Trimestrale di cultura civile

L’Unione Europea cuore di un nuovo nucleo magnetico

  • MAG 2022
  • Carlo Pelanda

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La missione dell’UE è quella di doversi modificare diventando da introversa a estroversa per co-costruire un soggetto democratico globale. Un percorso complesso da attivare. Tuttavia possibile. Dove la centralità del Vecchio Continente è chiamata, prima di tutto, a coinvolgere nella sfida gli Stati Uniti ancora troppo riluttanti. Per poi allargare al G7. Sarebbe una spinta aggregante anche per i Paesi in via di sviluppo. Per tentare il progetto economico e morale di un impero mondiale delle democrazie in opposizione agli autoritarismi a trazione cino-russa.

Chi scrive vede l’UE come uno strumento per costruire un ben più ampio complesso democratico globale, al momento denominabile come Free Community, che chiama una nuova teoria politica – e Grand Strategy – dell’Europa estroversa in contrapposizione, pur non totale, a quella dell’Europa introversa, o “sovranismo europeo”. Non totale, perché la scala della leva geopolitica per poter spingere gli Stati Uniti e altre grandi democrazie del pianeta verso la convergenza reciproca richiede una UE più coesa capace di esprimersi come soggetto unico. Ma tale integrazione più strutturata non deve portare a un impero europeo chiuso, bensì a uno aperto a ulteriori integrazioni per dar vita, appunto, a un complesso democratico globale basato inizialmente sulla convergenza euroamericana, poi allargata a un G7 che includa passo dopo passo altre democrazie nel mondo e spinga/aiuti altre nazioni a democratizzarsi.

In questo scenario l’ipotesi è che, alla fine – un secolo e mezzo per dire – le circa duecento nazioni del pianeta saranno tutte democratiche o in via di democratizzazione. Nello scenario, invece, di una UE come impero regionale che punta alla propria autonomia, c’è una maggiore probabilità di una divisione del mondo in blocchi dove quelli autoritari pareggerebbero o perfino potrebbero prevalere su un insieme di nazioni democratiche debole perché troppo frammentato.

La differenza tra i due scenari riguarda la definizione di un obiettivo morale/politico: il primo punta a dare libertà agli individui attraverso il dominio mondiale dello standard democratico, il secondo porta alla rassegnazione da parte delle democrazie di difendere i propri confini senza spingere per una vittoria globale della libertà.

Nova pax globale

La postura chiusa/passiva ha al momento notevole peso in America (isolazionismo) ed Europa occidentale (eurosovranismo orientato a una posizione globale di terza potenza). Mentre quella aperta/attiva appare idealistica, irrealistica e portatrice di conflitti. Lo scopo di questo articolo è quello di mostrare che se non si tenta un impero globale delle democrazie, si apre la strada a quello dei regimi autoritari e/o a un disordine mondiale che eccede le capacità di governarlo. All’inizio del suo percorso di integrazione, la risposta alla domanda “Europa per che cosa?” fu: per evitare altre guerre civili tra europei (e consolidare il fronte occidentale rispetto alla minaccia sovietica). Ora la risposta dovrebbe essere: per produrre ulteriori integrazioni tra nazioni democratiche nel pianeta.   

È il momento storico giusto per cercare di mettere in evidenza questo tema? Lo sarebbe stato già molti anni fa. Per esempio, chi scrive pubblicò nel 2006 il libro The Grand Alliance basato sul progetto di costruzione di una Nova Pax, con lo scopo di aggregare gradualmente tutte le democrazie del pianeta, in sostituzione della Pax Americana perché gli Stati Uniti, pur restando superpotenza, non avevano la forza sufficiente per sostenere da soli il peso di essere gendarme e traino economico – via deficit commerciale – del mondo.

Nelle presentazioni di quel volume in America fu chiaro che non era il momento giusto: nessun politico statunitense sentiva di poter essere eletto se avesse proposto un’alleanza dove l’America avrebbe dovuto cedere un po’ di sovranità agli alleati. E ciò mi fu detto da personaggi sia democratici sia repubblicani, che concordavano sull’impossibilità degli Stati Uniti di reggere da soli la difesa delle democrazie, ma che pensavano di risolvere tale problema trasferendo più responsabilità di presidio regionale e di contributo alla crescita economica agli alleati, riducendo l’ingaggio diretto degli Stati Uniti stessi.

Durante la presidenza di Barack Obama ci fu il tentativo di creare un mercato delle democrazie, nel Pacifico (Tpp) e nell’Atlantico (Ttip) per arginare l’espansione mondiale della Cina autoritaria definendo un’ampia area economica basata sugli standard democratici. Ma il tentativo fu fatto fallire dalla presidenza americanista di Donald Trump, in particolare il Tpp, e dagli europei, sul lato del Ttip, un po’ perché la Cina ricattò quelli più dipendenti dal mercato cinese, un po’ perché i negoziatori statunitensi non furono abbastanza flessibili per riconoscere la delicatezza del consenso europeo e un po’ perché la Francia perseguiva l’idea, fin dal 1963, di creare un’Unione Europea autonoma configurata come moltiplicatore di forza della sua ambizione nazionale a essere riconosciuta come potere globale. Ma dal 2017 l’America ha preso una posizione più dura, bipartisan, contro la Cina e considera – nonostante le sbavature di Trump, per altro corrette da Mike Pompeo nell’ultima parte del mandato – gli europei occidentali un alleato essenziale nel confronto globale tra capitalismo autoritario e democratico, posizione accentuata nel linguaggio dell’amministrazione Biden nell’avviare i precursori di un’alleanza globale tra democrazie nel dicembre 2021.

Quindi, sul piano geopolitico, il periodo 2020-2024 sembra favorevole a una maggiore convergenza euroamericana nonché a una strutturazione del G7 (allargato ad Australia ed altri, tra cui molto gradualmente l’India) in funzione anticinese e, lateralmente, antirussa. Ma tale tendenza è più di reazione a un nemico che un’azione compositiva profonda e duratura. Da un lato, va annotato che le democrazie tendono a reagire più che ad agire, perché condizionate dalla varietà del consenso interno che rende difficili le convergenze profonde tra nazioni. D’altro lato, questa compattazione indotta dalla pressione di un nemico comune, apre la possibilità di poter includere nel realismo l’idea di una Nova Pax globale, cioè di dominanza delle democrazie alleate. Pertanto, è il momento storico giusto, pur non facile, per (ri)proporla.

Libertà e sicurezza degli individui

Oltre ai motivi geopolitici, ce ne sono di economici e morali per compattare le democrazie e sostenere la democratizzazione sul piano mondiale. Le democrazie tendono a operare con alti costi di sistema perché i poveri votano e vogliono garanzie e soldi, rendendo più costoso per la politica fiscale il consenso e l’ordine. Ciò le rende vulnerabili di fronte alla concorrenza dei sistemi autoritari che riducono il dissenso e incrementano l’efficienza industriale via repressione. Pertanto, è ovvio che le democrazie debbano difendersi dalla concorrenza sleale. Due modi per farlo. Protezionismo difensivo con conseguenze di impoverimento sistemico per tutti. Oppure rendere il complesso delle democrazie talmente dominante da poter imporre standard globali adeguati ai costi delle democrazie stesse, tra cui la transizione ecologica, e aiutare il processo di democratizzazione delle nazioni per estendere il perimetro del capitalismo democratico. Tale seconda azione non sarebbe priva dei rischi creati da confini economici, ma la scala maggiore del complesso democratico permetterebbe di attutire i conflitti attraverso una maggior massa di capitale che permetterebbe una condizionalità graduale e/o diluita nel tempo.

Più importante, nei prossimi due decenni, è il dare a ogni democrazia nazionale uno sbocco fluido a un più sempre integrato mercato tra nazioni simili per aumentare la crescita di ciascuna.
Tale tema fu presente nell’idea di Tpp e di Ttip e fu inizialmente propagandato attraverso un’analisi che, per esempio, mostrava che ogni luogo dell’America e dell’UE avrebbe avuto un vantaggio se le due fossero diventate un mercato unico.

Da un lato, l’analisi fu forzata. Dall’altro, se si inserissero delle compensazioni studiate per essere anche incentivi alla modernizzazione, nonché perimetri di residua protezione a scadere, il vantaggio reciproco delle integrazioni dei mercati nazionali diventerebbe concreto. E porterebbe più crescita grazie all’essere inseriti in un grande mercato internazionale “liscio” che permetterebbe di aggiustare via riforme gli squilibri interni che ogni democrazia sta mostrando sul piano della ricchezza diffusa socialmente. In sintesi, un mercato globale delle democrazie rafforzerebbe ogni singola democrazia nazionale sul piano economico.

Ma l’effetto maggiore ci sarebbe sul piano delle nazioni in via di sviluppo. Al momento prevale il vecchio concetto del realismo economico: prima lo sviluppo e solo poi la democrazia. Ciò implica una concessione molto ambigua all’autoritarismo, considerato momento essenziale per la modernizzazione di una nazione povera. Ma se esistesse nel mondo un complesso democratico maggioritario (possibile nei numeri già oggi, in teoria) e questo avesse una missione condivisa di sostegno alle nazioni in via di sviluppo allo scopo di combinarlo con la democratizzazione graduale, prima tappa lo Stato di diritto effettivo, allora il conflitto tra sviluppo e democrazia (problema reale) sarebbe molto minore a favore della libertà e sicurezza degli individui.

Ovviamente, nel tema pesa molto la capacità di una nazione di qualificare i propri cittadini. Ma proprio su questo punto è fondamentale il “condizionamento positivo” da parte del complesso democratico, la cui scala permetterebbe di agganciare a tale condizionalità soldi, formazione, agganci commerciali, ecc. Vedere tante nazioni in via di sviluppo restare in mani dittatoriali con la conseguenza di diseguaglianze impoverenti e nessun progresso non è solo uno scandalo sul piano umanitario, ma anche un mancato sfruttamento dei potenziali del capitale umano per rendere sempre più globalmente dinamico il capitalismo democratico. In sintesi, la strategia di un complesso democratico sempre più compatto e grande nel mondo permetterebbe di raggiungere obiettivi sia morali sia utilitaristici.

L’europeismo lirico da superare

L’UE è un buon esempio di come l’allargamento e l’approfondimento di un complesso democratico regionale riesca ad avere effetti modernizzanti e liberalizzanti diffusi, al netto di errori nella costruzione dell’euro, ma correggibili. Pertanto, l’UE si presenta nel contesto del complesso democratico globale con un bagaglio di esperienze tecniche utilizzabili per integrare economicamente nazioni diverse in differenti parti del globo. Ma la parte più istruttiva è il metodo funzionalista, adottato dal 1957 al 1992, prima della sua sostituzione con il metodo unionista-verticale: le nazioni convergevano su temi singoli di integrazione in base a un calcolo di vantaggio. Nei casi dove il vantaggio non era chiaro, allora si rinviava quella parte di integrazione. Qualcuno potrebbe far notare, correttamente, che la possibilità di rinviare parti del processo integrativo senza comprometterlo sul piano sistemico era dovuta alla spinta geopolitica da parte delle nazioni che volevano compattare il sistema. Infatti, studiando via simulazioni o esperimenti mentali una possibile strategia di integrazione mondiale delle democrazie, il caso europeo mostra sia la necessità di rispettare le sovranità nazionali sia di spingerle alla convergenza crescente offrendo destino e vantaggi.  Ma manca una “teoria guida” che spinga l’America e l’UE a uscire dai loro confini per creare congiuntamente il nucleo magnetico capace di attrarre altre nazioni democratiche in un complesso mondiale gradualmente strutturato.

In parte, la mancanza di tale “teoria guida” è stata compensata dalla minaccia da parte del capitalismo autoritario che ha innescato una certa compattazione delle democrazie. Ma il vero effetto benefico (economico, ordinativo e misurabile nel modello di vita degli individui) di un complesso democratico richiede la formazione di un mercato unico a espansione e integrazione crescente tra democrazie sotto l’ombrello di una governance convergente. Chi scrive, da tempo ha immaginato l’evoluzione di un G7 allargato, che man mano diventi un’area di mercato e convergenza politica più grande del complesso autoritario e quindi in grado di condizionarlo nonché di reclutare con incentivi (e non con pressioni neo-colonizzanti) le nazioni povere e in via di sviluppo nel modello democratizzante. Ma l’America tende a mantenere una posizione riluttante verso tale configurazione di governance condivisa che condizionerebbe l’America stessa. Per esempio, tende a mantenere separate le sue alleanze nell’Asia-Pacifico da quella con gli europei (NATO) affinché il gruppo di alleati eventualmente integrato non limiti la sua discrezionalità nazionale.

L’UE si concentra sulla difficile integrazione interna e stenta a definire una posizione esterna attiva, sia per motivi di mercantilismo neutrale (Germania e, pur meno, l’Italia) sia per ambizione neo-imperiale della cultura politica francese che preferisce un futuro dove un’UE francocentrica possa essere autonoma dagli Stati Uniti e avere mani libere per decidere in base alle contingenze la collocazione internazionale.

Pertanto, lo scenario mostra un limite a una convergenza più profonda capace di consolidare un complesso democratico globale. Alla ricerca di soluzioni, quella di de-enfatizzare l’europeismo lirico chiuso e di aprirsi così a una missione estroversa dell’UE nel mondo appare un passo necessario. Come? Un primo passo sarebbe quello di siglare un trattato economico di libero scambio tra America e UE. Un secondo sarebbe quello di integrare il reticolo di accordi economici bilaterali dell’UE e dell’America con altre nazioni, armonizzandoli in un’unica matrice globale. Il terzo sarebbe quello di strutturare di più la governance di un G7 esteso ad altre democrazie. Il quarto vedrebbe l’integrazione militare dell’alleanza, cioè NATO, Aukus e approfondimento del Quad, per fornire al reticolo di mercato la dovuta sicurezza e forza dissuasiva. Il quinto prevederebbe un’integrazione più profonda che passasse dal reticolo di accordi bilaterali comunicanti a un’unica piattaforma di mercato integrato con standard comuni. Tale immagine implica un processo pluridecennale, ma nei suoi primi passi può produrre un effetto democratizzante nel pianeta e quello di sostegno esterno a ogni democrazia nazionale. Realistico? Nelle relazioni internazionali non si può inventare molto, ma il percorso ipotizzato è già stato predisposto nella storia recente e quindi ha solo bisogno di una spinta dottrinale per essere attivato: per salvare le democrazie bisogna compattarle.

Ma basterà la sollecitazione alla consapevolezza che sia l’America sia l’UE sono troppo piccole e vulnerabili in relazione al mondo, se divise? No, serve anche una teoria morale di responsabilità democratizzante. Difficile che emerga negli Stati Uniti in forma forte, quindi tocca all’ambiente europeo produrla, generando una convergenza tra geopolitica e teoria morale della democratizzazione globale. Da un lato, sarebbe produttiva una maggiore coesione europea in forma confederativa per rendere l’UE capace di una politica esterna attiva. Dall’altro, gli europei dovrebbero abbandonare un pensiero ormai divenuto provinciale (europeismo lirico) che la loro missione democratizzante sia limitata ai confini dell’UE e abbracciare la missione di essere attori nella costruzione di un complesso democratico globale, convincendo l’America che questa è la via giusta e utile per ambedue, trainando gli altri. La missione è produrre ulteriori integrazioni.

Carlo Pelanda è professore straordinario di Economia, Facoltà di Economia, Università Guglielmo Marconi, Roma; politologo ed economista italiano specializzato in studi strategici, scenari internazionali ed economici. www.carlopelanda.com

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