Trimestrale di cultura civile

La politica? I giovani preferiscono “stare in disparte”

  • AGO 2023
  • Ugo Finetti

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Il disinteresse del giovane verso l’impegno politico è l’esito di uno scetticismo di fondo nei confronti dei partiti, incapaci di svolgere una funzione “calamita”. In quei corpi intermedi è del tutto assente una visione, un pensiero forte. E questo ha provocato lo scollamento che vediamo. Si tratta di un fatto traumatico, che deve interrogare. Visto che in passato le generazioni giovani si erano mobilitate partecipando alla vita politica italiana. Oggi non è più così. E la ormai lunga stagione del loro disimpegno va inquadrata all’interno di una criticità sostanziale che riguarda nel complesso la loro vita.

“C’erano cose che non capivo, cose che non mi piacevano e cose per cui valeva la pena di combattere”: così Arthur Koestler ricorda la giovanile decisione di un impegno politico militante, anche se tutto non gli era chiaro e gradevole.

Oggi ci si interroga sul disinteresse dei giovani verso un engagement. Impegnarsi significa “schierarsi” e rispetto al dopoguerra e alla Guerra fredda, le idee sembrano più “liquide”.

Quali sono “cose per cui vale la pena di combattere”, tali anche da prevalere su ciò che non piace o non si capisce, che la politica offre alla passione e all’intelligenza di una nuova generazione? Oggi secondo i sondaggi – da Nando Pagnoncelli ad Alessandra Ghisleri – i giovani risultano non solo in gran parte scettici e disimpegnati verso la politica, ma per quanto riguarda le intenzioni di voto essi appaiono divisi non in modo contrapposto: indecisi e oscillanti, disponibili a votare, a pari merito, tra partiti destra o di sinistra – principalmente Fratelli d’Italia e M5S – senza cogliere una traumatica diversità. Non ci sono particolari “calamite” che attraggono e orientano. Nel panorama politico manca “anzitutto verso i giovani – come ha sottolineato recentemente lo storico Massimo L. Salvadori – una capacità di attrazione, una visione, un pensiero forte”.1

Può essere utile ricordare come in passato, invece, la gioventù abbia partecipato attivamente alla vita politica italiana. La “calamita” era l’adesione a una comunità con una identità culturale e una storia alle spalle. “Goliardia è cultura e intelligenza, è culto dello spirito, che genera un particolare modo di intendere la vita alla luce di una assoluta libertà di critica, senza pregiudizio alcuno, di fronte a uomini e istituti; e infine culto delle antichissime tradizioni che portarono nel mondo il nome delle nostre libere università di ‘scholari’”: è così che nel 1946, prima del referendum e della elezione dell’Assemblea costituente, si dava vita all’Unione goliardica italiana (Ugi). All’epoca le “calamite” erano appunto storia e ideologia.

Il ruolo dei “parlamentini”

In quel dopoguerra si registrava una discesa in campo massiccia, uno schierarsi tra antifascisti e neofascisti. Gli studenti laici dell’Ugi si ispiravano all’Unione Goliardica per la Libertà creata nel 1924 da gobettiani, socialisti e liberali, mentre i cattolici si riunivano nell’Intesa riprendendo il nome dell’associazione fondata da Romolo Murri nel 1898. E nel quinto anniversario della Liberazione, il 25 aprile 1949, Intesa e Ugi davano vita al “Parlamento” degli studenti universitari: l’Unuri (Unione Nazionale Universitaria Rappresentativa Italiana). Socialisti e comunisti, inizialmente esclusi, vi entreranno aderendo all’Ugi.

È da tener presente come il declino che registriamo oggi nell’impegno giovanile si intrecci anche con un certo declino del ruolo, da un lato, della politica in generale e, dall’altro, dei giovani nei partiti in particolare. Nel dopoguerra nasceva quella “Repubblica dei partiti”2 che durerà fino al 1992: l’Italia era infatti l’unica democrazia occidentale ad avere i partiti menzionati nella propria Carta costituzionale.

Al tempo stesso – sin da quella fase iniziale e fino al 1968 – per i giovani sarà importante la politica universitaria. “La Goliardia – ricorda il giuslavorista, ‘padre’ dello Statuto dei lavoratori, Gino Giugni – è stata una grande scuola politica, centro di formazione della classe dirigente dei partiti”. I tanto vituperati “parlamentini” erano infatti una palestra di formazione e di crescita politica. Si tratta di addestramento al confronto, secondo un pluralismo di alleanze e di scontri tra eletti. L’impegno giovanile si traduce nel cercare il consenso, organizzare l’adesione, scrivere programmi, fare campagne elettorali. Non ci sono i “grandi” alle spalle quando si litiga, si fanno accordi, si cercano i voti, si rovesciano le maggioranze.

Gli studenti universitari hanno così occasione di sperimentare un ruolo di avanguardia rispetto ai propri partiti. Ad esempio, nel 1958, il socialista Bettino Craxi, che è impegnato nella corrente autonomista di Nenni, divenuto uno dei “Principi della Goliardia” al vertice dell’UGI, riesce a dar vita a un primo esperimento di governo di centro-sinistra alleandosi con l’Intesa e diventando vicepresidente dell’Unuri.

A sua volta, Achille Occhetto che guida i giovani comunisti successivamente, messo in minoranza Craxi, realizza una anticipazione del “compromesso storico” promuovendo una giunta presieduta dal democristiano Nuccio Fava (che sarà tra i principali giornalisti della RAI) con Claudio Petruccioli come vice. La Federazione giovanile comunista in quegli anni vedeva al vertice un’alleanza tra i “milanesi” allievi di Antonio Banfi e i “romani” seguaci di Galvano della Volpe che, all’indomani della scomparsa di Togliatti e della caduta di Krusciov, cercano di impostare un dibattito innovativo, ma la segreteria di Luigi Longo nel febbraio 1965 interviene per bloccare il loro congresso autonomo.

Anche i giovani neofascisti, riuniti nella “Fiamma”, hanno nell’università l’associazione universitaria: il Fuan. I loro leader coltivano una cultura “celtica”3, cercano di “inventarsi una tradizione” attribuendosi una filiazione da Ezra Pound a Julius Evola e all’interno del partito, il MSI, contestano la politica di ricerca di accordi con la destra DC del segretario Arturo Michelini schierandosi a sostegno del suo oppositore, Giorgio Almirante, reduce di Salò che simpatizza per il ricorso alla violenza contro gli studenti antifascisti.

La fine dell’“assalto al cielo”

Il 1968 segna la fine dei “parlamentini”, ma non certo del ruolo dei giovani sulla scena politica. Al contrario, sull’onda della contestazione studentesca, avviene, il rovesciamento delle maggioranze di centro-destra nei principali partiti – la DC, il PSI-PSDI unificati, il PCI – e Aldo Moro, Giacomo Mancini e Luigi Longo guardano con attenzione positiva ai movimenti extraparlamentari. Il Sessantotto che segna la punta più alta del protagonismo giovanile nella vita politica nazionale si intreccia però con l’astrattezza della possibilità di una rivoluzione anticapitalista e l’avventura di un terrorismo di sinistra che durerà un quindicennio. La sconfitta della lotta armata e il dissolversi della prospettiva di un mutamento rivoluzionario segnerà la fine di quell’“assalto al cielo”.

Gli anni Ottanta del secolo scorso, che vedono uscire di scena il primato dell’estremismo giovanile, sono oggi insegnati e rappresentati negativamente come “riflusso”, “ritorno al privato”, “edonismo reaganiano”. Definizioni inventate da chi enfatizza gli anni Settanta, come “età dei movimenti”, contraddetto però da storici di sinistra come Tony Judt che afferma: “Nell’ambito della vita intellettuale, gli anni Settanta furono il decennio più deprimente del ventesimo secolo”.4

In realtà gli anni Ottanta rivelarono una rinnovata e importante partecipazione giovanile alla vita politica e culturale italiana. Ci fu un ritorno dei partiti e dei giovani nei partiti. La galassia nata dal Sessantotto – dagli ex di Lotta Continua e Potere operaio ai Situazionisti – non si disperse né si ammutolì: furono una “nouvelle vague” in particolare nei mass media e nella dialettica politica e culturale. La fuoriuscita dalla crisi provocata dalla deindustrializzazione degli anni Settanta si era tradotta nel decollo di nuove professionalità e soprattutto in uno scenario politico molto dinamico che costeggiò il declino e il crollo finale del comunismo presentando interessanti opportunità per queste “leve” giovanili che, appunto, svolsero un ruolo significativo.

Non è obiettiva la storiografia che descrive gli anni Ottanta come “morta gora”. Furono invece lo scenario di nuovi protagonismi politici che interessarono e coinvolsero in prima linea l’intellettualità giovanile in quanto apparvero come “qualcosa per cui valeva la pena di combattere”. In particolare, agirono tre “motori”.

Dagli Stati Uniti soffiò il vento di un nuovo corso del liberalismo animato da ex democratici che passavano al campo repubblicano. È il movimento dei “neoconservatori”, non razzisti e reazionari, che ha esponenti come lo storico Richard Pipes che contro Henry Kissinger (il quale atteggiandosi a nuovo Metternich aveva propugnato un “ordine mondiale” immaginando l’Unione Sovietica soggetto inamovibile5) sosteneva la tesi di “stressare” il sistema moscovita sul piano economico e militare. I neoconservatori ispirano in Europa e in Italia un rilancio della cultura liberale – della “società aperta” – che mette sotto accusa statalismo e consociativismo agitando una svolta anche nel rinnovamento istituzionale.

Il secondo fenomeno che si sviluppò con successo fu quello del socialismo europeo che vedeva negli anni Ottanta i leader di quei partiti con un ruolo politico determinante e anche di guida del governo. Con Mitterrand e Craxi, i socialisti ridimensionavano i due principali partiti comunisti occidentali e a loro si affiancavano Gonzales, Soares e Papandreu che traevano Spagna, Portogallo e Grecia da dittature parafasciste. Insieme agli storici capifila della socialdemocrazia europea – i tedeschi di Willy Brandt e gli svedesi di Olof Palme – i leader del Partito socialista europeo, sull’onda dell’elezione diretta del Parlamento di Strasburgo dal 1979, riuscirono ad animare negli anni Ottanta la migliore stagione dell’integrazione europea con la guida di Delors a Bruxelles e assumendo così un ruolo significativo rispetto al bipolarismo USA-URSS.

La rappresentazione negativa dei partiti

Il terzo fattore trascinante fu quello rappresentato da un rilancio della presenza cattolica promosso dal papa polacco Giovanni Paolo II che, espressione di una Chiesa “perseguitata” non “collaborazionista”, speronò l’amletismo postconciliare. Riprendendo la Gaudium et Spes del Concilio per i giovani wojtyliani “Libertà non significa tutto quel che mi piace” e il cattolico non è solo “una brava persona” impegnato in una Chiesa-Ong, ma l’antagonista di “strutture di peccato”. Si registrò così una forte mobilitazione in particolare tra i giovani per una rinnovata spiritualità in associazioni e movimenti con rilevanti ricadute nell’impegno politico. “Neoconservatori” liberali, socialisti europei e cattolici wojtyliani – muovendosi in parallelo e anche in conflitto – determinarono un rivolgimento culturale e politico che caratterizzò quegli anni Ottanta con la fuoriuscita italiana da crisi economica e terrorismo degli anni Settanta e l’affermarsi di un nuovo scenario economico-sociale mentre il comunismo, un tempo “egemone”, andava morendo.

Oggi questa pagina della storia è prevalentemente stracciata e questo fatto ci porta a un’altra delle ragioni del distacco odierno dei giovani dalla politica, ovvero la rappresentazione negativa dell’Italia dei partiti e, in particolare, di tutta l’azione dei governi della “Prima Repubblica”.

È cioè prevalso nell’insegnamento e nei mass media il “dipietrismo storiografico” – come lo ha definito lo storico Giuseppe Belardelli6 – secondo cui nel 1992-1994 si sarebbe verificato un crollo inevitabile, condannando in blocco gli anni Ottanta e nel complesso i partiti che avevano governato dal dopoguerra. Ai giovani è raffigurata la storia dell’Italia repubblicana – ha osservato criticamente lo storico Agostino Giovagnoli – “come una parabola, inizialmente ascendente fino al 1978 e poi discendente”7.

Si tratta di una interpretazione della storia dal 1945 al 1992 a “cappello di Napoleone” che, in sostanza, rispecchia i risultati elettorali del PCI: in ascesa fino a che il PCI cresce e giunge nella maggioranza di governo e poi in curva discendente da quando torna all’opposizione e perde sempre più voti nelle elezioni politiche dal 1979 al 1992. Naturalmente il giudizio storico dipendente dal grafico elettorale del PCI è uno schema interpretativo fragile che si cerca quindi di occultare – o comunque di nobilitare – ricorrendo a enfatizzare la morte di Moro nel 1978 come emblematico punto di passaggio dal positivo al negativo sostenendo la tesi che il leader DC fu eliminato perché voleva portare il PCI al governo (con le Br oggettivamente di destra)8.

Da allora, secondo questa “storiografia della parabola”, l’Italia è vista con il cliché del “Grande Malato”9 che si trascina inutilmente negli anni Ottanta ruzzolando verso il predestinato finale catastrofico.

Nel complesso – sull’onda del crollo della “Prima repubblica” per via giudiziaria – solo comunismo e neofascismo risultano soggetti “puliti” dell’Italia repubblicana mentre le tradizioni cattoliche, socialiste e liberali sono presentate come una “marmellata” di realtà se non infette, certamente molto secondarie.

Questa damnatio memoriae dell’Italia di governo e di democrazia occidentale si è poi estesa al complesso della storia nazionale coinvolgendo l’Italia liberale10.

La cultura del presentismo

In sostanza la storia nazionale è spesso presentata agli occhi degli studenti come una successione di governi negativi. Non solo il fascismo, ma anche il prima e il dopo: il Risorgimento “conquista regia”, l’Italia liberale un’“Italietta”, l’Italia repubblicana caratterizzata da una Guerra fredda descritta come “guerra sporca” contro il PCI (la mafia vista come conseguenza dello sbarco americano in Sicilia, il terrorismo dell’adesione alla Nato, la corruzione dell’esclusione del PCI dal governo del Paese). Si “salvano” Garibaldi, la Resistenza, l’Italia dei movimenti – antifascismo e diritti civili – il ’68 e finalmente “Mani pulite” raccontata come rivolta della “società civile” contro la “Repubblica dei partiti”.

In questo quadro, “cadavere eccellente” agli occhi dei giovani, è quel che nel nostro passato (basti pensare alle “Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana”11) e ancora in altri Paesi è considerata la prima “cosa per cui vale la pena di battersi”: la Patria.

Con il 150° Anniversario dell’Unità d’Italia, nel 2001, su spinta del postcomunista Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, e del postfascista Gianfranco Fini, presidente della Camera (che all’epoca si era spostato a sinistra immaginando di divenire un’alternativa alla leadership di Silvio Berlusconi), si è cristallizzata nelle celebrazioni la formula del “patriottismo costituzionale”12. Che patriottismo? La Patria del “politicamente corretto”: senza la Terra e il Sangue. Riferimenti territoriali e guerre nazionali non sono “inclusivi”. Il passato di irredentismo, “terre italiane”, e di battaglie con il tricolore non è considerato un richiamo identitario né comunque con esempi a cui ispirarsi. Ai giovani viene additato un “patriottismo” apolide con un’ideale Carta costituzionale indicata come “la più bella del mondo” (secondo la recita di Roberto Benigni), presentata cioè come una Carta dei diritti dell’uomo e programma di riforme sociali che potrebbe essere condivisa anche da altri Paesi europei o extracomunitari.

Nel complesso lo scenario che la politica offre ai giovani è quello di un “eterno presente”. Il disimpegno politico avviene però in un contesto di più generale criticità vissuta dai giovani. Si pensi ai nati all’inizio del nuovo millennio che sono cresciuti attraversando le crisi finanziarie e quindi economico-sociali dopo il 2008, le emergenze e gli isolamenti delle pandemie e ora la guerra che è andata coinvolgendo sempre più direttamente l’Italia e l’intera Europa. Tutto ciò mentre si registra una diffusa maggior fragilità di famiglia e scuola con un abbandono scolastico tra i più alti d’Europa (al 13 per cento) a cui si è aggiunto il fenomeno delle Grandi DImissioni. L’ultimo rapporto Istat evidenzia che uno su cinque tra 15 e 29 anni è un Neet – cioè non studia e non lavora – e che risultano anche bloccati gli ascensori sociali rischiando così di selezionare e contrapporre isole di “figli di papà” e mare di “sfigati”.

Giovanni Cominelli ha recentemente messo a fuoco come nel nostro Paese si è andato diffondendo tra i giovani con un’età media di 20 anni quel che i giapponesi chiamano lo “hikikomori”: lo “stare in disparte”. Siamo di fronte a una “totale mancanza di interesse e motivazione” da parte dei giovani che dipende – nota Cominelli – dalla “sensazione di aver perso il controllo delle nostre vite che paiono decise da forze potenti e oscure dell’economia, della finanza, del clima”.

In questo quadro si cala il sipario politico di partiti nel segno dell’“anno zero”, cioè in continua rifondazione e radicale cesura con il passato. È quel che lo storico Giorgio Caravale nel suo saggio su politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni13 definisce come “la cultura del presentismo” determinata dall’“inconfessabile desiderio dei partiti politici di liberarsi dal peso del passato”. La politica, “orfana di una storia nazionale” e con “partiti volatili, liquidi, effimeri”, offre – prosegue lo storico – “nel migliore dei casi un ruolo di ordinaria amministrazione del presente”.

Già Eric Hobsbawm, dopo la fine della Guerra fredda, a metà degli anni Novanta – ricorda Caravale – paventava “una generazione senza memoria storica, schiacciata sul presente”, “una generazione – scriveva lo storico inglese – incapace di pensare al futuro”, perché “non c’è futuro senza memoria storica”14 ovvero una gioventù senza filiazione, senza la coscienza di fare parte di una storia di cui ha in mano il futuro, priva di “cose per cui valga la pena di combattere”.

NOTE

1. Massimo L. Salvadori, Intervista a “L’Unità”, 4 luglio 2023.

2. Così Pietro Scoppola intitolava la sua Storia dell’Italia repubblicana edita da Il Mulino nel 1991.

3. Sui riferimenti culturali dei giovani neofascisti si veda in particolare N. Rao, La fiamma e la celtica. Sessant’anni di neofascismo da Salò ai centri sociali di destra, Sperling & Kupfer, Milano 2006.

4. T. Judt, Dopoguerra, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 590.

5. Nella Convention repubblicana di Kansas City del 1976 la politica di Kissinger fu considerata “arrendevole” verso il sistema sovietico e lo stesso presidente uscente, Gerald Ford, ne prese le distanze e accettò di votare la mozione sulla politica estera contraria a Kissinger presentata dal rivale Ronald Reagan. Kissinger che era stato la “star” della precedente Convention del 1972, a Kansas City si fece vedere solo alla fine guidando come segretario di Stato una delegazione di diplomatici venuti ad assistere al discorso conclusivo di Ford.

6. G. Belardelli, C. Duggan, La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a oggi, Il Mulino, Bologna 2009, n. 6, p. 1031.

7. A. Giovagnoli, Guido Crainz, Autobiografia di una repubblica, Il Mulino, Bologna 2009, n. 3, p. 494.

8. La tesi di Aldo Moro fautore del PCI al governo è una vulgata senza fondamento. In particolare, lo storico Giovanni Sabbatucci contesta che “lo statista sarebbe stato ucciso nel quadro di un disegno volto a impedire l’associazione al governo del PCI” nel saggio I misteri del caso Moro in Miti e storia dell’Unità d’Italia (Il Mulino, Bologna 1999, p. 217). Anche Piero Craveri sfata il mito del presidente della DC filocomunista: ”Era consapevole che quella collaborazione (con il PCI nel 1978, ndr) non avrebbe potuto durare a lungo. A tutto pensava meno che la DC dovesse rinunciare al suo ruolo di preminenza e di centralità nel sistema politico” (v. “Moro-Craxi”, Marsilio, Venezia 2009, p. 10).

9. Sugli schemi retorici della storiografia del “Grande malato” (“la sconfitta è sempre già accaduta”, “conclusione inevitabile di un’onda lunga”, “piano inclinato”, “traiettoria storica in qualche modo annunciata”) v. P. Macry, Gli ultimi giorni. Stati che crollano nell’Europa del Novecento, Il Mulino, Bologna 2009.

10. Luciano Violante come presidente della Camera nel 2001 dichiarò: “Il 25 aprile è il giorno della nascita della democrazia. Dico nascita e non rinascita perché la democrazia come pienezza di diritti e di doveri, non c’era mai stata nella storia italiana” (Editoriale, La Stampa, 24 aprile 2001). Le parole di Violante sintetizzano l’impostazione di gran parte dell’insegnamento di Stato in materia, riprendendo le tesi del PCI del dopoguerra contrastate da Benedetto Croce quando a chi sosteneva che “prima del fascismo l’Italia non aveva avuto governi democratici” replicava nell’Assemblea costituente: “Questa asserzione urta in flagrante contrasto col fatto che l’Italia, dal 1860 al 1922, è stata uno dei Paesi più democratici del mondo e che il suo svolgimento fu una non interrotta e spesso accelerata ascesa della democrazia” (seduta della Consulta del 27 settembre 1945).

11. È la raccolta di testi a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli pubblicata da Einaudi nel 1952.

12. È significativo che nel quadro di quelle celebrazioni andò in scena uno spettacolo intitolato “Processo a Cavour” con testi di Corrado Augias e Giorgio Ruffolo che derideva il Conte con gli occhialini incalzato da una pubblica accusa interpretata, nelle vesti di attore, da uno dei leader di “Mani Pulite”: l’ex pm Gherardo Colombo.

13. G. Caravale, Senza intellettuali, Laterza, Roma-Bari 2023.

14. E. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995, pp. 14-15.

Ugo Finetti è giornalista e politico italiano. Caporedattore Rai dal 1978 al 2008, ha realizzato inchieste e reportage in vari Paesi europei ed è stato direttore di “Critica Sociale”.

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