Trimestrale di cultura civile

Per una vera integrazione politica

  • MAG 2022
  • Stelio Mangiameli

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La complessa vicenda della crisi esplosa in Europa con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin, al di là di quel che potrà succedere, ha già incrinato pesantemente il maggiore successo delle istituzioni europee, cioè la pace nel Vecchio Continente. Si tratta della terza crisi dirompente dopo quelle finanziaria e pandemica. Alla luce di quanto successo dal 2008 a oggi appare necessaria una riscrittura dei Trattati che rafforzi l’esperienza dell’Unione politica. Per renderla soggetto autorevole nel confronto su scala globale. Un percorso possibile. Qui analizzato in dieci punti.

1. Anche se l’emergenza umanitaria nelle recenti vicende storiche europee non è secondaria, possiamo dire che le istituzioni europee hanno vissuto, dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1° dicembre 2009), due grandi eventi, condizionanti la loro stessa vita: il primo è la crisi economico-finanziaria del 2009; il secondo la crisi pandemica da Covid-19.

La crescita del processo di integrazione europeo è dipesa spesso dal modo in cui l’Unione Europea ha superato le crisi che hanno contrassegnato la sua storia sin dall’inizio. A ciò si aggiunga che gli stessi Trattati sono il frutto di questa dinamica europea fatta di “stop and go”. Così, ad esempio, fu con la mancata ratifica del Trattato sulla Comunità europea di Difesa (CED), nel lontano 1954, per opera dell’Assemblea nazionale francese, da cui successivamente nacquero i Trattati del 1957.

In particolare, poi, non si può ignorare che dietro al Trattato di Lisbona stia il fallimento del Trattato Costituzionale (2004) che avrebbe dovuto dare una certa profondità all’integrazione politica dopo il Trattato di Maastricht (1992-1993), che ha istituito l’Unione Europea, e quelli di Amsterdam (1997-1999) e di Nizza (2001-2003), nei quali si riverberavano già le prime tensioni tra Stati membri e istituzioni e le contraddizioni proprie del sistema europeo.

Infine, si deve considerare che oggi, anche in assenza della pandemia, gli Stati membri e l’Unione Europea avrebbero comunque dovuto prendere delle decisioni vitali per il futuro dell’Europa e dei “cittadini europei”, con una nuova revisione dei Trattati europei.

Il Trattato di Lisbona

2. Appartiene ai presupposti per la comprensione di quello che potrà accadere adesso in Europa, anche alla luce della crisi tra l’Ucraina e la Russia, che le debolezze di questo lungo periodo, dal 1992 al 2022, sono da ascrivere, innanzi tutto, al diverso regime tra la politica economica europea e la politica monetaria europea, la prima affidata agli Stati membri e alla sorveglianza multilaterale, la seconda, invece, esclusiva del livello europeo. E, in secondo luogo, attengono all’introduzione nel disegno istituzionale europeo del Consiglio europeo, di una forte istituzione intergovernativa, che di fatto ha sottomesso le altre istituzioni, creando non tanto una concorrenza tra metodo comunitario e metodo intergovernativo, quanto una forte subordinazione del primo verso il secondo, che ha limitato la crescita della democrazia e dei diritti fondamentali europei, sino a quel momento ritenuti il punto di maggior successo del processo di integrazione.

Queste debolezze all’inizio erano state solo dei compromessi: quello sull’Unione economica e monetaria (UEM), per realizzare la moneta unica, attorno al Patto di Stabilità e Crescita (PSC), e quello sul Consiglio europeo, per riprende le fila di una politica estera e di sicurezza comune, compresa la difesa comune.

Nel prosieguo di tempo, a quelle che si erano rivelate delle debolezze, si è aggiunto un errore di comprensione compiuto dalla classe dirigente degli Stati membri dell’Unione, dovuto essenzialmente alla scomparsa di quelle figure storiche che, dopo le due guerre mondiali, avevano affermato la pace europea e la collaborazione tra gli Stati della Comunità europea, avevano messo insieme le politiche pubbliche per sfamare i popoli europei, per creare lavoro e ricchezza e per realizzare la democrazia, tutelare i diritti fondamentali e costruire lo Stato di diritto europeo.

Crescita economica e sociale e valori giuridici e istituzionali, infatti, sono andati avanti sino a quando una nuova classe politica degli Stati membri, dimentica della recente storia europea, ha cominciato a questionare sulla “troppa” Europa, a discapito della “sovranità” degli Stati membri, e ha preteso una restituzione di poteri da parte di questa.

Con questa idea “sovranista” in testa, i governi degli Stati membri hanno scritto il Trattato di Lisbona, volto a delimitare le competenze europee e a sottrarre pezzi importanti di politiche pubbliche; persino le regole del mercato interno e del riavvicinamento delle legislazioni, che erano state il motore dell’ordinamento europeo furono allentate inspiegabilmente e sacrificate in nome di una politica intergovernativa che rendeva asimmetrici i rapporti tra gli Stati membri.

Ovviamente, la crisi economico-finanziaria, arrivata subito dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, si incaricò di mostrare a tutti questo errore, per cui improvvisamente non vi fu più “troppa” Europa, bensì “troppa poca” Europa.

La fuga dai Trattati europei

3. Va da sé che le debolezze del sistema istituzionale europeo e dell’Unione economica e monetaria hanno comportato, a seguito della crisi, una serie di effetti negativi per gli Stati membri e per i cittadini europei.

Durante la crisi, infatti, i vincoli europei del Patto di Stabilità e Crescita impedivano di potere compiere politiche pubbliche anticicliche, fondate sul public spending, soprattutto a quegli Stati membri, come l’Italia, che avevano un debito pubblico elevato; e, per contro, pure le istituzioni non disponevano della possibilità di effettuare politiche anticicliche, perché l’Unione Europea non disponeva di un vero e proprio potere fiscale e il suo bilancio non si prestava a realizzare politiche nei confronti di shock economico-finanziari.

Fu anche per questo che si realizzò quella che fu definita “la fuga dai Trattati europei” con la sottoscrizione, fuori dall’ordine comune, del Fiscal Compact e del Trattato sul Meccanismo Europeo di Stabilità (2012): il primo, però, radicalizzava la sorveglianza macroeconomica con la regola del pareggio di bilancio, che l’Italia portò a esecuzione prevedendolo nell’art. 81 della Carta (con la legge costituzionale n. 1 del 2012); il secondo affidava a una istituzione intergovernativa il sostegno finanziario agli Stati membri in difficoltà con i conti pubblici, in cambio di forti condizionalità a carico dei bilanci degli Stati membri che potevano tradursi – come nel caso greco – persino nella vendita delle proprietà demaniali e delle grandi infrastrutture pubbliche (ad esempio, porti, aeroporti, ferrovie ecc.); condizionalità che, peraltro, accrescevano l’asimmetria tra gli Stati membri.

4. Tutto questo, per di più, aveva uno scarso effetto sulla stabilizzazione della moneta unica, che era il bene comune che le istituzioni europee avrebbero dovuto difendere, per cui molti sacrifici fatti in nome della politica di austerity hanno avuto una scarsa efficacia di recupero, sia sull’euro, sia sui debiti sovrani.

La svolta, che impedì il fallimento dell’Europa e della sua moneta, venne dalla Banca Centrale Europea (BCE), presieduta da Mario Draghi, le cui parole dichiararono l’irreversibilità dell’Euro e sostennero che: “Nell’ambito del nostro mandato la BCE (sarebbe stata) pronta a fare tutto il necessario a preservare l’euro”, con la celebre aggiunta: “E credetemi: sarà abbastanza” (Londra, Global Investment Conference, 26 luglio 2012).

Così si calmierarono i mercati finanziari rispetto all’euro e la politica monetaria del quantitative easing consentì di fermare la speculazione sui titoli del debito degli Stati membri – e di alcuni in particolare – ridando liquidità al sistema bancario europeo, per poter finanziare la ripresa economica, concedendo credito buono alle imprese e alle famiglie.

Se ci si chiede come mai le decisioni della BCE furono risolutive, la risposta è semplice: la BCE, proprio per l’esclusività del suo potere, ha funzionato come una vera e propria istituzione federale, rispetto alla quale le istanze intergovernative degli Stati membri erano inefficaci.

5. L’altra istituzione con maggiore sostanza federale, cioè la Commissione europea, si affrettò – subito dopo il discorso di Draghi – a varare un “piano” (A blueprint for a deep and genuine economic and monetary union. Launching a European Debate, 30 novembre 2012) di misure istituzionali sull’Unione economica e monetaria e sulla modifica dei Trattati per rafforzare, i poteri, la politica fiscale e di bilancio dell’UE, nonché per consolidare la democrazia e il ruolo di direzione politica del Parlamento europeo.

Tuttavia, proprio i rappresentanti dell’Europa intergovernativa, e soprattutto gli Stati membri che dalla crisi avevano lucrato più di una semplice crescita di posizione politica, cercarono di bloccare l’intero piano della Commissione o di darne un’attuazione per i soli risvolti tecnici attinenti all’Unione bancaria e a quella dei mercati finanziari, ritardando la riforma dei Trattati.

Si deve al vento “sovranista” che i governi degli Stati membri avevano scatenato e che ora poteva travolgerli, se dopo le elezioni del Parlamento europeo del 2014 fu del tutto impossibile cancellare le parole del Blueprint della Commissione. Queste, infatti, furono riprese in un successivo documento, meglio noto come la Relazione dei cinque presidenti (Completing Europe’s Economic and Monetary Union), pubblicata il 12 giugno 2015 e discussa al Consiglio europeo nel dicembre del 2015, in cui la modifica dei Trattati europei veniva differita a dopo il 2025.

6. Peraltro, pure in questo caso non mancarono veri e propri colpi di coda dell’Europa intergovernativa a discapito degli impegni assunti con la Relazione citata, come la vicenda del MES dimostra. Infatti, sia il Piano della Commissione sia la Relazione dei cinque presidenti prevedevano di sottoporre il MES, attraverso l’incorporazione nei Trattati, al controllo del Parlamento europeo e la modifica del trattato avrebbe dovuto comportare anche il rafforzamento della responsabilità democratica della BCE nella sua veste di autorità di vigilanza sulle banche. Il disegno prevedeva di realizzare una politica fiscale (di bilancio) europea finanziata, con risorse proprie derivanti da un’imposizione europea (“un potere impositivo mirato e autonomo”) e la creazione “di una struttura analoga a un ‘Tesoro’ dell’UEM in seno alla Commissione”, al fine di “dare una direzione politica e accrescere la responsabilità democratica”, in modo che l’Unione venisse posta in condizione di resistere a eventuali futuri shock economici. Essa avrebbe altresì avuto la capacità di emettere obbligazioni da cui avrebbero potuto derivare risorse a seguito della “possibilità di emettere debito sovrano proprio dell’UE”.

A questi fini venne formulata la proposta di trasferire le funzioni economico-finanziarie del MES in capo al “Tesoro europeo” e di trasformare il MES nel “Fondo Monetario Europeo”, dopo la sua integrazione nel quadro giuridico dell’Unione.

Quando tutto questo sembrava acquisito e la Commissione europea aveva già predisposto una proposta di regolamento (COM(2017)827) che avrebbe risolto la questione dell’incorporazione del MES nel quadro istituzionale europeo per farne un solido organismo di gestione delle crisi nell’ambito dell’Unione Europea, in piena sinergia con le altre Istituzioni, l’Europa intergovernativa, nonostante l’opposizione dell’Italia, bloccò il procedimento legislativo e statuì la permanenza del MES fuori dall’ordinamento europeo come istituzione intergovernativa. Infatti, a seguito delle discussioni tenutesi nelle riunioni dell’Eurogruppo (in particolare dicembre 2018 e giugno 2019), e dei vertici euro del 14 dicembre 2018 e del 21 giugno 2019, sono stati ridefiniti i termini generali della riforma del trattato MES, mantenendo la struttura precedente.

Vi sono varie incongruenze sulla soluzione scelta per il MES dai governi europei, come quella di un backstop (sostegno comune) al Fondo di risoluzione unico esterno e intergovernativo a fronte di una Unione bancaria perfettamente integrata nel diritto europeo, ma sono soprattutto i sospetti che si sono addensati sul MES e sulle condizionalità che impone agli Stati nei cui confronti presta il suo “aiuto” che danno disagio a tutti gli Stati membri ed è per questo che il c.d. “MES sanitario”, di cui si dirà subito oltre, varato nei giorni della pandemia, è stato un insuccesso clamoroso: nessuno Stato dell’Unione Europea vi ha infatti fatto ricorso, neppure l’Italia a guida Draghi.

7. Bisogna dare atto che già prima della pandemia da Covid-19 la situazione europea era diventata insostenibile e lo scontro tra le due Europe, quella intergovernativa e quella comunitaria, aveva raggiunto la sua acme proprio in occasione della celebrazione dei 60 anni dei Trattati di Roma, nel 2017, con la presentazione del Libro bianco sul futuro dell’Europa. Riflessioni e scenari per l’UE a 27 verso il 2025. Il Libro bianco, proprio per l’impostazione seguita, tendeva a dare una immagine delle prospettive europee molto problematica, per via della presentazione di ben cinque scenari diversi, alcuni dei quali davano l’impressione che il processo di integrazione potesse essere limitato o, addirittura, ridotto.

In vista delle elezioni del Parlamento europeo del 2019, perciò, apparve chiaro che bisognava riprendere il percorso dell’integrazione e accelerarlo, anche per limitare l’azione dei partiti populisti, che ottenevano consensi un po’ in tutti gli Stati membri e che in alcuni di questi (Polonia e Ungheria) addirittura instauravano dei loro governi.

Bisogna dare atto che la stessa candidatura di Ursula von der Leyen, indicata come presidente della Commissione europea dal Partito popolare europeo, fu accompagnata da un preciso programma (A Union that strives for more. My agenda for Europe. Political Guidelines for the next European Commission 2019-2024) contenente misure atte a riprendere il processo di integrazione e a lanciare una “Conferenza sul futuro dell’Europa” per rivedere i Trattati europei.

Paradossalmente la pandemia, che sarebbe esplosa pochi mesi dopo l’insediamento della nuova Commissione europea (settembre 2019), avrebbe accelerato la ripresa del processo di integrazione e la realizzazione di molte misure contenute nel programma della presidente von der Leyen, cui si sarebbero aggiunte altre nuove misure considerate necessarie per affrontare la crisi economico-sociale che rimbalzava dalla pandemia.

Covid 19: la novità di una risposta coesa

8. La pandemia da Covid-19 ha avuto un carattere simmetrico e ciò è bastato agli Stati membri per evitare di adottare misure europee a discapito di alcuni e a vantaggio di altri; così, già ai primi di marzo 2020, furono varate misure generali di carattere normativo e misure concrete di carattere finanziario a cui tutti gli Stati potevano attingere.

Tra le prime rientrano, innanzitutto, l’attivazione della Clausola generale di salvaguardia del patto di stabilità e crescita, che consentiva agli Stati membri di fare deficit di bilancio oltre i limiti definiti dalla disciplina europea, e, poi, l’uso coordinato contro la pandemia dei fondi strutturali e quelli destinati agli “aiuti di Stato”.

Un sostegno concreto a queste modifiche della disciplina di bilancio degli Stati membri derivava dalla ripresa, da parte della BCE, del Quantitative easing, deliberato nella seduta tra il 18 e 19 marzo 2020, con un programma Outright monetary transactions (Omt) di oltre 750 miliardi di euro, denominato Pandemic emergency purchase programme (Pepp).

Le misure concrete di carattere finanziario, approvate dalle istituzioni europee, erano rivolte alla creazione di “tre reti di sicurezza”, per i lavoratori, per gli Stati e per le imprese. L’istituzione di un Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency (Sure), per un ammontare di circa 100 miliardi di euro sarebbe servito a sostenere i lavoratori contro la disoccupazione e la riduzione dell’orario di lavoro durante i lockdown della pandemia. L’utilizzo del MES – con una linea di credito per le spese dirette e indirette sulla sanità, pari al 2% del PIL di ciascuno Stato membro, denominata Pandemic Crisis Support – veniva definito in coordinamento con le Istituzioni europee per sostenere i sistemi sanitari degli Stati. Infine, l’iniziativa del Gruppo BEI di creare un Pan-European Guarantee Fund (EGF) di 25 miliardi di euro, che avrebbe potuto sostenere 200 miliardi di euro in finanziamenti per le imprese con un focus sulle PMI, in tutta l’UE era stata pensata come una protezione per le imprese.

A queste misure, nel giugno del 2020, si è aggiunta l’istituzione di un particolare Recovery fund, dal suggestivo nome di Next Generation EU, con una portata di 750 miliardi, e la realizzazione del raccordo delle diverse misure inerenti il Recovery fund, garantito dal bilancio dell’Unione Europea, rafforzato e aggiornato per il periodo 2021-2027.

9. L’importanza delle misure anti-pandemiche varate dall’Unione Europea sta nel fatto che esse hanno infranto i tabù che avevano caratterizzato la gestione della precedente crisi. Infatti, per un verso, i vincoli del PSC furono considerati insostenibili, mentre, per l’altro, sono stati emessi titoli europei che costituiscono una forma di debito comune tra gli Stati membri. Inoltre, il NGEU, soprattutto per volere del Parlamento europeo, si sarebbe articolato in prestiti (loans) per 360 miliardi e sovvenzioni (grants) per 390 miliardi e queste ultime sarebbero state finanziate con un incremento delle risorse proprie dell’UE, e cioè con un incremento della sua capacità fiscale. Non è senza significato notare come, alla fine, la Decisione del Consiglio sulle risorse proprie (2020/2053 del 14 dicembre 2020) sia stata ratificata da tutti gli Stati membri, anche da quelli retti da governi populisti e da governi poco propensi a concedere potere all’Europa (c.d. “paesi frugali”) e dal giugno del 2021 è diventata pienamente efficace.

È vero che la sospensione del PSC prima o poi finirà e dovranno essere ripristinate regolazioni che limiteranno le spese pubbliche degli Stati membri, ed è vero anche che si prospetta davanti a noi tutti un lungo periodo nel quale i prestiti ottenuti dovranno essere restituiti, ma per converso il PSC, per ovvie ragioni, non potrà più essere uguale a quello precedente e i prestiti saranno da restituire a favore del bilancio europeo e non a favore di Istituzioni intergovernative. Senza contare che non è mancato chi ritiene che alcuni degli strumenti adottati in occasione della pandemia, come il SURE e il Recovery Fund, dovrebbero avere un carattere permanente. La stessa questione del MES, che nella variante “sanitaria” è stato rifiutato dagli Stati membri, dovrà necessariamente essere ripresa per inserire questo fondo nell’ambito delle istituzioni europee.

Politica e sicurezza comuni

10. Il dopo pandemia, perciò, è legato come non mai alla ripresa del processo di integrazione ed è questo l’obiettivo davanti al quale si trova ora la Conferenza sul futuro dell’Europa che sta raccogliendo le proposte dei cittadini europei.

Il compito della Conferenza, infatti, investe direttamente il tema dell’Unione politica così come quello della legittimità istituzionale e della responsabilità democratica, essendo questi i principi che possono consentire di perfezionare i poteri europei, ad esempio in campo sanitario, per il quale durante la pandemia è mancata una base giuridica adeguata nei Trattati. L’altro tema fondamentale è l’Unione economica e finanziaria, in grado di dare vita, grazie anche alle maggiori risorse proprie di cui l’Unione ormai dispone, a un potenziamento della politica economica europea, sinora limitata alla politica agricola comune, alla politica di coesione sociale e territoriale e a poco altro di più.

Tuttavia, una volta che nei prossimi mesi la Conferenza concluderà il suo lavoro, ci si augura che nelle proposte di revisione dei Trattati europei siano previsti cambiamenti considerevoli anche con riferimento alla politica estera comune e alla politica di sicurezza comune, compresa la politica di difesa comune. Infatti, la vicenda del conflitto tra Ucraina e Russia mette in pericolo il maggiore successo delle istituzioni europee, cioè la pace nel Vecchio Continente.

È vero che a partire dal Trattato di Maastricht sono stati fatti passi in avanti in questo ambito, ma questi passi sono fortemente insufficienti e non adeguati al livello delle sfide internazionali che attendono la democrazia dell’Unione Europea, i suoi Stati membri e i suoi cittadini.

Una Unione politica, dotata di responsabilità democratica e di legittimazione istituzionale, non si misura solo sulle politiche pubbliche, o sulla moneta comune, o ancora sul mercato interno, bensì su uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia rafforzato e consolidato che può fondarsi solo sulla difesa comune e su una politica estera comune.

L’Unione politica significa, inoltre, rafforzare l’identità europea, fondata sulle “eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa” e sui “principi della libertà, della democrazia e del rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nonché dello stato di diritto”. L’Unione politica, infine, può consentire all’Europa di affermare “la sua indipendenza” e di contribuire “alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, […] all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani […] e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite” (Art. 3, Trattato sull’Unione Europea).

Se le parole dei Trattati europei non sono solo vuote promesse, ma impegni assunti per guidare il futuro di una Comunità di cittadini europei, allora bisogna fare in modo che venga riallacciato il filo spezzato nell’aprile del 1954 e che si compia una vera Unione politica dell’Europa.

Stelio Mangiameli è scrittore e professore ordinario di Diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Teramo. La sua attività didattica e di ricerca ha interessato il Diritto costituzionale, il Diritto regionale, il Diritto costituzionale europeo e il Diritto pubblico dell’economia

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