Il nuovo volto della globalizzazione avrà la Cina stabilmente al centro della scena. Protagonista assoluta attraverso una strategia di controllo di Paesi su vastissima scala. Pechino è febbrilmente al lavoro per conquistare un’egemonia commerciale e tecnologica, allacciando alleanze con l’obiettivo di costruire una rete di Paesi partner attratti da una visione “altra”, dunque non conforme al modello liberaldemocratico adottato dall’Occidente. Quella condotta dal presidente Xi Jinping è una campagna tesa a costruire una trama di influenza sempre più pervasiva. Con l’obiettivo di determinare un assetto radicalmente nuovo della governance globale. Il che non può non preoccupare gli USA e le democrazie occidentali. Seppur l’offensiva – a causa della pandemia e della guerra in Ucraina – ha subito un vistoso rallentamento.
Dal dicembre 2017 lo scenario internazionale è radicalmente mutato. Il presidente cinese Xi Jinping ha completato il suo percorso di centralizzazione del potere con la revisione costituzionale sul limite di mandati presidenziali e la visita del presidente Donald Trump in Cina (2017) è stata letta in larga misura come una manifestazione di forza di Xi sul presidente degli Stati Uniti. Tuttora, nel mezzo di una guerra commerciale e tecnologica iniziata nel marzo 2018 e mai rientrata (anzi, ancor più alimentata dai rapporti assai tesi con l’amministrazione Biden, non solo per la vicenda Taiwan), non solo si parla apertamente di “nuova guerra fredda” in maniera strutturale, ma si è addirittura passati a considerare questo scenario come destinato a durare a lungo e, pertanto, a spostare l’attenzione sui costi economici di una tensione di lungo periodo.
Tali premesse servono per inquadrare il contesto della guerra commerciale, che non è soltanto una disputa sul surplus e deficit nell’interscambio bilaterale, quanto piuttosto una revisione delle relazioni tra i due Paesi in una dinamica in cui la Cina di Xi dichiara apertamente obiettivi di primato economico e tecnologico sul medio e lungo periodo mentre, allo stesso tempo, rende manifesta la volontà di non conformarsi al modello politico liberaldemocratico adottato in Occidente. Dunque, le differenze economiche assumono una connotazione ideologica che conferisce un ruolo strategico al primato in settori industriali d’avanguardia, come ad esempio le telecomunicazioni o le applicazioni dell’intelligenza artificiale.
Le tensioni prodotte dal decoupling
In un tale contesto, la parola che più ricorre nel dibattito fra Cina e Stati Uniti, e che rappresenta il maggior costo di questo periodo di tensioni, è decoupling, nel senso di “disaccoppiamento” tra le due maggiori economie del mondo: il Financial Times l’ha addirittura indicata tra le parole del 2019. Nei fatti, decoupling vuol dire rilocalizzare la produzione delle imprese americane fuori dalla Cina in settori ritenuti strategici, preferibilmente verso altre destinazioni, soprattutto in Asia, o negli Stati Uniti (reshoring). L’esempio più noto è quello della produzione dei prossimi iPhone, spostata in India, ma sono molte le liste che includono più di 50 grandi aziende americane, e non solo, che hanno avviato un processo di trasloco.
La dinamica non è interamente nuova, tanto che il South China Morning Post parla di una “prima ondata” nel 2018, cui ha fatto seguito una seconda negli ultimi mesi del 2019. Il punto più importante è che alle motivazioni sull’aumento del costo del lavoro degli anni passati si è aggiunta ora una motivazione di opportunità come conseguenza della guerra commerciale. Ci si aspetta che il decoupling possa manifestarsi con sempre maggiore forza, coinvolgendo anche le aziende straniere della filiera che avevano seguito in Cina il partner di cui sono fornitori. Tuttavia, il processo non sarà immediato e avrà bisogno di qualche anno per completarsi del tutto. Dal lato cinese vi è la percezione che un tale fenomeno rappresenti una nuova normalità e si lavora per ridurre l’esposizione della propria industria alle pressioni americane.

Tra i termini maggiormente citati da Xi nel 2019 vi sono infatti “rischio” e “cigno nero”, ovvero un evento inaspettato. In questo caso il rischio inaspettato è stato costituito dalla guerra commerciale di Trump che, come ricordato, nel dicembre 2017 sembrava incapace di muoverla nel giro di tre mesi e che, pure, l’aveva annunciata nel corso di tutta la sua campagna elettorale affidandosi a noti critici delle politiche economiche cinesi come l’economista Peter Navarro. Questa scelta ha, di fatto, spiazzato la Cina che si è ritrovata una forte pressione sulla propria economia già gravata dal rallentamento della crescita del PIL e da problemi strutturali come l’eccessivo indebitamento, il calo della produttività e il difficile compromesso tra le ragioni della crescita economica e quelle della tutela ambientale.
Trasformare le istituzioni della governance globale
Da tempo la Cina si è resa conto di avere un’opportunità storica per riformare la governance globale, ritenendo il G20 – che oltre al G7 e ai cinque emergenti comprende Unione Europea, Argentina, Arabia Saudita, Australia, Corea del Sud, Indonesia e Turchia – ragionevolmente rappresentativo nel complesso. Inoltre, poiché il G7 non aveva la forza di superare la grande crisi finanziaria, era necessario ricorrere al G20, in modo che le soluzioni fossero discusse tra Paesi sviluppati e in via di sviluppo, ma questo significava trasformare le istituzioni della governance globale. Creato nel 1999, il G20 si è evoluto da una conferenza ministeriale informale a un vertice per trovare soluzioni all’aggravarsi della crisi finanziaria. Il primo vertice ha avuto luogo a Washington nel novembre 2008; il secondo a Londra nell’aprile 2009. Nel tempo, il G20 è diventato il forum ministeriale più importante del mondo, con vari gruppi di lavoro e capitoli di interventi, sempre più rilevanti per il coordinamento delle politiche nazionali e per la governance globale. Da quel vertice del 2009, il G20 ha sostituito il G7 come “principale piattaforma per la cooperazione internazionale”.
La Nuova via della seta
È proprio in questo contesto internazionale – soprattutto all’interno del cosiddetto Global South – che la Cina ha iniziato a tessere una trama di influenza sempre più pervasiva. Dall’inizio del mandato di Xi, la Cina ha investito tutte le sue energie nel nation branding portando la cosiddetta Nuova via della seta (BRI - Belt and Road Initiative) al centro dell’attenzione mondiale.
La BRI rappresenta la strategia cinese per aumentare l’influenza e il peso di Pechino nel mondo, sia sul piano economico sia su quello politico-militare. Benché venga ufficialmente presentata come un progetto infrastrutturale di sviluppo economico, attraverso una maggiore integrazione regionale e internazionale del paese, la BRI ha infatti un legame ormai acclarato con l’Esercito Popolare di Liberazione (PLA) e il suo braccio navale (PLA Navy). Attraverso i progetti BRI, la Cina si sta dotando della capacità di estendere il proprio raggio d’azione geo-strategico oltre i confini regionali. Per esempio, la costruzione nell’aprile 2016 della prima base navale d’oltremare a Doraleh, un’estensione del porto di Gibuti, fornisce alla Cina accesso a vie marittime distanti dal territorio cinese, che hanno permesso alla PLA Navy di stabilire una presenza nel Mar Rosso, avvicinandosi così anche al Mar Mediterraneo. La solida logistica fornita dalla BRI permette peraltro alla Cina di supportare la propria potenza militare a distanza.
Perciò la BRI preoccupa gli Stati Uniti e le grandi economie avanzate. Non sorprende che ci siano delle tensioni tra la Cina e le potenze dell’economia internazionale. Il primo tipo di tensione riguarda un eventuale conflitto tra le potenze esistenti e quelle in ascesa. Poiché è probabile che la Cina superi gli Stati Uniti per diventare la maggiore economia del mondo nel giro di un decennio o due, i sospetti sulle intenzioni della controparte sono reciproci. In particolare, le transizioni della leadership mondiale da uno Stato nazionale a un altro, in passato sono state spesso risolte attraverso le guerre. Sebbene tali sospetti non abbiano portato a veri e propri conflitti tra Cina e Stati Uniti, potrebbero causare in futuro gravi difficoltà di cooperazione nel sistema economico internazionale.
Nell’attuale scenario geopolitico globale, con le crescenti sfide alla globalizzazione e al multilateralismo – il fondamento dell’ordine internazionale liberale nato dalla Seconda guerra mondiale – il mondo è di nuovo a un punto di svolta storico. Gli sviluppi economici e politici negli Stati Uniti, con il ritiro del presidente Trump dalla Trans-Pacific Partnership (TPP) e le sue politiche commerciali protezionistiche e le restrizioni all’immigrazione, hanno messo in dubbio il futuro dell’egemonia americana e la partecipazione degli Stati Uniti alla governance globale. Al contrario, la Cina ha assunto una posizione chiara per difendere la globalizzazione e promuovere un nuovo multilateralismo, confermata dal discorso del presidente Xi a Davos il 17 gennaio 2017. Tuttavia, la Cina è ancora un Paese in via di sviluppo, che non ha né la capacità né l’obbligo di difendere e guidare la globalizzazione da sola. Avere l’Europa come partner può essere cruciale. La BRI è una proposta aperta della Cina all’Europa e a tutti i suoi partner nel mondo per forgiare una piattaforma di cooperazione diversificata, per integrare le strategie di sviluppo della Cina con le strategie di sviluppo di altri Paesi e per generare sinergie tra le politiche governative.
I corridoi della BRI
Poiché mira a migliorare la connettività tra una serie di regioni precedentemente separate (Europa, spazio post sovietico, Asia Centrale, Orientale e Meridionale, Medio Oriente), la BRI costituisce di fatto una strategia globale a lungo termine per costruire un’area nella quale la Cina funga da baricentro economico e geopolitico. Pertanto, oltre all’Asia Centrale, sia la Russia sia l’Ucraina (fondamentale agli occhi cinesi la sua posizione geografica tra Russia ed Europa) hanno chiaramente posizioni cruciali nell’iniziativa (di qui la preoccupazione cinese per il conflitto in atto), esplicitamente previste dalla leadership cinese.
Più specificamente, la SREB (Silk Road Economic Belt) è una risposta al processo di integrazione già in corso all’interno dell’Eurasia e che, da tempo dibattuto da parte della Russia e di alcune delle più grandi repubbliche dell’Asia Centrale, nel 2015 ha portato alla creazione dell’Unione Economica Eurasiatica (UEE). La BRI intende fungere da legante per i progetti di cooperazione e integrazione regionale già in corso, con l’obiettivo più ampio di collegare l’Asia Orientale all’Europa attraverso l’Asia Centrale.
Sebbene la maggior parte del dibattito pubblico e dell’attenzione siano state dedicate alle implicazioni della BRI in Asia Centrale, non meno determinante per il successo complessivo dell’iniziativa è la regione MENA (Middle East and North Africa). Si tratta infatti di un luogo veramente strategico dove la “cintura” (belt) si unisce alla “strada” (road), dove cioè le due principali rotte terrestri e marittime si incontrano, mentre il corridoio economico Cina-Asia Centrale e Asia Occidentale raggiunge l’Iran e la Turchia e il Mar Mediterraneo, il Mar Rosso e il Canale di Suez. Questa è anche la ragione alla base della decisione di molti paesi del Medio Oriente di aderire all’AIIB (Asian Infrastructure Investment Bank), il principale istituto preposto al finanziamento della BRI. Tra questi, l’Oman e la Turchia, l’Arabia Saudita e gli Emirati sono i Paesi che oggi sono più coinvolti dai corridoi della BRI.
Oggi la BRI procede più in sordina, senza la propaganda degli anni pre-pandemia e con la guerra in corso. Il cambio radicale di strategia comunicativa da parte di Pechino in relazione alla collaborazione sulla Belt and Road Initiative è indubbiamente dovuto al drammatico peggioramento dell’immagine della Cina nel mondo, e della BRI con essa, negli ultimi cinque anni. Anche nelle aree più favorevoli all’iniziativa – Asia centrale e Africa Sub-Sahariana – l’atteggiamento è molto peggiorato. Nei Paesi dell’UE, solo Cipro, Repubblica Ceca, Estonia e Latvia vedono oggi la BRI meglio di cinque anni fa, mentre in tutti gli altri Paesi membri prevale la consapevolezza della vera natura di tale iniziativa e, soprattutto, degli effetti favorevoli alla Cina più che ai propri Paesi.