Trimestrale di cultura civile

Transizione energetica: un nuovo green deal per l’Europa

  • MAG 2022
  • Marco Ricotti

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Il riscaldamento globale non si ferma certo davanti alle guerre e alle ripercussioni possibili. Anzi. In gioco una modificazione della dipendenza geo-politica dei Paesi. L’Europa al riguardo è nel cuore del problema. Per combatterlo occorre una seria e ragionevole strategia. Che guardi ai fatti e abbandoni impostazioni ideologiche. La guerra induce a una ulteriore revisione critica sul tema energetico. Che obbliga a un gravoso impegno per dare risposte a domande divenute in questi ultimi mesi ancor più cruciali: cosa significa transizione energetica e quale politica ha impostato l’Europa? Quali strategie sono introdotte con la “tassonomia verde”? E il nucleare può essere veramente una ipotesi conveniente e percorribile? E in proposito quali elementi di novità?

La novità di questi tempi, sul tema energetico, è la nostra consapevolezza. “Nostra” nel senso di noi europei, in particolare noi italiani. I recenti drammatici eventi ci hanno fatto prendere rapidamente coscienza di qualcosa che avremmo dovuto conoscere da tempo. Soprattutto, avrebbero dovuto tenerlo in debito conto tutti coloro che, a vario titolo e negli ultimi decenni, hanno avuto ruoli di responsabilità su questo tema, dai governi ai media. Vale a dire, il ruolo dell’energia.

È oggi drammaticamente evidente quanto essa sia importante: per le sue ripercussioni sulla dipendenza geo-politica delle nazioni, per il suo impatto sulla ripresa economica e sui costi e sulla disponibilità di moltissimi beni, inclusi quelli essenziali, dal riscaldamento domestico alla pasta. All’energia abbiamo iniziato a guardare non più solo quale causa antropica primaria dei cambiamenti climatici – aspetto che si conferma importante – ma scala in secondo piano rispetto ai precedenti.

Certo, il riscaldamento globale non si ferma neanche davanti alle guerre e i possibili effetti non ne sono dissimili. Quindi, se veramente siamo interessati a combatterlo, urge identificare una strategia che sia così seria e ragionevole da tener presente tutti i complicati e interconnessi aspetti del problema. Lasciando finalmente da parte impostazioni ideologiche, pregiudiziali, semplicistiche o di convenienza.

Un inizio di revisione critica sul tema energia, accompagnata da alcune discussioni ascoltate in questi mesi, fa sorgere immediatamente qualche domanda: cosa significa transizione energetica e quale politica ha impostato l’Europa? quali strategie vengono introdotte con la “tassonomia verde”? e il nucleare può essere veramente una ipotesi conveniente e percorribile? c’è qualcosa di nuovo in proposito? Procediamo con ordine.

Transizione energetica: costi, tempi, tecnologie

In principio fu l’IPCC. L’Intergovernmental Panel on Climate Change è una organizzazione delle Nazioni Unite, di tipo governativo (ne fanno parte oggi 195 Paesi, attraverso migliaia di delegati e di esperti su varie tematiche), che dal 1988 lavora per “fornire ai decisori politici valutazioni scientifiche periodiche sui cambiamenti climatici, le loro implicazioni e i potenziali rischi futuri, nonché per proporre opzioni di adattamento e mitigazione”. L’IPCC non fa ricerche, ma valuta a livello internazionale le informazioni e i risultati delle ricerche scientifiche, tecniche e socio-economiche sui diversi aspetti implicati nei cambiamenti climatici. Sin dal primo report pubblicato nel 1990, le valutazioni dell’IPCC informano e guidano le politiche di diversi Paesi che vi partecipano.

Nel 1992, poi, le Nazioni Unite creano la Framework Convention on Climate Change e nel 1997 a Kyoto si raggiunge un consenso globale sulla necessità di stabilizzare la concentrazione atmosferica dei gas a effetto serra (greenhouse gases - GHG), per limitare gli effetti sul clima. Tuttavia, solo nel 2015 a Parigi (COP25) si giunge a un accordo vincolante, da aggiornare ogni cinque anni, nel quale i Paesi si impegnano a ridurre le proprie emissioni. In quell’occasione si stabilisce come essenziale ridurre l’incremento della temperatura media dell’atmosfera terrestre, entro gli 1,5°C rispetto ai valori pre-industrializzazione, per evitare effetti catastrofici sul clima. Infine, la COP26 di Glasgow, che si è tenuta nel novembre 2021, ha sancito l’impegno a raggiungere entro il 2050 la cosiddetta Carbon Neutrality.

Ogni Paese è quindi impegnato a fare la propria parte e deve decidere le politiche più opportune per contribuire alla riduzione della temperatura, considerando costi ed efficacia, vincoli ed effetti, non solo sul clima ma anche su economia e posti di lavoro, sviluppo e resilienza. Considerando che il problema è per sua natura globale.

Quali nazioni portano, dunque, le maggiori responsabilità nelle emissioni, o altrimenti, chi può contribuire più efficacemente alle riduzioni? La Cina, che utilizza moltissimo carbone, guida la lista con il 28% delle emissioni globali, seguita a ruota dagli Stati Uniti (15%), poi India (7%), Russia (5%), Giappone (3%) e Germania (2%). Molte altre nazioni contribuiscono con percentuali attorno o inferiori all’1%, tra le quali Polonia, Italia, Francia. La Germania è di gran lunga il primo emettitore europeo. L’intera Europa, però, nel complesso, è responsabile per meno del 10% su scala mondiale. Tuttavia, l’Unione Europea ha dichiarato obiettivi molto ambiziosi sul tema: riduzione delle emissioni del 55% al 2030 (rispetto ai livelli del 1990) e neutralità climatica al 2050.

Su quali aspetti intervenire per essere più efficaci? Dall’IPCC e da altri studi, ad esempio quelli del World Resources Institute, appare evidente come il consumo di energia sia di gran lunga la causa antropica principale di emissioni di gas climalteranti, responsabile per il 76% a livello mondiale. Il settore energetico include la produzione di calore ed elettricità (32% del totale delle emissioni), i trasporti (14%), l’industria e le costruzioni (13%).

Ma quali fonti energetiche fanno girare il mondo? Oggi consumiamo soprattutto petrolio (31%), carbone (27%) e gas (25%), ossia combustibili fossili per oltre 4/5 dei nostri fabbisogni, soprattutto per muoverci, per scaldarci, per produrre. Poi anche idrico (7%), nucleare (4%), eolico (2,5%), solare (1,3%). Il resto sono biomasse e geotermia.

E l’Europa? Siamo molto differenti? No, ma siamo leggermente meglio. I fossili sono ancora largamente predominanti: petrolio (37%), gas (25%), carbone (11%), poi tra le fonti che praticamente non emettono gas climalteranti, nucleare (11%), idrico (6%), eolico (6%), solare (2%) e il resto ancora biomasse e geotermia.

Le differenze tra i combustibili fossili e le altre fonti sono notevoli, infatti, riguardo le emissioni.
Sempre nei documenti dell’IPCC, si riportano valori di circa 12 grammi di CO2-equivalente emessi per ogni kWh prodotto con il nucleare o con l’eolico, valore che sale al doppio per l’idroelettrico e al quadruplo per il fotovoltaico. Ma quasi trascurabili, se confrontate con i 490 grammi del gas naturale e gli 820 grammi del carbone.

Non è necessario essere esperti del settore per comprendere, dalla semplice lettura di tutti questi dati, due motivi: perché si voglia effettuare una “transizione energetica” e perché questa sia così impegnativa, nei tempi e nei costi, oltre che nelle tecnologie.

L’impiego massiccio delle fonti rinnovabili è considerata la strategia vincente, pressoché da tutti gli attori in gioco: governi, esperti, opinione pubblica. L’altra freccia nell’arco è il nucleare. Tertium non datur.

Lo sforzo si preannuncia immane. Occorre aggredire ben l’80% della torta dei consumi energetici, in capo alle fonti fossili. Con rinnovabili e nucleare, che servono essenzialmente per produrre energia elettrica. Per ridurre le emissioni e limitare il riscaldamento globale, è necessario quindi produrre elettricità senza bruciare gas e carbone, ma serve anche elettrificare settori che oggi lo sono in minima parte: i trasporti, passando alla mobilità elettrica, gli impieghi industriali, nonché il riscaldamento e gli utilizzi domestici, tutti oggi saldamente legati ai combustibili fossili, petrolio e gas. In questo quadro, non appare ragionevole precludersi pregiudizialmente l’utilizzo di metà delle opzioni a disposizione, ostracizzando il nucleare.

Tassonomia verde: il documento che mobilita gli investimenti privati

È allora ragionevole supporre che sia stata una lettura pragmatica e realistica di questo quadro complessivo, a spingere la Commissione Europea a proporre il completamento della propria Tassonomia Verde, nel Complementary Climate Delegated Act, “considerando che ci sia un ruolo per il gas naturale e per il nucleare, quali mezzi per facilitare la transizione verso un futuro basato prevalentemente sulle rinnovabili”.

A fine 2021 ha inviato la propria proposta al Gruppo di Esperti degli Stati membri, ha raccolto i loro commenti, ha sostanzialmente confermato la linea politica e ha condiviso il documento finale con il Consiglio Europeo. A seguire, sarà inviata al Parlamento. Consiglio e Parlamento avranno da 4 fino a 6 mesi di tempo per eccepire e nel caso votare per un annullamento della proposta della Commissione, a maggioranza qualificata il primo e a maggioranza semplice il secondo dei due organi istituzionali.

Ma cos’è la Tassonomia Verde? È il documento che “guiderà e mobiliterà gli investimenti privati nelle attività che sono necessarie per raggiungere la neutralità climatica nei prossimi 30 anni”. Vale a dire sarà la guida “finanziaria” per le politiche energetiche dei Paesi europei. In esso sono indicati i criteri, i requisiti, le caratteristiche che i progetti, le iniziative, le realizzazioni nel settore energetico devono possedere per essere riconosciute come “verdi”, quindi meritevoli di finanziamenti e di agevolazioni.

Tra i criteri, non solo le basse emissioni di gas a effetto serra, ma anche quello della “sostenibilità”, criterio tanto doveroso quanto di difficile traduzione in requisiti e numeri. A questo proposito, nella tassonomia si richiede che l’adozione di una specifica tecnologia non debba comportare un danno significativo (do no significant harm , DNSH) all’ecosistema. Mentre è stato abbastanza facile giustificare tali caratteristiche per le fonti rinnovabili, incluse già dal 2021 nel primo “atto delegato”, non è stato così semplice raggiungere un consenso sul nucleare, anche o soprattutto per i contrasti politici che tale scelta comporta.

Il Technical Expert Group (TEG) per la Finanza Sostenibile, incaricato di valutare tale criterio anche per il nucleare, ha dichiarato la sua incapacità di giungere a un risultato. La Commissione ha pertanto chiesto all’organizzazione scientifica comunitaria, il Joint Research Centre (JRC), di occuparsene. Ne è scaturito un report tecnico-scientifico di 385 pagine, pubblicato a fine 2021, il quale ha sostanziato la valutazione che la fonte nucleare non comporti rischi superiori per l’uomo e l’ambiente, rispetto alle altre fonti energetiche previste nella tassonomia. Il documento riporta dati ed evidenze, a supporto della capacità di prevenire o evitare ogni potenziale impatto dannoso nelle diverse attività e fasi legate al nucleare, includendo i rischi associati alle radiazioni e al ciclo del combustibile e la gestione finale dei rifiuti, indicando infine i criteri corrispondenti (Technical Screening Criteria) utili per la tassonomia.

In realtà, oltre che dagli aspetti tecnici, il contenuto del documento della Commissione Europea appare dettato da un sostanziale accordo tra i due attori principali. La Francia, interessata a mantenere aggiornato e attivo il proprio parco reattori che oggi garantisce oltre il 70% dell’energia elettrica d’Oltralpe. Anzi decisa ad ampliarlo, come ha dichiarato di recente il presidente Emmanuel Macron, il quale ha inserito il “nuovo nucleare” addirittura al primo punto del recovery plan francese post-pandemia. E la Germania, principale sponsor del Green Deal europeo e quindi doverosamente interessata a ridurre le proprie emissioni di CO2. Tuttavia, ancora fortemente dipendente dai combustibili fossili – carbone in primis – per la produzione di elettricità e quindi intenzionata a sostituire il carbone con il gas, meno inquinante e più facile da impiegare, rispetto alle rinnovabili. Il gasdotto russo-tedesco Nord Stream 2 sarebbe servito proprio a questo scopo.

Nucleare: quali tecnologie

Il nucleare sembra, allora, un’opzione alla quale pare assai difficile rinunciare. Ma di quale nucleare stiamo parlando? Difficilmente quello di III Generazione realizzato dall’Occidente, se non cambierà qualcosa. I 441 reattori oggi in funzione nel mondo sono di II Generazione, ossia sono stati realizzati negli anni 1970-1980, mentre dei 51 reattori oggi in costruzione molti sono stati progettati all’inizio del nuovo millennio, con sistemi e strategie di sicurezza migliorate e appartengono a buon diritto al nuovo corso. Queste macchine sono ancora in fase di realizzazione nell’ovest del mondo, in Finlandia, Francia e Stati Uniti, mentre sono già state costruite e sono operative in Cina, Russia, Corea del Sud, Giappone e addirittura negli Emirati Arabi Uniti.

Tra loro c’è una sostanziale differenza: gli impianti costruiti in Occidente, di tecnologia americana (AP1000, da 1100 MWe) e francese (EPR, da 1600 MWe), inizialmente progettati per essere costruiti in 5 anni e richiedere investimenti di circa 4 miliardi di euro, stanno soffrendo ritardi imbarazzanti di oltre 10-12 anni e incrementi di costo di circa il 200-300%.

Mentre gli identici reattori occidentali – e anche simili tecnologie russe (AES-2006, da 1200 MWe), cinesi (HPR1000, da 1100 MWe) e coreane (APR1400, da 1400 MWe) – sono già in funzione, dopo aver riportato ritardi ed extra-costi molto contenuti, “fisiologici”, trattandosi anche in questo caso di “first-of-a-kind”, di prime realizzazioni.

La differenza di performance tra Europa-Stati Uniti e il resto del mondo su macchine identiche o simili, dimostra che il problema non sia tanto nella tecnologia – o nella qualità delle costruzioni e nei controlli di sicurezza, certamente allo stato dell’arte le prime e rigorosi i secondi – quanto nella capacità gestionale e realizzativa. Una debolezza facilmente giustificabile, per l’Occidente, con la mancata costruzione di nuovi reattori nucleari negli ultimi vent’anni, un periodo enorme per una tecnologia e una filiera industriale così complesse. Di contro, russi, cinesi e coreani hanno messo in rete almeno uno o addirittura due unità all’anno, negli ultimi decenni.

Un insegnamento prezioso, nell’ipotesi di sfruttare l’opzione nucleare in Europa nei prossimi due decenni, a supporto della transizione energetica: sarà indispensabile procedere con piani realizzativi ben programmati e distribuiti nel tempo, preparando adeguatamente una filiera industriale di livello europeo, abile nella manifattura e nella costruzione di tecnologie differenti, vista la natura intrinseca di mercato aperto dell’Unione. Capacità che sono nelle corde delle aziende del Vecchio Continente, Italia inclusa, ma che necessitano di essere messe a sistema.

Linea guida, quest’ultima, che vale anche per le altre nuove tecnologie che si renderanno disponibili nei prossimi anni: i piccoli reattori modulari (Small Modular Reactors – SMR), i reattori di IV Generazione, i reattori a fusione.

Prima di descrivere sinteticamente i motivi di interesse per queste nuove tecnologie, due doverose precisazioni su altrettanti temi, sempre discussi attorno al nucleare: la sicurezza e i rifiuti radioattivi.

Circa l’altissimo livello di sicurezza del nucleare, rapportata a quella di tutte le altre fonti energetiche, l’analisi contenuta nel rapporto del JRC conferma nella sostanza quanto già evidenziato da altri studi, ad esempio quelli del Paul Scherrer Institute svizzero. Statistiche aggiornate sono reperibili anche su siti online, come quello di Our World in Data (ourworldindata.org), alimentato con i dati raccolti dai ricercatori di Oxford.

Circa la gestione dei rifiuti radioattivi altamente pericolosi, una prima soluzione sarà realizzata a breve: tra il 2023 e il 2025 ad Onkalo, in Finlandia, diventerà operativo il primo deposito geologico profondo definitivo al mondo, per lo smaltimento in sicurezza dei rifiuti a lunga vita e ad alta radioattività, ossia il combustibile esaurito dei reattori. Dopo oltre 15 anni di studi e misure, i finlandesi avvieranno l’utilizzo del deposito, realizzato perforando cunicoli a 500 metri di profondità nella roccia granitica, dai geologi giudicata stabile e “asciutta” da diversi milioni di anni e quindi in grado di garantire la sicurezza dei manufatti da smaltire, per almeno 100mila anni. Soluzioni simili sono già in fase di realizzazione in Francia, a Bure, mentre di recente il governo svedese ne ha autorizzato la costruzione presso il sito di Forsmark. Anche il Canada si appresta a seguire questa strada.

A questo si aggiunga un commento ulteriore, visto il particolare momento storico: un investimento nel nucleare potrebbe ricadere per oltre l’80% in Europa, su tecnologia proprietaria europea; non sarebbe così, purtroppo, sulle rinnovabili, poiché il 96% delle celle fotovoltaiche, nonché l’89% di magnesio e il 93% delle terre rare per i magneti utilizzati nell’eolico sono di produzione o di proprietà cinese, inclusi i brevetti metallurgici.

A valle di questa premessa, possiamo delineare le caratteristiche interessanti delle tre tecnologie nucleari innovative.

La prima, disponibile in alcuni casi già ora in Russia e in Cina ma destinata a maturare entro il 2030, è quella dei piccoli reattori modulari: reattori di taglia ridotta, di norma tra i 100 e i 300 MWe per ciascun modulo, rispetto a quelli oggi in funzione e a quelli di III Generazione, tipicamente tra i 1200 e i 1600 MWe.

Gli SMR sono concepiti per essere costruiti in gran parte in officina, quindi in un ambiente più agevole e controllato, e poi trasportati e assemblati sul sito. Questo garantirebbe tempi e costi più certi e contenuti, quindi un minor rischio finanziario. Soprattutto, saranno più facilmente integrabili in un sistema energetico e in una rete elettrica che risulteranno più articolati e più impegnativi da gestire, per la forte presenza delle rinnovabili, che non sono programmabili e quindi richiedono soluzioni di energy storage. Gli SMR apriranno anche opportunità per la cogenerazione, come il teleriscaldamento, la desalazione dell’acqua, la produzione di bio-combustibili e, non da ultima, la produzione di idrogeno. L’energia elettrica e il calore prodotti dai piccoli reattori potranno essere utilizzati dunque anche per questi obiettivi, offrendo certezza di produzione, programmabilità, alta affidabilità e stabilità dei costi. E naturalmente senza emettere gas serra.

La seconda novità tecnologica sarà invece disponibile attorno al 2035-2040: i reattori di IV Generazione, assai diversi dagli attuali, che promettono un ulteriore passo in avanti in termini di sicurezza e di sostenibilità del ciclo del combustibile, soprattutto attraverso il bruciamento dei rifiuti ad alta radioattività, una sorta di “riciclo” dei rifiuti più pericolosi. In questo modo, la durata della radiotossicità dei rifiuti sarà ridotta drasticamente, da oltre 100mila anni a meno di 300 anni. Per raggiungere questi obiettivi sono in fase di sviluppo reattori raffreddati non più ad acqua ma a piombo o a sodio liquidi, oppure a sale fuso. Di norma, utilizzeranno ancora uranio come combustibile, ma potranno sfruttare anche il torio, più sostenibile dell’uranio perché molto più abbondante sulla crosta terrestre e in grado di produrre molti meno rifiuti altamente radioattivi. La prima dimostrazione di questa nuova soluzione di riciclo, il progetto “Proryv”, è già in costruzione in Russia e il suo completamento è previsto entro il 2030.

Infine, la terza e “definitiva” tecnologia nucleare: la fusione. Un passo importante, nel percorso che conduce alla futura fase commerciale dell’energia da fusione, sarà compiuto attorno al 2028, anno previsto per l’accensione del reattore ITER, il grande progetto internazionale in costruzione a Cadarache in Francia e al quale collaborano Europa, Cina, Corea del Sud, Giappone, India, Russia e Stati Uniti. Nel 2035 ITER inizierà anche a produrre trizio, l’isotopo radioattivo dell’idrogeno che rappresenta il 50% del combustibile necessario ad alimentare la macchina, l’altra metà essendo composta dal deuterio, altro isotopo dell’idrogeno ma non radioattivo e facilmente ottenibile dall’acqua. Realisticamente, appare difficile pensare di avere la prima centrale elettronucleare a fusione connessa in rete prima del 2045-2050. Ma questa tecnologia non produrrà rifiuti nucleari ad alta radioattività e non avrà le caratteristiche critiche dei reattori a fissione, per i quali è necessario garantire almeno due livelli di sicurezza: i sistemi per l’arresto rapido e quelli per lo smaltimento del calore residuo.

La notizia singolare, vista la storia e le condizioni politico-mediatico-culturali al contorno, è che l’Italia di oggi avrebbe le competenze, le industrie, i laboratori, i ricercatori e i formatori (perché le risorse umane in questo caso sono fondamentali) per giocare un ruolo non subalterno in tutte e tre le nuove tecnologie. A patto di crederci seriamente.

 

Riferimenti bibliografici

Transizione energetica

IPCC, official website: www.ipcc.ch

World Resources Institute, official website: www.wri.org

H. Ritchie, Sector by sector: where do global greenhouse gas emissions come from?, 2020, ourworldindata.org/ghg-emissions-by-sector

International Energy Agency, official website: www.iea.org

Tassonomia verde

EU taxonomy for sustainable activities, https://ec.europa.eu/info/business-economy-euro/banking-and-finance/sustainable-finance/eu-taxonomy-sustainable-activities_en

S. Abousahl et al., Technical assessment of nuclear energy with respect to the ‘do no significant harm’ criteria of Regulation (EU) 2020/852 (‘Taxonomy Regulation’), EUR 30777 EN, Publications Office of the European Union, Luxembourg, 2021.

Nuove tecnologie nucleari

A. Kadak, A comparison of Advanced Nuclear Technologies, 2017, Columbia University, energypolicy.columbia.edu/sites/default/files/A Comparison of Nuclear Technologies 20033017.pdf

IAEA, Advances in Small Modular Reactor Technology Developments SMR booklet, 2020 Edition, aris.iaea.org/Publications/SMR_Book_2020.pdf

OECD-Nuclear Energy Agency, Small Modular Reactors: Challenges and Opportunities, www.oecd-nea.org/jcms/pl_57979/small-modular-reactors-challenges-and-opportunities

Gen IV International Forum, Annual Report, 2020, www.gen-4.org/gif/jcms/c_178290/gif-2020-annual-report

ITER Organisation, Annual Report, 2020, www.iter.org/org/team/odg/comm/annualreports

 

Marco E. Ricotti, ingegnere, professore ordinario di Impianti nucleari presso il dipartimento di Energia del Politecnico di Milano

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