto sono bombardati i giovani: cellulari sempre più sofisticati che diventano non solo un oggetto da avere, ma lo strumento per avere uno status.

Sul piano sociologico e clinico esiste un Io fragile e non definito, che non sa desiderare; pertanto, si conformerà (in questa sede si userà il termine di “prenderà il colore”, come un camaleonte) al mondo esterno, al potere, sia esso consumistico o totalitaristico. Tale definizione merita, però, una precisazione. Sino al secolo scorso il termine “camaleonte” era riferito alla presenza di quella che veniva definita “isteria”. Tale assetto fenomenologico portava con sé un pieno di simbolo e simbolico che richiedeva una fine lettura e traduzione. A oggi l’essere camaleonte ha più a che fare con l’adeguarsi al contesto e a perdere il simbolico a favore di una diffusione di pensiero e responsabilità. Non esiste più un Io capace di produrre un sintomo e un segno, decade il simbolo perché tutto è vuoto e si crea, di conseguenza, una distanza relazionale dall’altro che non si riesce più a incontrare. Anche qui, l’elemento centrale è la perdita dell’Io che non riesce più ad accedere a una dimensione relazionale neanche attraverso il sintomo.

Questo bimbo, da un Io senza confini, fluido, che non ha un desiderio proprio, deve conformarsi a ciò che ha intorno, nella metafora del camaleonte, deve prendere il colore dello sfondo ove è posto. Questo passaggio potremmo pertanto definirlo come l’“uniformarsi al contesto come possibilità unica di definizione di sé”.

I sentimenti che imperano sono vergogna e senso di colpa in un mix che non può che essere confuso e persecutorio: la vergogna per il fatto di non riuscire mai del tutto a uniformarsi e il senso di colpa per il fatto che rapporto e abbandono sono costantemente presenti.

Quale è la conseguenza della dimensione del non-desiderio e dell’uniformarsi al contesto? Tutto resta senza una dimensione propria, non soltanto l’Io non ha una sua definizione, ma neppure la realtà, tanto che anch’essa diviene fluida al pari dell’Io. Si giunge a una uniformità straordinaria, che è l’illusoria meta del potere: l’esclusione del conflitto, quando tutto è indeterminato, indifferenziato, non vi è neppure conflitto e tutto può essere dominato.

La caduta delle differenze

Ci si collega in tal modo all’altro punto molto importante e accennato all’inizio, che è il fatto che, nel tentativo di raggiungere l’esclusione del conflitto, si vogliono vedere abolite le differenze, sino anche alla negazione della definizione del sesso che, di fatto, finisce per identificare un limite in quanto rappresentazione di uno stato e non di un altro. Ad esempio, a oggi, l’avere un pene non corrisponde necessariamente a essere un maschio. Si perde l’evidenza, il dato reale. A oggi, questa perdita di confini sta diventando una sorta di moda, dove la differenza è abolita per la fatica che rappresenta.

La realtà non è accattivante perché è, essa stessa, troppo mutevole. Cambia, si modifica, procede per spirali continue e, quindi, diventa qualcosa da domare, controllare, evitare, sottomettere, ma non è più qualcosa da vivere. La realtà di per sé sarebbe molto più semplice se, solamente, ci fermassimo ad ascoltare. Di fatto e per fortuna, la realtà continua a esercitare la propria attrattiva che, però, dal giovane spesso, in questo humus, viene letta con gli occhiali della paura e dell’evitamento della frustrazione.

Non soltanto quindi l’Io non è determinato, ma non è determinata neppure la realtà, tutto è un continuum dove tutto può essere, tutto può accadere, nulla è reale o immaginario e tutto viaggia dentro a una dimensione di indeterminatezza.

Come conseguenza della carenza identitaria e della assenza di autostima vi è, specie nei giovani, la grande esplosione degli attacchi di ansia e di panico, laddove cade l’illusorio controllo della realtà e dove il tempo futuro invade minacciosamente il presente. Questi episodi spesso precedono i dilaganti disturbi di personalità, sia legati al comportamento alimentare che all’espressione delle emozioni (come nel borderline o nel narcisista), dove regnano assieme l’impossibilità e il rifiuto della identificazione.

Di fatto, l’ansia diventa un segnale molto importante perché è l’allarme che qualcosa non va, che i pensieri si sono fatti troppo densi e ripiegati su di loro. L’ansia è il sistema più funzionante che il nostro corpo possiede per farci arrivare un messaggio forte e chiaro.

L’altro cerca quel che cerchiamo noi

A oggi si fa confusione con le emozioni, sempre nell’ottica della caduta delle differenze, e questo ce lo insegnano molto bene i nostri pazienti, soprattutto quelli giovani: a oggi essi parlano di “delusione” e “sofferenza” come fossero sullo stesso piano senza, però, avvertire quella profonda differenza che connota i due termini. La delusione ha a che fare con l’aspettativa, mentre la sofferenza ha a che fare con i movimenti di tristezza interiori. Al pari di questo, vi è anche confusione tra “felicità” e “valore” dove il primo ha a che fare con movimenti interiori e il secondo con qualcosa che si fa.

Per questo, spesso, nei giovani il linguaggio diventa fonte di confusione e, quindi, viene contratto e relegato in quelle che oggi vengono chiamate emoticon. Sicuramente la tecnologia presenta degli aspetti vantaggiosi, tuttavia, oltre a mandare una faccina con un cuore, sarebbe bello chiamare quella persona e dirle “ti voglio bene.

Sarebbe auspicabile tornare a metterci in gioco con le emozioni e con l’incontro con l’altro, ricordando che l’altro è portatore di un nostro stesso limite e che ciò che cerca è quello che noi cerchiamo e cioè uno sguardo di accoglienza e benedizione. Dovremmo sospendere il giudizio e fare i conti con l’invidia e l’aggressività che spesso passa nella relazione con l’altro (spesso giudichiamo perché sentiamo noi di essere traditi da ciò che l’altro fa, ma che è indipendente da noi). Dovremmo guardare a questa nuova realtà della generazione giovane con la curiosità di conoscerla e di dilatare i tempi, dovremmo finalmente “perdere” tempo con questa generazione, sapendo che l’altro ci porta sempre un passo avanti.

Dovremmo, infine, sempre ricordarci che la realtà è ciò che stiamo già vivendo e non una chimera da andare a cercare. La realtà è qui e ora e solo questo è ciò che ci viene richiesto di guardare con la certezza che un bene ci è dato in quanto vivi e che il limite è qualcosa che rilancia, oltre a noi.

Cesare Maria Cornaggia è medico psichiatra e professore associato di Medicina fisica e riabilitativa presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Federica Peroni è psicologo clinico; psicoterapeuta sistemico relazionale; U.O. neuroriabilitazione cognitiva, Istituti Clinici Zucchi, Carate Brianza.

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