Trimestrale di cultura civile

Le voci di una generazione

  • AGO 2023

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Pensieri e parole dei giovani nati negli anni Novanta ma anche nel secolo XXI. Italiani e non solo. Che studiano, lavorano. E sognano in concreto. C’è chi è venuto in Italia e chi non ha avuto paura di uscire dal Bel Paese. E chi è andato negli USA dal Bangladesh, Paese dell’Asia meridionale, per approfondire il suo desiderio di conoscenza. Allo stesso modo della giovane Erasmus. C’è il musicista rap, la calciatrice, come la frequentatrice di centri sociali. E poi l’imprenditore, il manager, il cuoco e insegnante nato in Marocco. Il giovane politico. E due operaie impegnate nella meccanica di precisione. E due ucraini: uno che sta in Italia, l’altro che vive a Kharkiv, fattorino sotto le bombe. Una bella e intensa coralità, dunque. Un racconto dal vivo per cercare di capire quelli che sono i loro desideri, quel che vivono, quel che sperano. Nulla di statistico. Tutto di vero. Una fotografia d’insieme dove ogni singola storia esprime un piccolo spaccato di vita intensa. Su cui riflettere.

“Voglio diventare uno storico per capire gli eventi”

Md Showkot, studente originario del Bangladesh

Si è laureato nel 2017, poi, l’anno successivo, Master in Storia e Cultura islamica all’Università of Dhaka (Bangladesh). Attualmente è impegnato in un Master in Storia presso l’University of Nebraska at Omaha, Stati Uniti.

Qual è l’importanza dello studio? Il tema della conoscenza è centrale nella tua esperienza quotidiana?

Lo studio è fondamentale per la crescita personale, accademica e professionale: migliora le conoscenze e favorisce il pensiero critico e aiuta ad ampliare le opportunità di carriera. E poi, è lo studio che fornisce alle persone le competenze necessarie per l’apprendimento e il successo lungo tutto l’arco della vita.

Senza dubbio, la conoscenza è fondamentale per la mia esperienza quotidiana. Voglio diventare uno storico, e per questo ho bisogno di essere continuamente aggiornato sulle vicende attuali. Cerco sempre di scoprire i retroscena di qualsiasi evento recente con l’aiuto della mia analisi storica, oppure provo a capire come questo problema recente è la conseguenza di un evento passato: metto sempre in relazione ogni evento presente con il passato e il futuro.

Il lavoro è una necessità o contiene qualcos’altro? Sei soddisfatto del tuo lavoro?

Certo, il lavoro è assolutamente necessario per la nostra vita. Senza lavoro, le persone si annoiano e la loro vita non ha senso. Credo fermamente che le persone debbano avere uno scopo nella vita – mentre chi non ha un lavoro, non ha scopo alcuno nella vita.

Non sono affatto soddisfatto, appagato dal mio lavoro. Se uno ambisce a ottenere un lavoro grande, eccellente, nella sua vita, raggiungere la soddisfazione in giovane età può renderlo pigro. Invece io desidero cambiare sempre in positivo la mia vita, e per questo cerco continuamente di migliorarmi.

Cosa cerchi nel tempo libero? Ritieni che debba avere sempre più spazio nella tua vita?

Nella mia esperienza personale, mi sono accorto che quando ho troppo tempo libero a disposizione, non riesco a utilizzarlo correttamente. Piuttosto, divento pigro. Al contrario, quando sono molto occupato e pieno di cose da fare, se riesco a liberare un po’ di tempo dai miei impegni, allora riesco a godermelo appieno.

Relazioni e legami: quanto sono importanti? Come li costruisci? Sperimenti la solitudine?

Anche se l’importanza di relazioni e legami può variare da persona a persona, credo che coltivare relazioni sane sia in generale molto importante per la vita. In Bangladesh non mi sentivo per nulla solo, ma da quando sono venuto negli Stati Uniti per studiare, mi mancano moltissimo la mia famiglia e i miei amici, e questo in parte ha influito sui miei studi.

Famiglia e affetti: cosa pensi su questi temi, come li costruisci? Quali difficoltà incontri e di che tipo?

Non ho alcuna difficoltà nel creare legami familiari e affettivi, perché mi viene immediato prendermi cura della mia famiglia e dei miei amici. Cerco di essere gentile e rispettoso e di non essere moralista. Ascolto ciò che i miei familiari condividono con me. Loro sono la mia priorità e li amo senza aspettativa alcuna. Infatti, credo che quando ci si prende cura di un’altra persona con delle pretese, si può rimanere scoraggiati, perché non si ricevono le attenzioni e l’amore attesi.

Politica e ideali: sono importanti per te? Come li persegui?

Credo che sia molto importante sostenere i principi etici. Non partecipo attivamente alla politica di partito, ma ho forti opinioni politiche che riflettono i miei valori e le mie aspirazioni con a cuore il benessere della gente. La politica e gli ideali possono essere fonte di ispirazione e progresso, ma è vero anche che possono condurre a disaccordi e conflitti.

Il problema del clima e della sostenibilità: quanto ti preoccupa il futuro?

Sono molto preoccupato per i cambiamenti climatici, che possono condurci a breve a una serie di fenomeni, come l’aumento delle temperature globali, l’innalzamento del livello del mare e l’alterazione degli ecosistemi. Temo che questi cambiamenti influiranno molto negativamente sulla vita umana, sulla biodiversità e sulle risorse naturali. A volte ho persino la sensazione che stiamo per perdere la nostra meravigliosa Terra.

In definitiva: cosa speri?

Esprimere le mie speranze in poche parole può essere difficile, ma posso dire che, come studente di storia, ho studiato numerose crisi, conflitti e guerre, e pertanto la mia aspirazione è quella di un mondo privo di guerre e conflitti. Spero in un mondo pacifico, dove prevalga l’armonia.

(Martina Saltamacchia)

 

“Voglio imparare a superare le mie paure”

Aleksandr, ucraino che vive a Kharkiv

23 anni, vive in Ucraina sotto le bombe. Da piccolo è stato ospitato in un orfanotrofio. Oggi è tornato a casa, dai suoi genitori. “Sogno di vivere a casa mia, nella mia città, sotto un cielo tranquillo”.

Cosa desideri di più per la tua vita?

Voglio che la guerra con la Russia finisca, voglio che l’Ucraina vinca. Vivo a Kharkiv, in una città molto vicina al confine con la Russia. Nella nostra città siamo sotto la costante minaccia di attacchi missilistici. I continui raid aerei, i bombardamenti notturni, mi fanno vivere in un costante stato di stress. Per la mia vita vorrei stabilità: avere sempre acqua ed elettricità. Voglio la mia casa a Kharkiv, mi piace vivere in questa città, è la mia città natale. Ma la continua minaccia di un attacco da parte della Russia non mi dà una sensazione di pace. Voglio vivere nell’Ucraina libera, non nella Federazione Russa.

Di chi ti fidi nella vita e perché?

Mi fido dei nostri soldati che stanno liberando l’Ucraina. Si dimostrano nobili e ci aiutano a salvarci dai bombardamenti. Sono persone che hanno un grande cuore, capiscono per cosa stanno combattendo e danno la vita. Tutti vogliono tornare alle loro famiglie e alla vita normale, i soldati ucraini sono molto stanchi, ma continuano a combattere per la nostra libertà. Mi fido del presidente del mio Paese: non ha abbandonato l’Ucraina e non ha temuto per la sua vita quando è scoppiata una guerra su larga scala e Kiev è stata attaccata. Vladimir Zelensky registra ogni sera un discorso ai cittadini. La propaganda russa mente costantemente non solo al mondo e all’Ucraina, ma anche ai suoi stessi cittadini. Ad esempio, sui nazisti: io vivo in Ucraina e posso dire che qui non ci sono nazisti, sono un ragazzo giovane e non c’è un solo nazista tra i miei conoscenti.

Quali sono le tue speranze per il futuro?

In realtà, è difficile per me pianificare il mio futuro mentre c’è la guerra, ma credo che l’Ucraina vincerà sicuramente e ricostruiremo tutte le case e le città distrutte. Sogno di vivere a casa mia, nella mia città, sotto un cielo tranquillo. Ho un posto preferito: a 60 km da Kharkiv c’è una grande pineta. Amo questo luogo perché quando vivevo in un orfanotrofio, venivamo portati lì per riposare. I miei ricordi felici sono legati a questa foresta. Nell’orfanotrofio non avevo libertà, ma quando andavo in quel luogo mi sentivo libero. Era un posto nuovo e bellissimo per me che ero un bambino, e ora non posso andarci a causa della minaccia delle mine e delle granate che non sono esplose. Quindi, in futuro, voglio salire sulla mia bicicletta e andare in quel luogo di felicità della mia infanzia, senza alcuna minaccia per la mia vita.

Cosa pensi del tuo lavoro? Cosa vuoi fare in futuro?

Attualmente lavoro come rider, consegnando cibo. Per me è importante potermi mantenere, perché non ho genitori che possano aiutarmi, anzi i miei genitori non riescono nemmeno a mantenersi. Al momento è l’unica cosa che so fare. Non posso pianificare il mio futuro ora, c’è una guerra in corso nel nostro Paese.

Cosa fai nel tempo libero?

Mi piace molto lo sport, mi dà fiducia e mi aiuta a mantenere una certa disciplina, quindi, nel tempo libero, faccio sport. Ascolto anche audiolibri, mi piacciono soprattutto i libri di crescita personale. È importante per me capire come comportarmi in diverse situazioni della vita e voglio imparare a superare le mie paure. Ascolto anche libri di narrativa, per esempio ho ascoltato l’opera di Lesya Ukrainka, La canzone della foresta. Mi è piaciuta per la sua dolcezza e tenerezza.

I tuoi affetti?

Sono cresciuto e ho iniziato a prendermi cura della mia famiglia, che non si è mai occupata di me. Quando ero piccolo, sono stato portato via dai miei genitori a causa delle cattive condizioni di vita e ho vissuto in un orfanotrofio. Ora cerco di aiutare i miei genitori come posso: faccio la spesa per loro e aiuto a fare piccole riparazioni nell’appartamento. Per me è importante prendermi cura dei miei cari. Penso che i figli debbano prendersi cura dei loro genitori, che hanno dato loro la vita. I miei genitori non mi hanno dato un’istruzione, non mi hanno cresciuto, ma mi hanno dato la possibilità di vivere e per questo sono loro grato.

(Franco Nembrini)

 

“La mia speranza per il futuro è la domanda: ‘Possiamo perdonare?’”

Artem, ucraino che vive a Milano

23 anni, viene da Kharkiv, Ucraina. È cresciuto in un orfanotrofio, poiché i suoi genitori sono stati privati della patria potestà. Ora sono morti. È arrivato in Italia l’11 febbraio 2022, due settimane prima dell’inizio della guerra in Ucraina. Attualmente vive con una famiglia italiana, accolto a tempo indeterminato. Studia all’Università Cattolica.

Qual è la sfida più grande che devi affrontare in Italia?

La prima e la più grande sfida è la sensazione di impotenza. Dopo tutto, sono qui a Milano mentre i miei amici sono sotto il suono costante di sirene e spari. E anche i miei piccoli passi verso la vittoria mi portano ancora al punto di non poter fare nulla. Ci ritroviamo con migliaia di vite ucraine rovinate e milioni di persone colpite dall’aggressione russa.

Inoltre, durante la mia vita in Italia, ho affrontato un’altra difficoltà: la burocrazia. Per ottenere un qualsiasi documento (come la tessera sanitaria o una carta d’identità) – per non parlare dei documenti medici – si deve passare attraverso un lungo percorso di chiamate alle linee verdi e di visite alle varie autorità. Le conseguenze si riflettono nella ricerca di un lavoro o in una visita dal medico. Solo dopo sei mesi sono riuscito a ottenere la tessera sanitaria e a muovermi come volevo.

Un’altra difficoltà è la barriera linguistica. Vale la pena ricordare che non è un problema causato dal governo o dalla cultura, anzi, a Milano ci sono molti luoghi che, gratuitamente o a pagamento, aiutano a imparare la lingua e a integrarsi nella società. Nel mio caso in particolare, le mie conoscenze saranno sempre carenti. In questa fase sono ancora uno studente universitario e sto per fare il master e in questa fase una buona conversazione non è sufficiente. In sostanza, la soluzione a questa difficoltà dipende solo da me.

Di chi ti fidi nella vita e perché?

Nella vita mi fido dei miei amici più stretti, che sono principalmente della mia città natale, Kharkiv. Ora alcuni di loro sono anche a Milano e credo che il mio rapporto con loro si sia rafforzato dall’inizio della guerra. Con ognuno di loro abbiamo fatto un lungo percorso di litigi e grida, ma anche di felicità e gioia. Durante la mia vita a Milano ho conosciuto molte persone nuove e mi sono sorpreso di come la gente sappia aprire le porte agli altri. Dico “agli altri”, perché persone che non mi conoscono affatto e che non mi hanno mai visto prima mi hanno fatto entrare nella loro vita aprendo la porta della loro casa. È da storie come questa che la fiducia è entrata nella mia vita e dopo un po’ anche parole come famiglia, amore, amicizia hanno cominciato a venir fuori.

Cosa pensi dei tuoi studi o del tuo lavoro? Cosa ti piacerebbe fare nella tua vita adulta?

Dopo aver frequentato per quattro anni un’università ucraina studiando Storia e Archeologia (mi sono laureato nel 2021), non sapevo quale sarebbe stato il mio percorso futuro: la laurea mi ha dato conoscenze e affetti, ma sapevo che non sarei stato un insegnante o un educatore. Non tutti gli educatori lo capiscono, ma lavorare con i bambini è prima di tutto una grande responsabilità che non ero in grado di assumermi. Per questo ero confuso e non sapevo dove andare. Già prima di venire in Italia, sapevo che era importante per me ottenere una nuova qualifica e, in effetti, questo è in parte il motivo per cui sono venuto qui. Dallo scorso gennaio fino a oggi ho studiato all’Università Cattolica, al Master in “Digital Communication Specialist”. Devo iniziare lo stage a settembre, ma non ho ancora ottenuto un colloquio.

Uno dei problemi è sicuramente l’incertezza, perché non capisco bene dove sarò tra un anno. In questo momento ho delle linee guida per la mia vita futura, ma riguardano più che altro il futuro prossimo. Con le dovute precauzioni, la formazione in marketing e comunicazione può darmi l’opportunità di costruire una carriera in un settore in cui posso usare le mie capacità e la mia creatività per crescere.

Cosa fai nel tempo libero?

Al momento la maggior parte della mia vita è dedicata allo studio, che è il settore in cui sono più impegnato. Ci sono giorni in cui vedo i miei amici di Emmaus. In realtà, Emmaus occupa molto spazio nella mia vita: quando ho lasciato l’orfanotrofio sono entrato nel progetto “Decimo Pianeta”, che aiuta i ragazzi come me ad adattarsi alla vita indipendente. Da allora, ogni passo importante della mia vita (come andare all’università o trovare il primo lavoro) è stato indissolubilmente legato a loro. Abbiamo fatto insieme il mio percorso formativo ed è stato grazie a loro che io e gli altri ragazzi del progetto siamo partiti per l’Italia due settimane prima della guerra. Sono felice che, dopo tutto questo tempo, siamo ancora insieme e ci sosteniamo a vicenda: condividiamo eventi importanti, facciamo viaggi, ma parliamo anche molto di ciò che sta accadendo ora in Ucraina.

I tuoi affetti: la tua famiglia…

Come ho detto prima, sono cresciuto in un orfanotrofio fin dall’infanzia, quindi non ho avuto una famiglia vera e propria. I miei affetti sono la mia città natale (Kharkiv) e gli amici. Molti di loro sono ora a Milano, ma ce ne sono anche altri che sono rimasti nella mia città natale. Comunichiamo e ci vediamo di tanto in tanto, ma questo non cambia il fatto che non sono con me.

Quali sono le tue speranze per il futuro?

Le mie speranze sono legate alla mia condizione personale. Spero di poter essere pienamente felice, ma questo accadrà solo dopo che l’Ucraina avrà vinto la guerra contro la Russia. Dopo che tutti in Russia avranno capito il dolore che il loro Stato ha inflitto al nostro popolo. Dopo che ogni criminale di guerra sarà chiamato a rispondere di ciò che ha fatto. Per riassumere, la mia speranza per il futuro è la domanda: “Possiamo perdonare?”

(Franco Nembrini)

 

“All’inizio ho pianto, poi ha iniziato a essere una grande occasione di conoscenza e amicizia”

Maria, Erasmus

Sono nata a Gallarate e ho 26 anni. Sono cresciuta con la mia famiglia a Busto Arsizio, in provincia di Varese. Mi sono laureata ad aprile in matematica all’Università degli Studi di Milano e, durante la magistrale, ho deciso di finire gli esami in Erasmus, a Regensburg, Germania, dove sono stata 5 mesi: da inizio marzo a inizio agosto 2022.

Lo studio è sempre stato un punto di ricchezza e già prima di arrivare in università mi era capitato che anche il resto della vita fiorisse, proprio a partire da ciò che vivevo e scoprivo studiando. Per questo ho sempre avuto a cuore che il mio studio fosse occasione di vita e non solo un dovere da sbrigare.

Non ho mai avuto grandi sogni di futuro all’estero, anche perché non ho un ottimo rapporto con l’inglese, ritengo molto valido il dipartimento di matematica a Milano, mi piacciono la mia lingua e dove vivo, quindi, non consideravo l’Erasmus come qualcosa di essenziale per il mio percorso.

Sono stati l’inizio della magistrale e la fatica sperimentata proprio nello studio, durante il Covid, a farmici pensare: in quel periodo mi sono accorta che il mio approccio naturale alla materia non coincideva con il taglio specifico del mio dipartimento, così ho iniziato a informarmi sulle possibilità presenti altrove.

Non è stato per niente immediato decidere di arrischiarsi su questa strada, tanto che ho compilato la mia application solo la notte precedente alla scadenza e, anche dopo aver vinto la borsa, fino all’ultimo sono rimasta indecisa riguardo alla mia effettiva partenza. Tanti altri fattori, non solo didattici, mi hanno poi convinta.

Tutt’ora non sogno una vita all’estero, ma certamente un’esperienza del genere fissa nel cuore luoghi e volti, lasciando un chiaro desiderio di rivedere chi e cosa, in quei mesi bellissimi e allo stesso tempo faticosissimi, è stato una seconda casa.

Capita poche volte nella vita di trovarsi al cento per cento in condizioni nuove e del tutto sconosciute. I bisogni che emergono sono i più essenziali: trovare i sacchi della spazzatura, sapere dove comprare il libro per il corso di tedesco, non mangiare da soli, trovare qualcuno che decida di rivolgere la parola proprio a te.

Con gli altri ragazzi Erasmus il rapporto è partito facilmente, perché questi bisogni banali emergono per tutti. Proprio uno degli ultimi giorni della mia permanenza, sentendo un amico indiano chiacchierare di temi sociali, ho pensato: “se io avessi saputo in anticipo cosa pensi o tu avessi saputo cosa penso io, ci sarebbe stata una gran diffidenza e sarebbe stato difficile concederci un po’ di compagnia reciproca. Invece il nostro rapporto è nato in modo semplice e intuire adesso che la pensiamo diversamente su certi temi non cambia il fatto che ormai siamo amici”.

Meno immediato, ma per certi versi più sorprendente, il rapporto con i compagni di corso tedeschi. Le prime settimane è stato faticosissimo entrare alle lezioni. Avevo costantemente paura di fare qualcosa di sbagliato mentre mi muovevo in università, non sapevo a quali professori rivolgermi per i miei dubbi, non sapevo se le indicazioni che mi davano fossero affidabili o meno, vedevo sciami di ragazzi chiacchierare tra loro e pensavo “perché mai dovrebbero parlare con me? Non hanno bisogno di conoscere qualcuno, non hanno bisogno di trovare con chi studiare, hanno già i loro punti di riferimento…”. Più di una volta, entrando in dipartimento, ho pianto.

All’inizio è stato fondamentale trovare altri italiani con cui poter esprimere i propri dubbi senza i limiti espressivi della lingua straniera e fosse facilitata una conoscenza reciproca più approfondita – per tutto il semestre, infatti, la mia vera compagna di studi è stata una ragazza italiana –, ma nell’ultimo mese occorreva proprio qualcuno che facesse il mio stesso esame nella mia stessa sessione e in quel periodo è esplosa la bellezza del rapporto con alcuni compagni di corso tedeschi che aveva pian piano iniziato a costruirsi durante i mesi precedenti. Infatti, contrariamente a miei pensieri, qualcuno si era interessato, qualcuno aveva chiesto di fare esercizi assieme, qualcuno mi aveva invitata a pranzo, coinvolta nel calcetto serale assieme ai professori… e le ultimissime settimane è stato bellissimo studiare con loro, non mi accadeva da tempo di studiare così.

Lo svolgersi dei rapporti è sempre stata una questione decisiva per me, piena di domande, ferite e scoperte fin dai tempi del liceo o forse prima.

Appena arrivata c’è stato un bombardamento di facce nuove e si è fatto sempre più chiaro che gli altri – e i rapporti con gli altri – sono innanzitutto un mistero, nel senso più semplice della parola: ciò che non sai e non capisci dell’altro è sempre infinitamente più grande di quello che vedi, cogli e sai e non c’è modo di vedere in anticipo cosa un incontro porterà nella tua vita (e tu nella sua). Come intuizione non era una novità, ma in quel periodo l’ho continuamente riscoperto nei fatti.

Essendo tutto nuovo e sconosciuto, è stato più evidente anche nelle cose banali: il semplice invito di qualcuno a mangiare assieme prendeva un peso rivoluzionario nella giornata, a prescindere da quanto lo conoscessi o lui mi conoscesse, a prescindere dal fatto che poi quel rapporto diventasse familiare e quotidiano o no, si intensificasse o non ci si vedesse più. L’esistenza di quella faccia, quel particolare giorno, ha aggiunto vita alla mia vita, in certi casi magari ha proprio portato vita in mezzo a una giornata morta, e non c’è cosa che valga di più. Anche se quel volto non dovessi vederlo mai più, o dovessi vederlo e non riconoscerlo, o vederlo e non sapere come comportarmi, che quella faccia abbia aggiunto vita alla mia vita è una cosa ineliminabile. Mai come in Erasmus mi sono accorta di quanto questo abbia un valore inestimabile e ho sentito il bisogno di riconoscerlo, tanto che su un quaderno ho scritto i nomi di tutte le facce che hanno svolto questo ruolo per me e alcune già ora non le ricordo più.

Che tutto sia così misteriosamente imprevedibile in realtà è vertiginoso e pauroso, perché mette sempre di fronte il fatto che le cose potrebbero non svolgersi secondo i film che la testa fa spontaneamente.

È capitato, ad esempio, che davanti a una cosa molto bella accaduta con qualcuno, immediatamente immaginassi come saremmo potuti diventare amici in quei mesi e, invece, quella persona non l’ho quasi più rivista. Allo stesso tempo, dentro ogni rapporto è come se si fosse generata una stima e uno stupore verso qualsiasi cosa accaduta, come testimonia il libretto con i nomi. Insomma, era più chiaro quanto lo svolgersi delle cose fosse misterioso e questo genera vertigine e stupore: ognuno di quei nomi, chi più chi meno, contiene dei pezzetti di questa vertigine e di questo stupore. Come il rapporto con la mia prima coinquilina, iniziato con un bellissimo pranzo assieme. Qualche ora dopo, ho scoperto che nel giro di un mese sarebbe andata a vivere altrove e, non molto più tardi, è risultata positiva a un tampone Covid, costringendo quel mese a un goffo tentativo di conoscerci e schivarci. Da subito ha traballato tutto: vertigine.

Durante quel primo pranzo, di cose ne avevo immaginate tante e hanno vacillato presto, ma mai avrei potuto immaginare di ritrovarmi un mese e mezzo dopo nel nuovo appartamento di questa ragazza, con una pianola, una chitarra, un flauto traverso, un violoncello, dei microfoni e una persona per ogni strumento (tra cui quella che nel frattempo era diventata la mia nuova coinquilina), tutti coinvolti semplicemente per aiutarmi a registrare una canzone per un amico: stupore.

Vertigine e stupore. Vertigine e stupore con una semplicità di cui ammetto di avere nostalgia.

Di storie da raccontare ce ne sarebbero tantissime, di rapporti da citare altrettanti. Forse, in sintesi, potrei dire che l’Erasmus è stato una grande occasione di conoscenza a trecentosessanta gradi, non tanto come pensieri e riflessioni, ma come possibilità di guardare di continuo cosa accade a se stessi e intorno a sé.

 

“Siamo una squadra  e questa è la formula che mi convince”

  

Marco Saporiti, imprenditore

33 anni, di Busto Arsizio (Varese), è un giovane imprenditore nel ramo della comunicazione per le aziende.

Laureato in design della comunicazione dopo la maturità scientifica, dunque, la comunicazione è un pallino fin dall’università?

Beh, qualcosa del genere già la praticavo alle superiori: fotografo ai matrimoni, prima al seguito di professionisti degli scatti, poi in autonomia. E durante l’università al Politecnico di Milano, per mantenermi, ho continuato a lavorare: ancora matrimoni, ma non solo. Le prime brochure per aziende, qualche studio sui loghi, i primi approcci con la realizzazione di siti. Poi, nel 2014, ho aperto la Partita Iva.

Durante gli studi poi si sono affacciati tanti desideri diversi. L’ultimo, in prossimità della laurea magistrale, era di entrare nel mondo del cinema, impegnarmi creativamente nella post-produzione cinematografica. Avevo anche l’ipotesi tra le mani di iniziare uno stage a Londra in quel campo, poi le cose della vita mi hanno portato da un’altra parte, ovvero a provare a dare una forma più strutturata alla mi attività di freelance. È un lavoro che dà molte soddisfazioni e di questo sono contento.

Dall’impresa individuale alla sfida imprenditoriale: come è successo?

Mi sono reso conto di un fatto: quel lavoro mi piaceva molto, ma non mi ritrovavo nel concetto di impresa individuale. Il fare da solo non è la mia strada. L’ho potuto verificare negli anni dell’università, i lavori che mi arrivavano, li facevo insieme agli amici con cui potevo condividere sia lavori che compensi.

Così, nel 2017, ho aperto la DEseip, di cui sono socio di maggioranza e amministratore delegato. Anche nella forma societaria non ho voluto rimanere da solo, e quindi con me nel Consiglio di amministrazione ci sono cinque amici che però non lavorano nel mio settore. Con loro il confronto è più largo: sull’essere imprenditore oggi, sul come si fa girare un’azienda, sul significato del lavoro, sul senso dell’amicizia. Beninteso, non discorsi “alti”, tutto assolutamente concreto. E questo mi serve moltissimo nella mia attività quotidiana. In azienda siamo undici, io sono il più vecchio. Siamo una squadra e questa è la formula che mi convince.

Allora: non un uomo solo al comando, ma…

… ma un giovane imprenditore che guida un team di giovani, imparando tutti i giorni con loro.

Lavoro, lavoro, lavoro. Oggi sembra non debba finire mai. I giovani si lamentano, pare non vogliano più accettare prove così muscolari e totalizzanti.

Il problema esiste. Quando ero free lance ho fatto proprio la drammatica esperienza di essere risucchiato totalmente dal lavoro, dalle consegne da rispettare perché i clienti sono i clienti. E così non avevo più spazi per me. Sabati e domeniche assai spesso non esistevano. Se ci si imbarca nell’impresa individuale questo rischio è molto alto.

E in un’impresa, diciamo, strutturata, seppur giovane?

Il rischio c’è lo stesso. Dipende dalla concezione che si ha del lavoro in relazione al valore della persona. Da noi si lavora dal lunedì al venerdì, le classiche otto ore con orari flessibili. Sabato e domenica niente. Credo fortemente che sia giusto così. Non si riesce a ultimare il lavoro nei tempi previsti? Ne parliamo, vediamo insieme le criticità, ragioniamo sulle soluzioni possibili. La risposta non può essere quella di rimanere in ufficio la sera o portarsi il lavoro a casa. E neppure rovinarsi il week end. Per me vale l’esperienza che nel lavoro si porta la vita e nella vita si porta il lavoro. Esperienza e non frase fatta, oppure presupposto ideologico.

Sposato?

Mi sono sposato durante il Covid e oggi abbiamo un figlio.

Dove vivete?

A Milano.

Città carissima, i giovani si lamentano, come ci è riuscito?

Beh, mia moglie ha ereditato un immobile, viviamo lì. Altrimenti mica potevamo permetterci Milano, che oggi non è proprio una città per giovani: il caro casa è un problema molto serio.

E dove lavora?

Sempre a Milano, l’azienda è in una cascina con il naviglio della Martesana che scorre davanti. Ma per qualche anno, prima di quella sede, si lavorava in una struttura di coworking.

Tempo libero, visto che il lavoro è previsto non lo fagociti?

Lo dedico in particolare alla famiglia e agli amici e mi piace molto, pratico anche ogni tanto lo sport, tendenzialmente calcio, per non rimanere fermo. È fondamentale mantenere viva questa relazione con gli amici. Anche se gli spazi di socialità per noi giovani sono sempre di meno e questo facilita il fenomeno davvero preoccupante della solitudine e dell’individualismo. Ecco perché intendo il lavoro come un ambito di socializzazione. E così, migliorandone la qualità, si ottengono risultati interessanti. Perché senza le amicizie la vita è più povera. E quindi se sei solo sul lavoro fai fatica a essere ricco. La carenza di umanità è il tarlo dei tarli.

Come si tiene informato di quel che succede fuori casa e dall’ufficio?

Soprattutto attraverso internet. Il mattino ascolto la rassegna stampa di Francesco Costa su il Post: mezz’ora chiara, frizzante, un percorso esauriente nei fatti del giorno. E naturalmente trovo decisivo condividere con gli amici gli argomenti che più premono. Come adesso la guerra.

Sembra che i giovani avvertano sensibilmente il tema ambientale. Conferma?

Quello della sostenibilità è una questione decisiva. Troppo trascurata. Questo chiama in causa la responsabilità di tutti. Rispondere in modo rassegnato, “ma io che posso fare davanti all’emergenza che viviamo?”, è una brutta risposta. Come azienda abbiamo introdotto la certificazione di azienda sostenibile. Per noi si tratta di un segnale e un impegno concreto. Una presa di coscienza della persona che impatta sulle dinamiche di team. Parlare di crisi climatica, di surriscaldamento del pianeta puntando solo l’indice, non serve. Far sentire la nostra voce diventa una dinamica più efficace quando è sostenuta da gesti virtuosi. Anche piccoli, ma comunque virtuosi.

Speranze per il futuro?

Provare a costruire qualcosa di positivo. Contando sulla famiglia, sugli amici di sempre. E su quelli nuovi.

(Enzo Manes)

 

“Vivere il lavoro non temendo di chiedere”

Marco Erroi, manager

Qual è stata l’importanza per te dello studio? La questione della conoscenza rimane un punto centrale della tua esperienza quotidiana?

La rilevanza, enorme, dello studio universitario è stata amplificata per me da due esperienze di quegli anni. La prima: la scoperta che tutta la “benzina” rappresentata dalle mie domande, curiosità, desideri, passioni, ambizioni è stata accesa con effetto esplosivo nell’incontro con dei maestri. Penso in particolare a tre professori che, nel provocarmi ad andare a fondo del mio percorso di studi (per esempio andando a fare la tesi magistrale in America), mi hanno prospettato che scoprire, passo dopo passo, il proprio percorso di vita e professionale è un’avventura vertiginosa e impagabile. Vedevo in loro un modo di guardare e giudicare le cose molto più interessante del mio, e per questo ho iniziato un dialogo sincero con loro. Questo si sta rivelando fondamentale anche ora nel mio percorso professionale: chi sono i maestri che sto seguendo e da cui sto imparando?

La seconda esperienza è stata la rappresentanza studentesca, in cui mi aveva coinvolto un compagno di corso. Di lui mi aveva incuriosito come tutto quello che succedeva, dai fatti di cronaca a quello che accadeva in università, facesse emergere in lui la domanda: perché mi interessa? Perché non mi torna? Che giudizio do?

L’impegno con lui in questo servizio mi ha costretto a non rimanere alla superficie di quello che succedeva e che leggevo e a iniziare un vero percorso di conoscenza: di che si tratta? Come questa cosa c’entra con quello che sto vivendo e con quello che c’è intorno a me?

Il lavoro è una necessità oppure contiene qualcosa d’altro? Sei soddisfatto del tuo lavoro?

Per me la scoperta affascinante di questi primi dieci anni di lavoro è che il mio desiderio di imparare e le mie passioni, nell’impatto con le situazioni che mi trovo ad affrontare, possono suggerire quale percorso intraprendere. Ovviamente, nello svelarsi di questo percorso, non mi vengono risparmiate le sfide e le fatiche.

Penso a quando ho lasciato aperte per alcuni anni le domande su quali fossero quelle attività in azienda che non solo mi piacessero, ma che andassero a toccare di più “le corde” di come ero fatto io e che quindi potessero far emergere e valorizzare chi fossi io. Questo mi ha portato a fare una scelta importante di cambio di lavoro abbastanza controcorrente, ma i cui frutti si sono poi svelati successivamente, non per magia, ma per la lealtà con cui quelle domande erano state guardate e giocate.

Oppure quando, per alcuni anni, ho dovuto vivere una situazione molto tesa con un mio responsabile: questa è stata l’occasione per iniziare un “lavoro dentro il lavoro”, cioè un lavoro di consapevolezza e di conoscenza di me stesso, che mi ha portato a chiedermi dentro la battaglia quotidiana: ma io chi sono? Cosa mi fa stare in piedi in questa situazione?

Ecco, a proposito di questo: come vivi la responsabilità dentro il lavoro?

Nell’ultimo anno ho avuto un avanzamento importante di carriera attraverso l’assunzione di un ruolo di grande responsabilità. Per la prima volta mi sono trovato a dire: è vero che nel lavoro c’è sempre qualcosa di nuovo, che il mare è grande, però almeno il remo, prima, lo sapevo usare. Mi sembrava invece che questa nuova responsabilità così alta e, a mio parere, sproporzionata, fosse una cosa troppo grande, impossibile da gestire. Così, fin da subito, ho iniziato a vivere una sproporzione che mi bloccava, una paura. Il dialogo con un amico me l’ha ribaltata: “Guarda che questa sproporzione rivela il tuo grado di sanità, perché riconoscere che questa cosa è più grande di te, tanto da avere difficoltà a gestirla del tutto, fa emergere la coscienza di avere bisogno di tutto, e questo ti porterà a chiedere tutto”. Questo mi ha portato a chiedere un aiuto ai miei colleghi, a chiedere un supporto ai miei capi, a chiedere a mia moglie un aiuto nel guardare tutto di me in questa situazione nuova e piena di difficoltà, a chiedere una non scontatezza con i miei figli. Quello che per il mondo del lavoro spesso è una debolezza (perché se tu fai domande è perché non sai, quindi forse c’è un problema), per me, invece, ha iniziato a essere un punto di svolta nella giornata. L’ansia e le preoccupazioni che mi assalgono ogni mattina mi portano, anziché a mettermi una maschera e recitare un personaggio che non sono, a domandare tutto.

Famiglia e affetti: come li stai costruendo?

Sono sposato da otto anni e abbiamo due bambini. Di sicuro non una vita tranquilla, ma penso che questa sfida mi abbia costretto a fare i passi di consapevolezza più importanti.

Racconto al riguardo due episodi. Il primo: in un periodo molto movimentato come ritmi lavorativi e familiari, erano sorte tensioni con mia moglie, dove a tema c’erano diritti/doveri e chi fa che cosa. Poi però, nel dialogo con alcuni amici, dove ognuno di noi due presentava le sue rivendicazioni, ci siamo sentiti rispondere: “Ma perché tra voi parlate come due rivali, quando siete una cosa sola?”. Non è che le cose si siano risolte immediatamente, ma è iniziato un dialogo reale e sincero tra di noi non nel difendere una posizione, ma nel mettere lealmente davanti all’altro il bisogno che uno vive.

Secondo episodio: di fronte a una scelta lavorativa importante, un amico mi dice: “Perché non chiedi veramente a tua moglie cosa pensa? Se lei se la sente si parte, altrimenti no”. Questa cosa mi aveva lasciato senza fiato, perché uno dei dialoghi più belli e vertiginosi avuti in questi anni con mia moglie è stato in quell’occasione: “guarda, io mi sentirei di fare questa scelta per tutti questi motivi, ma ho bisogno che tu mi dica cosa vedi”. Quel dialogo ha trasformato il mio lavoro da “tematica” che mi gestisco io, a punto di provocazione per entrambi per scoprire di più la nostra strada e aiutarci nel cammino.

Sembra di capire che per te le relazioni e legami giocano quindi un ruolo decisivo, confermi?

Assolutamente sì, questa è la scoperta più affascinante che sto sorprendendo in questo ultimo anno: io sono dentro a un vortice (ritmi elevati, tensioni lavorative, sfide di ogni tipo), ma non appartengo al vortice bensì a dei volti e a dei legami che mi generano nel presente; è per questa intensità che sperimento con loro che posso giocarmi al 200% ogni giorno al lavoro.

(Martina Saltamacchia)

 

“Desideriamo più stabilità, così è un’ingiustizia”

Francesca e Marica, operaie metalmeccaniche

Francesca Borgese, 23 anni e Marica Cascino, 30 anni sono due giovani operaie che lavorano alla Omab, impresa di meccanica di precisione con sede a Sesto Ulteriano, alle porte di Milano sud.

Da quanto tempo siete in Omab e di cosa vi occupate?

Francesca: lavoro qui da due anni e mi occupo di assemblaggio. Anche in precedenza, ho sempre lavorato nella metalmeccanica. In Omab sto imparando tanto, è un lavoro che mi interessa molto.

Marica: sono otto anni che lavoro in questa azienda, su una saldatrice automatizzata. Mi piace molto quello che faccio.

I vostri studi?

Francesca: ho un diploma preso nel tecnico turistico. Però ho sempre avuto una passione per la meccanica, in particolare automotive e soprattutto auto d’epoca. Avrei voluto fare una scuola di questo tipo, invece mi è toccato il turismo.

Marica: ho dovuto lasciare il liceo psicopedagogico al quarto anno, per aiutare mia mamma. Però mi manca il diploma. Nel caso, molto meglio se lo avessi preso nella meccanica.

Vivete ancora in casa?

Francesca: sto ancora in casa con mia mamma a Peschiera Borromeo, in provincia di Milano. Ma spero di incontrare la persona giusta e costruire insieme la nostra vita. Per me non è facile parlare di affetti, pur essendo una ragazza piuttosto affettuosa. Ho perso mio papà che avevo due anni e mezzo e mio zio, che mi ha fatto da padre, quando avevo tredici anni. In pratica non avendo avuto un papà sugli affetti mi sento molto fragile, ho un po’ paura. Temo delusioni. Però ci spero. Sicuramente non faccio niente per evitare incontri che possano far nascere qualcosa di bello. Desidero una mia famiglia, dei figli…

Marica: Convivo con il mio compagno in un monolocale in affitto a San Giuliano Milanese, di più per il momento è impossibile, i prezzi sono troppo alti. A Milano, poi, è impossibile, non si trova nulla di accessibile. Figli? Ci penso, ma adesso, con la nostra situazione, è impossibile. Tanti amici, coppie che conosciamo, vivono il nostro stesso problema. La mancanza di stabilità è un’ingiustizia. Per noi giovani è dura.

Cosa fate nel tempo libero?

Francesca: Mi piace la musica, tutti i generi e ballare latino americano. Lo faccio nei fine settimana con un gruppo di ballo. E amo molto stare all’aria aperta, andare al mare insieme ai miei amici. Però, il tempo libero è diventato sempre di più una vera conquista; è sempre una corsa contro il tempo, si guarda sempre l’orologio. Non credo sia giusto. Nella vita ci deve essere spazio per tutto.

Marica: rimane così poco per il tempo libero. Il mattino mi alzo alle sei, sistemo e via al lavoro. E quando rientro a casa c’è sempre da fare. Allora, a volte, si tratta di decidere e mi dico: “Marica oggi lascia perdere, prendi ed esci”. Diciamocelo: noi donne siamo molto discriminate nella vita di tutti i giorni. Non siamo tutelate a sufficienza. In pratica, siamo sempre al lavoro. Tra amiche e colleghe parliamo spesso di questo. È anche una forma sincera di solidarietà.

Come vi tenete informate?

Francesca: su internet, si trova tutto. La guerra preoccupa, anche se non è qui. Non riesco a pensare a come sarà la nostra vita fra una decina d’anni. Ci sono molti problemi, la questione climatica, ad esempio, è un fatto drammatico. Ma chi se ne sta occupando seriamente? In queste condizioni, per noi giovani, il futuro è davvero complicato. Tra i miei amici, dei quali alcuni sono laureati e diplomati, molti non trovano lavorano. Altri sono sottopagati. Come si fa ad avere fiducia nel domani?

Marica: leggo molto, soprattutto su internet. Mi piace informarmi. Ho una grande passione per la natura e gli animali; anche per questo sono sensibile all’argomento dell’emergenza ambientale. Quando leggo articoli o ascolto le notizie sul riscaldamento del pianeta e sui potenti che non si mettono d’accordo, vivo un misto di delusione e rabbia.

Quali speranze avete per il futuro?

Francesca: Vivere in un mondo così caotico non ci fa bene. Senza dubbio qualcosa occorre fare. L’anno scorso mi ero addirittura candidata in una lista civica del mio paese; mi sono buttata, ho ascoltato tanto, ho cercato di capire, il mio era un desiderio genuino. Invece, mi sono accorta che un confronto vero non c’è mai stato. Tutto era già deciso prima. Una vera delusione. Della politica non mi fido più. Anche se non mi piace l’eccessivo menefreghismo che vedo in noi giovani.

Marica: Non mi convince per niente una crescita del pianeta così industrializzata. Ci vuole più equilibrio, ci stiamo spingendo troppo oltre. Bisogna tornare a dare valore anche alle piccole cose. La mia passione per la natura e per gli animali mi ha facilitato a pensarla così. E poi vorrei più uguaglianza sociale, ci sono troppe persone che non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena. E insisto: che le donne vengano finalmente rispettate come un uomo. Come mi piacerebbe vivere in un mondo dove non conti più l’apparenza, il consumismo. Noi giovani dobbiamo far sì che i grandi aprano un po’ la loro mente!

(Enzo Manes)

 

“Il ‘disordine’ della mia vita lo considero un grande alleato”

Filippo Campiotti, politico

Ho 29 anni, sono sposato con un figlio, vivo a Bergamo e sono ingegnere, laureto al Politecnico di Milano. Ho deciso di impegnarmi in politica con Italia Viva.

Quando sono uscito dall’università, grazie all’esperienza di amicizia, di lavoro politico e di studio, ho capito meglio alcuni aspetti della mia personalità.

Da sempre guardo con invidia chi nasce con una passione sfegatata e ben chiara, tale da determinare totalmente il suo tempo libero, i suoi studi, i suoi impegni. Purtroppo – o per fortuna – non è il mio caso: ho sempre avuto molte passioni e interessi che mi hanno destato grande curiosità e perciò sono sempre stato confuso rispetto a quello che avrei voluto fare nella vita.

Col tempo ho scoperto gli aspetti vantaggiosi di questo tratto di personalità: non solo questa curiosità diffusa, più orizzontale che verticale, si è poi rivelata una grande alleata per l’interesse che in questi anni sta emergendo in maniera preponderante, quello politico; ma questa condizione mi ha anche fatto scoprire un modo molto interessante di vivere la vita. Oserei dire che niente di quello che faccio oggi è frutto di una mia ricerca: ho imparato ad andare dietro alle cose che succedevano. Anche, e soprattutto, per il percorso di fede che ho la fortuna di vivere, ho scoperto che vivere tutto l’impatto con le cose per come le incontri è il modo per conoscere davvero la realtà, te stesso (che sei un pezzo di realtà) e quindi di entrare in rapporto con gli aspetti misteriosi della vita. Inoltre, andare dietro a quello che mi succede mi rende molto libero: non ho niente da difendere, non ho niente da preservare, non ho niente da perdere. È sempre tutto da incontrare e guadagnare.

Questo è valso anche per gli studi, aspetto della mia vita in cui ho sempre fatto una certa fatica, nonostante ci fosse sempre un interesse genuino. Ne ho sempre colto l’importanza e la bellezza e, in una certa fase della mia vita, grazie ad alcuni amici, studiare è stato la possibilità di capire, insieme ad altre esperienze, che la realtà è bella da approfondire, da conoscere: entri in rapporto con la vita. Questa esperienza iniziava a valere per tutto, ed è esplosa con l’esperienza della rappresentanza studentesca: impegnarmi in università ad andare oltre a quello che si vedeva e si viveva, a entrare nei meccanismi, mi ha fatto godere dell’università come mai avrei pensato, anche dello studio!

È bello immergersi nella realtà perché ti dà gli strumenti per conoscere e capire di più te stesso. Alla confusione di cui dicevo all’inizio è seguita una chiara passione nel capire come funzionano le cose, una grande inclinazione naturale a organizzare, gestire e programmare, un forte desiderio di impegnarmi per gli altri, per dare il mio contributo e migliorare le cose e, infine, un’inclinazione alle relazioni e al mondo politico. Aspetti che mi son trovato tra le mani e che tutt’oggi cerco di mettere a frutto al meglio. La vicenda è ancora aperta ma più vado avanti più capisco aspetti che mi portano a intraprendere strade impensate.

In questo percorso sono state importantissime le amicizie, come porto sicuro di condivisione e compartecipazione alla mia vita e apertura totale alla realtà: così sono nate anche le attività extra-lavorative, come l’associazione di circa 70 persone che abbiamo oggi, nata per aiutarsi a fare politica. E questo arriva ad occupare tutto il tempo libero che hai, fino a farti pensare di non avere tempo libero e neanche più accorgerti che sei così preso da come lo impegni che non lo consideri neanche più “libero”.

Oggi vivo ancora questo “disordine” della mia vita, che ormai considero un grande alleato: mi aiuta a capire chi sono e che cosa posso dare. Il lavoro, in particolare, è il momento della giornata in cui mi trovo più di frequente a fare i conti con questa domanda di “utilità” al mondo. Poi, più passano gli anni più il lavoro è anche lo strumento concreto con cui sostenere la famiglia e la vita, e lo sto scoprendo come aspetto non meno ideale di altri. La coscienza che il lavoro sostiene, anche materialmente, la nascita e la crescita della mia famiglia carica il lavoro di un ideale enorme.

E di questo sostegno c’è un gran bisogno: la famiglia è uno di quegli aspetti che, vivendo a fondo, fa emergere gli spunti che mi spingono all’impegno politico; oggi nella mia vita noto certe difficoltà e sono portato a guardarle con attenzione e a pensare soluzioni. Un po’ sono così per carattere, ma regna la convinzione che se c’è qualcosa della realtà che mi stimola, approfondire porta sempre a qualcosa di utile. Tant’è che, nel mio attivismo politico, le preoccupazioni e i temi sui quali maggiormente mi impegno sono quelli legati alla mia storia o che hanno impattato per qualche motivo il percorso con gli amici con cui faccio politica. L’aspetto della disuguaglianza generazionale, le infrastrutture, la famiglia, l’istruzione, il lavoro (soprattutto per i giovani). Ma poi si allarga: abbiamo approfondito con grande curiosità il tema dei cambiamenti climatici perché provocati dall’attenzione del Papa sul tema e dalla superficialità con cui veniva affrontato, scoprendo che un approccio libero, che desidera “incontrare” la realtà e conoscerla può dare molto più di quello che immaginavi stando arroccato dentro a convinzioni non troppo strutturate. Oppure, quando mi sono candidato alle regionali, a un certo punto io e chi con me lavorava, ci siamo accorti che tra le cose su cui ci stavamo preparando rimaneva fuori la sanità, che è un tema centrale per le regionali ma che con la mia vita fino a oggi fortunatamente c’entrava poco o niente. Ma la circostanza delle elezioni chiamava e allora ci siamo messi ad approfondire il tema e incontrare persone che potessero in qualche modo darci delle idee e delle conoscenze, ed è stato un lavoro affascinante.

Così mi sento di stare nel mondo non girando intorno al mio ombelico, ma essendo parte di un puzzle, in armonia con il disegno complessivo.

 

“Sono riuscito a mettere le mani in pasta”

Anas Bedda, cuoco, imprenditore, insegnante, tutor

Ho sempre sognato di fare il cuoco. Ci sono riuscito. Oggi a 28 anni so come mettere le mani in pasta. L’ho imparato, perché ho trovato un posto dove mi è stata offerta la possibilità di imparare come farlo. Quel posto è la Piazza dei Mestieri, un luogo di educazione, di formazione, di opportunità. L’ho incontrato qui, a Torino, dove vivo. Dopo qualche delusione, dopo più di una sconfitta.

Vengo dal Marocco, sono nato in un centro a pochi chilometri da Casablanca. Da ragazzo, con mia mamma, mio fratello e mia sorella abbiamo raggiunto mio papà a Torino. Siamo una famiglia molto unita; io credo molto nel valore della famiglia anche se vedo che oggi non tanti la pensano come me, specie fra i giovani. Siamo una famiglia dove tutti sanno cucinare. Qualcosa vorrà pur dire se oggi sono diventato un cuoco e mio fratello fa lo chef.

A Torino mi trovo bene, è una città multietnica e questo mi ha messo a mio agio. All’inizio ho faticato con la lingua, così ho cercato di imparare l’italiano il più velocemente possibile. Devo dire che a me piacciono le lingue, mi piace conoscerle e farmi capire nel Paese dove mi trovo. A sette anni ho fatto il mio primo lavoretto: guardiano delle macchine. Con le mance mi compravo il latte, ne sono particolarmente goloso. Ho anche lavorato nelle giostre. Tutto bene, allora? Mica tanto. Quando ho iniziato a frequentare un istituto alberghiero sono venuti fuori i problemi. Allora ero una testa calda, un tipo un po’ troppo ribelle. Irrequieto è dir poco. Mi mettevo sempre di traverso con tutti. Ne ho fatti di casini! Una volta ho esagerato e così sono stato sospeso. Con la minaccia di essere espulso. A quel punto ho preso la decisione di mollare, già studiavo poco, da quel momento non l’ho più fatto. Al rientro dopo la sospensione, entravo in classe, ma era come se non fossi più entrato. Non poteva che finire con una bocciatura, il diploma non l’ho preso. Con il rischio concreto di veder naufragare qualsiasi mio sogno. Qualsiasi mio desiderio come quello di fare il cuoco.

Poi, ecco una possibilità concreta di ripartire. Per un giovane è decisivo incontrare sulla propria strada possibilità vere per ricominciare; purtroppo non è facile che ci siano. La mia possibilità di ripartire è stata la Piazza dei Mestieri. Lì ho scoperto insegnanti che mi hanno trattato come persona, con dignità, come un giovane che aveva dei problemi ma che non era rassegnato. Intendiamoci, all’alberghiero mi sono comportato molto male, però non ho avuto insegnanti così ben disposti verso di me, che hanno saputo provocarmi e stimolarmi per il mio bene, per farmi crescere. Mi hanno messo alla prova, dato una chance. Un’insegnante mi ha affidato un lavoro di tutor con i ragazzi più giovani; molto tosti, teste piuttosto calde. Un’esperienza non facile, avevo carta bianca, ma ero spaventato. Li ho guardati e mi sono rivisto. Ho capito che potevo aiutarli, conoscerli e così conoscere meglio anche me. Da lì sono ripartito per davvero. In seguito, ho iniziato a insegnare, ho proseguito a fare il tutor: i ragazzi li vedo crescere, respirare; spesso li porto all’aria aperta, sono felici. Quanto è salutare una bella boccata d’aria! Mi sono buttato nell’attività imprenditoriale, ho aperto un punto di ristorazione in città, che prende il nome dal mio cognome: Bedda. Insomma, la mia storia dice che un giovane ce la può fare se non rinuncia, se trova un punto vivo. È chiaro che non è semplice, che bisogna fare sacrifici. Che lo studio è lo studio; che il lavoro è il lavoro. Io, ad esempio, il sabato sera lavoro sempre, non sono in giro a divertirmi, anche se mi piacerebbe; nel poco tempo libero che ho vado a pescare e dopo il lavoro mi piace suonare le percussioni, spesso vado sulla collina di Superga e suono.

Comunque, posso dire che nella vita ho sfruttato la chance che mi è stata offerta. Conosco tanti giovani che non ce l’hanno fatta. Forse non hanno trovato qualcuno disposto a conoscerli. E questo fa male. Certo, la società non aiuta molto, i giovani non hanno voce, non vengono ascoltati. E questo è molto sbagliato. Però la responsabilità di questa situazione è anche di noi giovani. Dicevo dei sacrifici, si fanno se ne vedi le ragioni e io li faccio per la mia piccola impresa. Con il Covid abbiamo dovuto chiudere, non ce la facevamo più ad andare avanti. Ma non ho rinunciato. Così ho riaperto l’attività da solo, mentre prima c’erano anche mio fratello e mia sorella. Mi sento un piccolo imprenditore che sta ancora imparando il suo mestiere. Al “Bedda” porto tutto della mia vita: l’educazione in famiglia, quello che ho vissuto da studente alla Piazza dei Mestieri, il mio impegno di insegnante e tutto il resto. Compreso il bello che sto vivendo nella mia relazione affettiva: convivo con una giovane di venticinque anni che fa l’operatrice socio sanitaria. Siamo contenti. Pensiamo di sposarci, anche se non è semplice mettere su casa. Io sono musulmano, lei, Giusi, è cristiana, salentina, di Massafra. Il fatto di avere due diverse religioni non è un problema. Io sono per il libero pensiero. Faremo un matrimonio civile. Mi spaventano le divisioni causate dall’uso distorto della religione che per me è molto importante. Quando vivi per davvero quello in cui credi non puoi che apprezzare la libertà della persona che hai di fronte. E poi, nell’amore, la persona non ti è davanti, ma è al tuo fianco. Il massimo.

Viviamo, purtroppo, in un tempo di guerra. I giovani devono impegnarsi per la pace, non stare zitti. Credo che costruire una famiglia sia una bella risposta contro la mentalità della guerra, della divisione. Una famiglia può essere un luogo di cultura di pace. Giovani come noi che progettano una famiglia possono essere un bell’esempio di una pratica di pace. Questo è un modo concreto di far sentire la propria voce.          

(Enzo Manes)

 

“Scrivo per mettere a fuoco punti della mia vita”

Capez, rapper

Alberto Capetti, in arte Capez, racconta la sua esperienza di rapper emergente a Milano: la fast life della vita universitaria, l’importanza delle amicizie e la musica per fare luce su di sé.

Come affronti la vita?

Penso di affrontare la vita come molti giovani universitari di Milano: con tanti alti, ma anche un po’ di bassi, distrazione e disordine. Ammetto di avere bisogno di un ordine, affinché le cose belle che vivo possano consolidarsi sempre di più. La mia vita ha un ritmo accelerato, che da un lato è bello perché si vivono tante cose; dall’altro, però, non avere un ordine rischia di diminuire la coscienza di quello che vivo.

Durante i tuoi anni di formazione, che importanza ha avuto lo studio per te?

Lo studio è un privilegio di cui mi sono reso conto lavorando. Durante l’esperienza come cameriere molti miei colleghi invidiavano la mia posizione di studente e mi invitavano a non fare la loro scelta di abbandonare gli studi. In età adolescenziale lo studio per me è stato una misura e io ho faticato tra voti e pressioni. Da quando è aumentata la mia confidenza con lo studio in università, a Lettere moderne, invece, ho capito quanto sia fondamentale per la mia crescita. Nella vita serve una mente aperta e lo studio ti permette di acquisire uno sguardo più articolato sul mondo: vivi facendo i conti con il peso e la ricchezza della storia.

E l’amicizia?

Per molto tempo, studiare e vivere le amicizie sono state due cose divise. Negli ultimi anni, le due cose si stanno facendo sempre più vicine. Forse perché se lo studio apre la mente, le amicizie aprono il cuore. Le amicizie sono invadenti: un amico è una persona che ti corregge, disposta a litigare con te, avendo a mente il tuo bene. Inoltre, l’amicizia è qualcosa che costruisce chi sei, dice qualcosa della tua identità. E questo perché tu diventi i tuoi amici. Mi spiego: le scoperte che fai tu sono le scoperte dei tuoi amici, così come le tue gioie e le tue sofferenze. Un amico cambia tutto, la tua esistenza diventa rapporto con qualcun altro. È come far parte di una famiglia, sei sempre in rapporto con i tuoi genitori o fratelli, che tu lo voglia o no.

Come ti piace occupare il tempo libero?

Ho un sacco di tempo libero e lo divido in due categorie. Da una parte c’è il tempo libero del riposo del corpo: di solito guardo un film. Dall’altra c’è il tempo libero del riposo dello spirito: provo ad approfondire me stesso nel silenzio, nella solitudine o nel rapporto con gli amici; oppure vivo la musica, scrivendo pezzi o suonando.

Passiamo a un altro tema: famiglia e amore. Pensi mai a dare una forma all’amore?

Sinceramente non vivo un amore adesso. In passato ho avuto questo desiderio. Penso che sia uno dei modi in cui l’uomo si compie e riconosco un fascino nell’idea di un amore che culmina in una famiglia.

Pensi di avere degli ideali? Quanto sono importanti per te?

La mia fede cristiana. Potrebbe sembrare anacronistico nel 2023 parlare di fede, però è così. È qualcosa che vivo in prima persona ogni giorno e che non saprei tradurre in aforismi o in un motto.

Ti preoccupa il futuro del pianeta?

Sinceramente sì, molto. Mi spaventa vedere da una parte un allarmismo isterico e dall’altra una politica sorda. Mi sembra, inoltre, che ci sia poca coscienza a livello individuale.

In definitiva, cosa ti aspetti dal tuo futuro?

La mia ricerca è composta da due elementi. Primo, un successo (anche piccolo) che mi consenta di fare ciò che amo: il mio lavoro. Secondo, un compimento personale, qualcosa che si misura in termini di maturità; non vorrei confondere questi piani.

Veniamo al rap. Come sei arrivato a questo linguaggio?

Il mio legame col rap ha a che fare con la città in cui vivo, Milano, una metropoli e il linguaggio delle metropoli è il rap. In un’intervista Tupac spiega perché ha fatto il rapper: voleva scrivere, ma sapeva che i poeti erano poco conosciuti, mentre i rapper erano delle rockstar. Mi ci ritrovo, credo che fare il rapper sia un modo di essere scrittori oggi. Ho sempre avuto un’inclinazione verso la scrittura e il rap si è rivelato ideale ad accoglierla.

Cosa vuoi comunicare con i tuoi testi?

Non ho un intento di partenza quando scrivo. Ho iniziato a scrivere per un motivo terapeutico: volevo mettere in luce degli aspetti della mia vita. A un certo punto, mi sono accorto che il risultato della scrittura dei miei testi poteva avere una ricchezza condivisibile anche con gli altri. Scrivo per mettere a fuoco punti della mia vita, scavando anche su aspetti piccoli, a volte. Di fatto, scopro alla fine il significato di ciò che scrivo, il mio processo creativo è frutto di questo scavare. Ad esempio, durante la scrittura di una mia canzone dal titolo Paradiso, ogni giorno mi svegliavo e vedevo in camera mia questo appunto: “Paradiso”; ho approfondito così la domanda “ma per me cos’è il Paradiso?”; ho iniziato, dunque, a scrivere dei versi e nel tempo la canzone ha lavorato dentro di me.

(Alessandro Dowlatshahi)

 

“Ci vado ancora, ma non do tutto”

Cristina, frequentatrice di centri sociali

Cristina, vent’anni, è iscritta alla facoltà di Servizio sociale dell'università di Milano-Bicocca. Frequenta i centri sociali.

Hai votato per la prima volta due anni fa. Come hai vissuto questo importante evento?

La prima volta che ho votato ero molto confusa, ma anche felice, sentivo che finalmente potevo dare qualcosa di mio agli altri, alla gente e allo Stato. La mia opinione avrebbe contato qualcosa, tenuta in considerazione.

Queste sensazioni sono state confermate?

No, in realtà non credo che il voto serva veramente a qualcosa di concreto. Noi giovani, in fondo, pensiamo che alla fine i politici fanno quello che vogliono, malgrado il voto. Non ci sentiamo rappresentati da questa classe politica e dalle istituzioni. Pensiamo che le cose non cambieranno anche se andiamo a votare.

Ma voi giovani cosa vorreste che i politici prendessero in considerazione? Quali sono le cose che desiderate?

Vorremmo che venissero valorizzate le nostre capacità, i nostri valori, i nostri desideri. Vorremmo che credessero che noi giovani possiamo fare qualcosa di concreto. Vorremmo essere valorizzati.

Ad esempio?

Un lavoro dignitoso pagato dignitosamente.

Oltre a questo?

Siamo consapevoli che non abbiamo mezzi, risorse, aiuti per poterci emancipare ed essere indipendenti. I dati dimostrano che fino a trent’anni le persone non vanno via dalla casa dei loro genitori, mentre in tanti Paesi europei avviene molto prima. Questo perché sono Stati che forniscono sussidi, sostegno economico. Come si fa ad andare via di casa quando a Milano gli affitti costano tantissimo e ci sono un sacco di appartamenti sfitti o abbandonati e chi di dovere non fa nulla per sbloccare questa situazione? L’accesso alle case popolari è burocratizzato secondo criteri che invece dovrebbero essere universali. Una persona che è residente a Legnano, ad esempio, non ha diritto a mettersi in lista di attesa per le case popolari a Milano, perché non risulta residente.

Che altro tipo di malcontento provate?

Ci sentiamo oppressi perché gli adulti hanno da ridire sulla nostra vita privata. Ci dicono come dobbiamo diventare adulti, come dobbiamo mettere su famiglia, che dobbiamo fare figli (a parte che tanti di noi non pensano neanche a fare figli perché costa un sacco di soldi mantenerli). Però ci dicono cosa dobbiamo fare e come dobbiamo vivere; persone più grandi che non mi conoscono si permettono di dirmi che devo per forza sposarmi e fare figli e questo io non lo accetto.

Invece voi avete una visione differente dei rapporti e della famiglia? Volete avere la creatività di dare risposte nuove a problemi vecchi, è così?

Molti miei amici sono figli di coppie separate, ma non pensiamo per questo che il matrimonio non abbia valore. Il fatto è che in questa epoca storica, durante la quale sono in atto moltissimi cambiamenti, nella quale c’è un forte individualismo e in cui viviamo in metropoli enormi con grandissimi disagi, il senso di insicurezza per il futuro prevale. Viviamo pensando a cosa succederà domani, viviamo alla giornata, non abbiamo certezza del futuro.

Nel tuo percorso personale hai frequentato i centri sociali. Una volta dal Leoncavallo si usciva per andare a manifestare politicamente, oggi sembra una sorta di ghetto, di città nella città.

Ho cominciato a frequentare i centri sociali a 16 anni perché cercavo il mio gruppo di appartenenza, volevo esplorare la realtà. È vero che i centri sociali sono delle nicchie, ma le cose sono in continua evoluzione. Il Leoncavallo, ad esempio, per noi è qualcosa di superato, appartiene al passato, ci vanno persone di una certa età che ci hanno messo le radici e non c’è apertura al mondo.

Nel centro sociale che frequentavi tu cosa facevate? Cosa hai imparato?

Ho imparato il concetto di autogestione, capire che hai delle responsabilità verso il posto e gli altri, impari a prendertene cura, a pensare a quel luogo come qualcosa di vivo.

C’è qualcuno che vi diceva cosa fare, che coordinava le attività?

No, si decideva in base al concetto di collettività. La riunione settimanale è fondamentale, c’è una distribuzione di compiti. Io in cucina, chi al bar, chi alla cassa; si decide in base a cosa uno sa fare, la distribuzione dei ruoli è molto flessibile. Ogni settimana aprivamo alla mattina preparando il pranzo per tutto il quartiere. Da noi venivano anche i giornalisti in giacca e cravatta del Sole 24 ore che aveva la sede di fonte a noi, perché costava meno degli altri locali. Si puliva, si facevano assemblee in base a cosa stava succedendo. Ci domandavamo: di questo cosa ne pensiamo? Magari del Kurdistan: vogliamo fare qualcosa per i curdi? Gli appartenenti al centro sociale Lambretta fanno tante cose, vanno anche in Kurdistan, noi eravamo più legati a Mediterranea, una non profit che aiuta i migranti.

Hai smesso di andare?

Sì, si erano create dinamiche che non mi soddisfacevano più, per le quali si aspettavano che andassi sempre a fare tutto ma io volevo dare precedenza allo studio.

Ti sentivi usata?

Si diceva sempre che lo studio è importante, poi invece non potevo studiare al pomeriggio perché dovevo andare in assemblea. Oggi frequento ancora i centri sociali, ma senza altro ulteriore impegno.

Hai detto che cercavi il tuo gruppo di appartenenza. Tu sei cresciuta in una famiglia tradizionalmente cattolica, hai frequentato l’oratorio e anche l’associazionismo studentesco cattolico. Come mai hai deciso di frequentare altri ambienti? Che ideali perseguivi nel tuo percorso?

Quello cattolico era un ambiente che non mi ha mai attirato molto. C’era un approccio troppo schematico, molto snob, molto chiuso, non mi sentivo accettata, anzi esclusa. Sono sempre stata attratta dal sociale, dagli ultimi e l’ho trovato molto di più nei centri sociali.

Quanto è importante lo studio? Hai scelto una facoltà particolare come scienze sociali, mentre molti ragazzi cercano corsi universitari che garantiscono un posto di lavoro sicuro. I giovani che frequenti come scelgono il percorso di studi?

Mi sembrava scontato dopo il liceo fare l’università. Ho scelto scienze sociali perché offre un bel compromesso di materie, ero indecisa tra giurisprudenza e sociologia. Volevo studiare sia il diritto che le materie umanistiche, mi piaceva poi l’idea del tirocinio dopo il secondo anno.

In definitiva cosa speri? Come ti immagini il futuro? Che impatto hanno i tanti problemi come la guerra e la globalizzazione?

Hanno sicuramente impatto, personalmente spero che cambi la classe politica per dare spazio ai più giovani. Sono convinta che i giovani possano portare un cambiamento, non ci facciamo dei piani per il futuro e sappiamo che domani potrebbe esserci una nuova pandemia, viviamo un po’ alla giornata, prendiamo le palle al balzo, abbiamo capito che può succedere qualunque cosa in questa epoca di incertezze.

(Silvia Becciu)

 

“Mi diverto, ma la vita reale è un’altra”

Klizia Costa, calciatrice

27 anni, originaria di Pregnana Milanese, laureata in Business Management negli USA, fin da bambina ha giocato a calcio. Da 6 a 12 anni ha giocato nella Polisportiva Barbaiana (con i maschi). Da 15 a 16 anni nell’Inter Femminile, poi a seguire: Villa Cortese, Ossona, Nerviano, Vighignolo. Klizia è andata in America per curiosità, approfittando del fatto che i college americani offrono borse di studio a chi pratica uno sport.

Come mai ti sei laureata negli Stati Uniti?

Studiavo Economia aziendale all’Università Cattolica di Milano, poi, spinta dalla curiosità e approfittando di una borsa di studio, ho concluso gli ultimi due anni e mezzo che mi mancavano laureandomi in Business Management alla Lindenwood University Belleville in Illinois. Dal punto di vista legale la mia laurea vale in tutti i Paesi europei tranne che in Italia.

Cosa dovresti fare per vedertela riconosciuta?

Dovrei pagare una certa somma e sostenere alcuni esami perché alcuni di quelli che ho fatto in America non sono riconosciuti in Italia.

Questo ti impedisce di trovare lavoro?

Assolutamente no, alle aziende non interessa che la mia laurea non sia riconosciuta legalmente, interessano le mie competenze. Ma non posso prendere parte ad alcun concorso pubblico perché la mia laurea non è riconosciuta dallo Stato italiano.

Perché hai deciso di studiare in America?

Mi piacciono le lingue ed ero curiosa. Un’amica mi aveva detto che se fai una attività sportiva le università americane ti danno una borsa di studio, metà per meriti di studio e l’altra metà per giocare nelle loro squadre.

Tu sei una giocatrice di calcio?

Sì. Gli americani tengono tantissimo allo sport, per loro è importantissimo. Se per caso non vai bene nello studio, ti revocano la borsa di studio.

A livello sportivo sono avanti?

A livello sportivo sono avanti, lo sport è curatissimo. Facevo preparazione sportiva tre volte al giorno alzandomi la mattina alle cinque. Se non puoi andare a lezione perché hai un impegno sportivo o ti sei fatto male giocando, sei giustificato sempre.

E l’ambiente come era? Come ti trovavi con gli studenti e i professori?

Mi sono trovata molto bene. Mi ha colpito che i docenti universitari fanno tutti un doppio lavoro, oltre a insegnare collaborano con aziende. Molti di loro mi dicevano che potevano raccomandarmi per trovare un posto di lavoro in qualche società. Tutti fanno un po’ tutto. Hanno solo una mentalità diversa, non si godono la vita come noi.

Cioè?

Fanno di tutto per guadagnare il più possibile, però non si godono i soldi, si comprano delle grandi case per fare feste con gli amici nei weekend, ma se durante la settimana dici loro: “Andiamo a farci un aperitivo” dicono di no perché vanno a letto prestissimo.

È per questo stile di vita che hai deciso di tornare in Italia?

Avevo molte possibilità di lavoro, è molto facile trovare una occupazione in America. Ma ho preferito tornare perché non mi piaceva il loro stile di vita. Se devo lavorare per non godermi i soldi, allora non mi sta bene.

Adesso cosa fai?

Sto finendo un corso di studi e aiuto mio padre nel panificio di famiglia.

Hai difficoltà a trovare lavoro? Che idee hai per il futuro?

No, con la mia laurea di lavoro in Italia potrei trovarne, ma non ho le idee chiare per il mio futuro. Soprattutto perché sono delusa dal fatto che in Italia ti presentano l’offerta di lavoro in un certo modo, poi l’attività è un’altra.

Spiegaci.

Ti offrono un posto, ad esempio come junior manager, ti fanno delle job description allettanti, piene di termini in inglese e poi scopri che il lavoro che andrai a fare è solo customer care, una cosa di basso livello e anche pagata poco.

Tu giochi a calcio da sempre, come è nata questa passione?

Sin da piccola avevo sempre un pallone fra le mani, amo il gioco del calcio. Fino ai 12 anni in Italia maschi e femmine giocano nella stessa squadra, poi ci si divide in base al sesso, maschi da una parte e femmine dall’altra. Quando avevo 16 anni hanno cominciato a nascere le prime società di calcio femminile e ho ripreso a giocare, inizialmente nell’Inter femminile.

Oggi il calcio femminile è diventato molto popolare…

In gran parte è apparenza. Dal punto di vista tecnico, a livello europeo siamo indietro di almeno vent’anni e, soprattutto a livello economico, non ci sono soldi. Quello che nessuno dice è che le squadre maschili hanno bisogno di avere una loro squadra femminile perché così guadagnano punteggio nelle graduatorie, poi però la squadra femminile viene trascurata. Se vinci un campionato e vieni promosso in serie C non puoi salire di categoria, perché ci sono dei grossi costi economici, non si fanno investimenti e non si trovano sponsor che investano nelle squadre femminili.

Ci sono però calciatrici che lo fanno a livello professionale.

Sì, ma guadagnano un centesimo di quello che guadagnano i maschi. Una mia amica – che oggi gioca nell’Everton in Inghilterra – giocava nella Juventus e non la pagavano niente, solo gli sponsor le regalavano magari le scarpe da calcio. Tutte le spese erano a carico dei suoi genitori. Le poche giocatrici che hanno uno stipendio, al massimo guadagnano 2/3mila euro al mese; se pensi che al più tardi a 40 anni finisci l’attività, non è un buon modo di vivere.

Ma tu continui a giocare.

Sì, mi piace e mi diverto, perché no? Sono però cosciente che la vita reale è un’altra, anche se non so ancora che strada prenderò.

Sei interessata alla politica, vai a votare?

Diciamo che potrei votare ma non lo faccio. Quando ti senti dire “vota il meno peggio”, come fa un giovane a entusiasmarsi, a credere che valga qualcosa votare? Chiunque sale al potere fa quello che vuole.

Vi sentite trascurati?

I politici dicono sempre le stesse cose ma non si occupano mai di obiettivi concreti. Tutto sta aumentando a livello vertiginoso ma gli stipendi sono sempre gli stessi di vent’anni fa. Recentemente mi avevano offerto un impiego full time, 40 ore settimanali a 300 euro: gli ho chiesto se mi prendevano in giro, con quella cifra non ci pago neanche l’abbonamento del treno per arrivare a Milano.

Guerra in Ucraina, crisi ambientale, come vedi il futuro?

Sono abbastanza preoccupata, anche se guerre come quella in Ucraina si stanno rivelando pura speculazione economica. Tutto è aumentato e nulla tornerà come prima. Se ne parla tanto perché oggi c’è una comunicazione mediatica globale, una comunicazione su cui non puoi fare alcun affidamento perché sul web ognuno dice quello che vuole e non puoi verificare cosa è vero o no.

Famiglia e relazioni affettive? Sono obiettivi importanti?

Certamente mi piacerebbe costruirmi una famiglia, anche se non credo nel concetto tradizionale. I miei genitori sono divorziati, ad esempio. Non mi interessa che etichetta danno a una relazione, se sia convivenza o unione gay, basta che venga rispettata la mia libertà personale. Ognuno faccia quello che vuole.

Le giovani generazioni non fanno più figli, è un problema grosso, che cosa ne pensi?

Per forza, come facciamo a mettere al mondo un bambino con i costi che ha? Non posso neanche permettermi un appartamento mio. Un figlio lo vorrei avere, certamente, anche se non mi preoccupo se averlo insieme a un compagno o crescerlo da sola. Oggi i ragazzi fuggono dalle responsabilità, difficile trovare qualcuno che voglia diventare padre. Le relazioni sono superficiali e frivole, si vivono al momento tanto si pensa “domani trovo un’altra ragazza”.

(Paolo Vites)

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