Trimestrale di cultura civile

La spinosa questione della Costituzione europea

  • MAG 2022
  • Andrea Morrone

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La guerra in Ucraina ha modificato il quadro delle necessità all’interno dell’Unione Europea. Ma tale emergenza non può far dimenticare la frattura significativa operata da Ungheria e Polonia: l’approvazione di leggi che hanno riscritto i contorni del principio dello Stato di diritto, specialmente con riferimento all’autonomia e all’indipendenza della magistratura. Quale il significato profondo dello strappo? E quali le soluzioni per gestire e ricomporre il conflitto? In gioco c’è il destino stesso dell’unificazione europea. Ricordando che l’Europa è, al contempo, una comunità di diritto e di valori.

L’unificazione europea è il nostro destino ma è un processo contraddittorio. Il caso dell’Ungheria e della Polonia, relativo alla violazione del principio dello Stato di diritto attraverso alcune riforme dell’ordinamento giudiziario interno, ha aperto una frattura significativa che può essere colta ricordando i giudizi di due fogli europei, che hanno dato, di quello stesso fenomeno, una lettura diversa. The Guardian (21 ottobre 2021) ha parlato di “crisi del costituzionalismo” in Unione Europea (UE), per l’indulgenza mostrata dalle istituzioni europee; Le Figaro (stessa data) ha indicato il responsabile di questa situazione nello stesso diritto europeo, per non avere mai chiarito fino in fondo la sua prevalenza sulle costituzioni statali. Come stanno effettivamente le cose?

La protezione dei valori fondamentali

Il principio dello Stato di diritto può essere colto in una duplice dimensione. La genealogia sta nella teoria dello Stato liberale formulata da John Locke nel Secondo Trattato sul Governo (1689): in aperta critica con la dottrina dell’origine divina del potere regale (sostenuta da Robert Filmer, in Patriarcha, or The Natural Power of the King, 1680), Locke stabilisce che il potere è legittimo se legale. Il concetto tradizionale, secondo cui rex facit legem, viene ribaltato in lex facit regem. Lo Stato, fondato dalla comunità sociale, è organizzato in un sistema di poteri che trovano nel diritto la propria fonte e il proprio limite. Il principio liberale di divisione del potere (legislativo, esecutivo, giudiziario) è un corollario: sta a garanzia del potere limitato dal diritto. Il significato è evidente: il volto demoniaco del potere deve essere ridotto o neutralizzato mediante un processo di razionalizzazione giuridica.

A questo profilo formale, nei suoi sviluppi, il costituzionalismo ha aggiunto un profilo sostanziale. Stato di diritto significa anche garanzia dei diritti fondamentali. È il portato della trasformazione dello Stato liberale in stato costituzionale, a partire dall’estensione del suffragio universale e diretto e dall’innesto del pluralismo sociale nell’organizzazione politica. La legalità non è ritenuta sufficiente a contenere il potere e l’arbitrio. La salus rei publicae, intesa come sicurezza dei cittadini, valore primo di qualsiasi ordine costituito, deve essere radicata nei valori della persona umana e nei diritti della personalità. La Costituzione è il dispositivo per realizzare questo obiettivo. Il costituzionalismo francese e quello americano hanno ancorato il potere politico anche al riconoscimento e alla garanzia di un Bill of Rigths (la Déclaration del 1789 e i primi dieci emendamenti approvati nel 1791 ma “coevi” alla Costituzione del 1787). La codificazione costituzionale contiene, come si dice, la tavola dei valori. In ciò consiste la sua naturale supremazia rispetto alla stessa legislazione e nei confronti di ogni altro potere, assicurata sia dal procedimento aggravato di revisione costituzionale, sia dal controllo giudiziario della legislazione (judicial review of legislation). Da questo momento, il principio dello Stato di diritto non si risolve soltanto nella legalità del potere ma si estende al telos, perché finalizza il potere alla protezione di determinati valori fondamentali. Questo obiettivo costituzionale può essere perseguito mediante la separazione tra governo e giurisdizione e, soprattutto, tra magistratura inquirente (normalmente collegata al potere esecutivo, con alcune eccezioni rilevanti, come l’Italia) e magistratura giudicante. L’autonomia e l’indipendenza del giudice, posto al di sopra delle parti, custode del diritto e dei valori costituzionali, ne sono la più alta delle rappresentazioni.

Conseguenze dal riconoscimento dell’exit

L’UE ha accolto il principio dello Stato di diritto nel proprio ordinamento. Il Trattato di Lisbona (2007) lo enuncia tra i suoi valori fondamentali (art. 2, Trattato sull’UE). L’Europa è, al contempo, una comunità di diritto e di valori. Ogni Stato, che ha deciso liberamente di entrare nel processo di integrazione, ha assunto l’impegno non solo di riconoscere ma anche di garantire il diritto europeo e i suoi principi fondamentali (art. 49 TUE). Da oltre sessant’anni, gli stati dell’UE hanno intrapreso un percorso di progressivo adattamento del proprio ordinamento nazionale ai principi e alle regole del diritto europeo. Il progetto europeo ha davanti un orizzonte lungo. La sua realizzazione ha conosciuto stop and go: nasce dalla crisi europea del primo Novecento e vive attraverso i conflitti (tutti quelli della sua storia fino ai nostri giorni). L’UE non solo vuole “doppiare” il costituzionalismo liberal-democratico superando la dimensione statale, ma intende realizzare una forma politica nuova. Qui emergono i problemi e le ambiguità dell’unità nella diversità (il paradigma dell’integrazione sovranazionale).

Jean Monnet ha sostenuto che il fine delle comunità europee doveva essere l’unificazione dei popoli e non degli Stati. Dopo molti anni, la questione del popolo europeo (il demos) non è stata risolta, neppure sul piano accademico. Una comunità di diritto e di valori non può prescinderne, però. Dopo molti anni, gli Stati membri dell’UE non hanno perduto la sostanza della propria sovranità: e questo concetto fondamentale, nella sua necessaria persistenza, alimenta forze centripete. La storia del federalismo statunitense (insieme ad altre esperienze analoghe) dovrebbe aver dimostrato che prima o poi – anche mediante l’extrema ratio della guerra civile – il dualismo di esistenze costituzionali deve essere superato nella definizione di un’unitaria sovranità plurale, ma pur sempre una (ex pluribus unum).

Il trattato sull’UE (dopo Lisbona) giustappone l’identità europea e l’identità statale (art. 4 TUE): l’una e l’altra coesistono, ma devono permettere il processo di integrazione. Il conflitto tra le due identità, ritenuto improbabile, vista la comune adesione degli Stati membri e dell’UE, ai medesimi principi del costituzionalismo, trova una soluzione irenica – ma tecnicamente complessa – mediante l’Exit. Ogni Stato membro può entrare in UE ma, come accaduto nel caso di Brexit, può uscire dall’UE. Una simile possibilità è certamente singolare, anche perché rappresenta un’importante eccezione rispetto alla teoria costituzionale.

Negli ordinamenti retti da una carta costituzionale, l’unità e l’indivisibilità territoriale del Paese rappresentano un valore che non può essere messo in discussione legalmente. Il diritto alla secessione (di una regione, di uno Stato membro) non ha cittadinanza nello Stato costituzionale: la sua via è solo quella della rivoluzione, ossia un fatto illegale dal punto di vista dell’ordinamento giuridico. Il riconoscimento dell’Exit, nel diritto europeo, rappresenta un modo per legalizzare ciò che nello Stato costituzionale non lo è. Una simile previsione, nuova anche nella stessa storia dell’integrazione, essendo stata inserita nei trattati solo nel 2007, porta allo scoperto un altro profilo di quella contraddizione. L’UE ammette la possibilità di un’integrazione tra diversi in cui la sovranità delle rispettive constituencies resta sostanzialmente immune: o, meglio, ciascuno Stato è libero di accettarne le limitazioni imposte dallo stare insieme oppure può uscire dall’UE. Da questo punto di vista, al di là del giudizio, è possibile comprendere la cifra dei conflitti del tempo presente.

Carta europea dei diritti e Costituzione statale

Nella dimensione europea coesistono due principi legittimanti, che trovano il rispettivo fondamento nella Costituzione statale e nel diritto europeo. Siamo di fronte a un dualismo politico o, detto altrimenti, alla compresenza di due esistenze politiche fondamentali. Dal punto di vista dell’UE, il diritto europeo prevale sul diritto nazionale; da quello statale, la Costituzione prevale sul diritto europeo. La prima posizione è stata sostenuta dalla Corte di Giustizia fin dagli inizi: nella sentenza Van Gend & Loos (C-26-62 del 15 febbraio 1963) i giudici di Lussemburgo hanno riconosciuto il primato e l’applicazione diretta del diritto europeo nei confronti del diritto statale. Anche se la Comunità europea non è uno Stato federale, assume i principi di base di un processo federativo: la supremazia del diritto federale sul diritto statale e la sua applicazione necessaria, anche in caso di conflitto. Non è vero che quella affermazione del giudice europeo escludesse le Costituzioni degli Stati membri (come sostengono ora Ungheria e Polonia). Attraverso i trattati gli Stati si sono impegnati reciprocamente a cedere una parte della propria sovranità alle istituzioni sovranazionali e, proprio per il principio di attribuzione e nei suoi confini, alle comunità europee istituite con i Trattati di Roma fu conferito il potere di produrre diritto in luogo degli Stati. Il fine dell’unificazione sovranazionale è la creazione di uno ius commune europaeum.

I conflitti tra le due sovranità, europea e statale, sono emersi raramente. Le corti costituzionali, specie quelle tedesca e italiana, hanno dialogato con la Corte di Giustizia, trovando di volta in volta punti di equilibrio, che si sono concretizzati nella nota dottrina degli atti ultra vires e dei controlimiti. Due formule che esprimono una medesima sostanza: la legittimazione e la validità del diritto europeo sta nelle attribuzioni conferite ma non si estende al di là di quei confini perché, al di là di quel limen, resta la sostanza del patto costituzionale statale. Il problema nasce proprio dalla circostanza che le attribuzioni conferite non sono tagliate col diamante, ma sono soggette a continui adattamenti di contesto, in qualche caso formalizzate mediante la progressiva riscrittura dei trattati europei; più spesso, però, sono ridefinite nella prassi delle istituzioni politiche europee (il Consiglio europeo, la testa politica dell’UE e, specie nella crisi economica, la Banca centrale europea: il paradigma del “whatever it takes” di Mario Draghi resta il dispositivo per eccellenza) e della stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia, in dialettica con quella delle corti statali. Le cose si sono complicate man mano che l’integrazione si è spinta più avanti, in coincidenza anche con le crisi che hanno costellato la storia del Vecchio Continente (quella economica nel 2008, e quella pandemica nel 2020).

In Italia, in particolare, il “caso Taricco” (Corte di Giustizia 8 settembre 2015, C-105/14; Corte cost. ord. n. 24/2017; Corte di Giustizia 5 dicembre 2017, C-42/17, Corte cost. sent. n. 115/2018) ha fatto emergere quel conflitto che, fino a quel momento, era apparso altamente improbabile, relativo al rapporto tra diritto europeo e Costituzione. Chi dei due prevale se entrano in collisione? In quella circostanza il problema era il seguente: può il diritto europeo in materia di lotta all’evasione fiscale (si trattava dell’Iva, l’imposta sul valore aggiunto, non versata da alcuni imprenditori) imporre allo Stato di rinunciare all’applicazione del principio supremo di irretroattività della legge penale (che rende non più perseguibile un reato prescritto), impedendo all’imputato di opporre al giudice la prescrizione del reato? Il braccio di ferro tra la Corte di Giustizia e la Corte costituzionale si è concluso irenicamente: l’una e l’altra hanno riconosciuto l’esistenza del principio costituzionale di legalità penale come valore fondamentale comune ai due ordinamenti, anche se – questo l’aspetto meno noto della vicenda, ma è il più importante – ciascun giudice ha mantenuto fermo il proprio punto di vista, il primato del diritto europeo per la Corte di Giustizia, il primato dei controlimiti costituzionali per la Corte italiana. Casi analoghi si sono verificati in Germania e in altri Paesi europei.

La situazione è destinata a complicarsi dopo il riconoscimento alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE lo stesso valore giuridico dei Trattati. Anche se formalmente una simile attribuzione di forza normativa non ha conseguenze sul piano delle competenze delle istituzioni europee (che, si dice nel testo, “non vengono modificate dalla novella”), valendo solo nell’ambito delle attribuzioni conferite e nell’ambito del diritto europeo di attuazione, resta il fatto che l’esistenza di un Bill of Rights “europeizzato” contribuisce a spostare la linea di confine tra l’UE e gli Stati. Lo dimostra ancora una volta il cambio della giurisprudenza tedesca e italiana intervenuto proprio in conseguenza di questa novità. L’una e l’altra hanno colto le prospettive aperte dalla Carte dei diritti dell’UE quando hanno cercato di definire il confine di operatività dei diritti europei rispetto ai diritti costituzionali, ammettendone un uso limitato, rigorosamente all’interno del principio di attribuzione e solo in corrispondenza del diritto europeo derivato.

La nostra Corte costituzionale italiana (sent. n. 196/2017) ha stabilito che il concorso di diritti afferenti alla Costituzione e alla Carta impone al giudice di merito di sottrarsi alle regole del primato e dell’applicazione necessaria del diritto europeo, perché in quel caso occorre sottoporre alla Corte costituzionale stessa la decisione circa l’“ordine di precedenza” dell’una o dell’altra.

Ne è venuto modificato il principio fondante della Costituzione europea inaugurata in Van Gend & Loos, che fa di ciascun giudice di uno Stato membro un “giudice europeo”, tenuto ad applicarlo ogniqualvolta esiste nell’ordinamento una norma europea, in luogo di quella nazionale, anche costituzionale. Anche se, in concreto, non viene meno il potere-dovere del giudice nazionale di esercitare il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, pure nel caso in cui venga in rilievo la Carta dei diritti, la conseguenza di quella giurisprudenza è di allargare le maglie della “materia costituzionale” (nel caso: i diritti fondamentali) che si vuole mantenere nel dominio della Corte costituzionale e che si vuole sottrarre a quello della Corte di Giustizia. So che ci sono sfumature e letture di questa stessa giurisprudenza – e per fortuna aggiungo – anche molto diverse dalla mia: quello che conta, però, è evidenziare lo sfondo che emerge e che è quello di nuovi potenziali conflitti, derivanti dalla dialettica coesistenza tra la Carta europea dei diritti e la Costituzione statale.

L’indirizzo politico di Ungheria e Polonia

In questo orizzonte va collocato il conflitto tra Ungheria, Polonia e UE e, ovviamente, tutti gli altri Stati membri che condividono il punto di vista europeo. L’indirizzo politico seguito dai governi di quei due Paesi ha messo in discussione i fondamentali del processo di integrazione. Non siamo, infatti, davanti alla rivendicazione di controlimiti costituzionali o di un’applicazione particolare della teoria degli atti ultra vires. Si può dire, viceversa, che quelle dottrine sono state utilizzate per portare acqua al mulino dei titolari del governo, nobilitando una posizione politica che non ha alcuna ragione giuridica dalla sua parte. Il vertice politico, in entrambi i casi, ha approvato leggi che hanno riscritto i contorni del principio dello Stato di diritto, specialmente con riferimento all’autonomia e all’indipendenza della magistratura. Proprio in Polonia, il governo e la sua maggioranza hanno svuotato il potere giudiziario delle precondizioni necessarie per far assumere, prima ancora che svolgere, ai giudici la posizione di organi appartenenti a un “potere terzo”. I motivi sono stati precisati dal Tribunale costituzionale polacco allorché, in chiara polemica con la Corte di Giustizia e con le Istituzioni politiche dell’UE, ha riconosciuto i seguenti postulati a difesa del legittimo potere sovrano dello Stato (sent. 7 ottobre 2021).

1.
L’art. 1 del Trattato sull’UE (TUE), nello stabilire una unione sempre più stretta, ha segnato una “nuova tappa” nel processo di integrazione. La conseguenza è che l’UE agisce ultra vires, la Costituzione della Polonia non ha più valore di legge suprema dello Stato, e la Polonia non agisce più come uno stato sovrano.

2.
L’art. 19, par. 1, c. 2 (TUE), nel prescrivere agli Stati membri di assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’UE, consente ai giudici polacchi di eludere la Costituzione dello Stato e di applicare disposizioni del diritto polacco o abrogate dal Parlamento o annullate dal Tribunale costituzionale (come quelle che hanno, secondo il punto di vista europeo, riscritto l’ordinamento giudiziario nazionale, riducendo le garanzie di autonomia e indipendenza dei giudici).

3.
Con riferimento specifico a quest’ultimo profilo, gli artt. 19 e 2 (TUE), laddove prescrivono la tutela giurisdizionale effettiva e l’indipendenza del giudice, consentono al giudice polacco – evidentemente in modo ritenuto non legittimo – di sindacare la nomina di altri giudici, di valutare la legittimità delle risoluzioni del Consiglio superiore della magistratura (Csm) polacco, di determinare i vizi del procedimento di nomina dei giudici.

Non si era mai letto un così puntuale attacco ai fondamenti dell’integrazione europea e ai principi dello Stato di diritto costituzionale, sul presupposto che, in sostanza, la supremazia del diritto europeo sulla Costituzione non è ammissibile dal punto di vista della Costituzione della Polonia e della sovranità dello Stato polacco.

Non bisogna fermare l’attenzione sulla superficie. Il tribunale costituzionale polacco non sta semplicemente esercitando la competenza che, in fondo, tutte le Corti costituzionali degli Stati membri hanno sempre reclamato, come detto, mediante la dottrina degli atti ultra vires o dei controlimiti all’integrazione europea. La difesa della sovranità e della Costituzione statale – a parte ogni discussione sul galateo seguito dai giudici polacchi in questa circostanza, ponendosi frontalmente in conflitto con quelli di Lussemburgo, senza lasciare via d’uscita che non sia quella indicata da loro – è stata brandita non per affermare o per estendere l’effettività dei principi dello Stato di diritto interno ritenuti messi in discussione dal diritto europeo, ma, viceversa, per coprirne la compressione da parte del governo di uno Stato membro e, quindi, all’interno di una parte dell’ordinamento dell’UE. C’è una doppia violazione del Diritto (con la “d” maiuscola): sia del principio pacta sunt servanda, alla base della partecipazione di uno Stato all’UE; sia dello Stato di diritto, nella duplice versione in cui lo stesso è codificato nel diritto europeo e nella stessa Costituzione dello Stato polacco (la cui Carta enuncia i principi di autonomia e indipendenza dei giudici, che la legislazione ha svilito, con la copertura del Custode che quella Costituzione dovrebbe proteggere).

In discussione il contenuto dell’unificazione europea

La decisione della Polonia come Stato costituzionale ha un valore simbolico ancora più marcato. Nessuno può mettere in discussione la decisione di una comunità politica di scegliere il proprio fine: democrazia o autocrazia, come realizzare l’una e l’altra, non sono disponibili dall’UE e dagli altri Stati membri dell’UE. Il Tribunale costituzionale tedesco, più nettamente di altri, ha più volte ribadito questo assunto (anche se, certamente, il riferimento era la propria concezione di democrazia costituzionale). I trattati, del resto, hanno previsto il potere di Exit. Ma, a differenza del Regno Unito, né l’Ungheria, né la Polonia hanno scelto di intraprendere questa strada estrema. L’interesse dei governi di quei Paesi è quello di rimanere nell’UE alle proprie condizioni che, nel caso, sono radicalmente in contraddizione con i principi e i valori dell’UE. Il braccio di ferro tra istituzioni europee, gli altri Stati e la Polonia e l’Ungheria non attiene a una questione puramente nazionale, non è soltanto un’espressione di “sovranismo”. Riguarda, propriamente, il contenuto dell’unificazione europea e il rispetto degli impegni assunti reciprocamente dagli Stati membri. Polonia e Ungheria vogliono essere europei a modo loro, rifiutando gli “oneri” senza rinunciare ai “premi” dell’integrazione sovranazionale.

Le istituzioni europee hanno fatto ricorso ad alcune misure sanzionatorie dopo la decisione del Tribunale costituzionale polacco. La Corte di Giustizia ha condannato la Polonia al pagamento di una multa di un milione di euro al giorno per non avere sospeso la Camera disciplinare della Corte suprema per i giudici (che ha permesso di licenziare giudici non allineati al potere politico), nonostante il premier Mateusz Morawiecki (leader del PiS, il partito “Diritto e Giustizia” al potere) lo avesse promesso da mesi. “L’osservanza di quanto contenuto nell’ordinanza del 14 luglio 2021 che aveva imposto di abolire la camera disciplinare – secondo i giudici europei – è necessaria al fine di evitare un danno grave e irreparabile all’ordinamento giuridico dell’UE e ai valori sui quali l’UE si fonda, in particolare quello dello Stato di diritto”. La reazione del portavoce del premier polacco, Piotr Muller, è stata ribadire che l’UE è una comunità di Stati governata da regole chiare, che mostrano una chiara divisione di competenze tra UE e Stati membri, per cui l’organizzazione della magistratura è di competenza esclusiva degli Stati. La multa si è aggiunta a quella di 500mila euro al giorno per la mancata sospensione dell’attività nella miniera di Turov che, su denuncia della Repubblica Ceca, inquina acque e suolo della vicina regione di Liberec con danni alla salute umana. Ne è seguita altresì la volontà di congelare il Recovery Fund di 36 miliardi di euro a favore della Polonia, nonché della fruizione dei 100 miliardi di euro derivanti dal budget europeo (fino al 2027). Il premier polacco in un’intervista al Finacial Times ho risposto che l’UE “vuole la terza guerra mondiale”.

Il 28 ottobre 2021 il Csm polacco è stato espulso dalla Rete europea dei consigli giudiziari (ENCJ), perché non raggiunge il livello di autonomia e di indipendenza degli altri organismi di autogoverno – dopo la riforma del sistema giudiziario e del Krs (Knowledge Reigns Supreme) polacco. Secondo la nota dell’ENCJ, Il Csm polacco “non salvaguarda l’indipendenza della magistratura, non difende la magistratura, né i singoli giudici rispetto a eventuali misure che minaccino di compromettere i valori fondanti di indipendenza e autonomia”.

Lo scontro tra poteri a Bruxelles

E qui viene in rilievo la questione più significativa. L’UE si è dotata di un regolamento che condiziona l’erogazione dei fondi europei destinati agli Stati membri, al rispetto dei principi dello Stato di diritto (regolamento 2020/2092 del 16 dicembre 2020, sul regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio UE, in vigore dal 1° gennaio 2021). Il Parlamento dell’UE ha manifestato l’intenzione di avviare una causa contro la Commissione europea per l’inerzia nell’attivare il procedimento previsto dal regolamento sul congelamento dei fondi. L’attesa “diplomatica” della Commissione è stata congelata proprio su iniziativa di Polonia e Ungheria, che hanno impugnato quel regolamento innanzi alla Corte di Giustizia, contestandone la legittimità (causa C 156 e 157-21)1. Questa mossa ha tolto dall’orizzonte l’unico strumento giuridico per fare valere il rispetto dei principi dello Stato di diritto. Seguire la via dell’art. 7 del TUE, che prevede una procedura di infrazione contro lo Stato membro, con sanzioni molto dure che arrivano alla sospensione del diritto di voto, è parsa subito non praticabile. L’attivazione di quella disposizione, molto forte per le sue conseguenze, richiede una deliberazione all’unanimità degli Stati membri nel Consiglio europeo (quindi, pure di Ungheria e Polonia).

La Corte di Giustizia, in tempi brevissimi, ha respinto i ricorsi statali e riconosciuto che l’effettivo rispetto dei principi e dei valori europei sullo Stato di diritto non può essere eluso e violato dagli Stati membri (cfr. le due sentenze relative a Polonia e Ungheria del 16 febbraio 2022). Ci sono alcuni passaggi che meritano di essere ricordati: da un lato “contrariamente a quanto afferma la Repubblica di Polonia, sostenuta dall’Ungheria, la finalità del regolamento impugnato consiste nel proteggere il bilancio dell’Unione da pregiudizi derivanti per quest’ultimo in modo sufficientemente diretto da violazioni dei principi dello Stato di diritto in uno Stato membro, e non già nel sanzionare, di per sé, simili violazioni (p. n. 137); dall’altro, “si deve ricordare che, ai sensi dell’articolo 2 TUE, l’Unione si fonda su valori, tra i quali lo Stato di diritto, che sono comuni agli Stati membri e che, conformemente all’articolo 49 TUE, il rispetto di tali valori costituisce una condizione preliminare per l’adesione all’Unione di qualsiasi Stato europeo che chieda di diventare membro dell’Unione (p. n. 142).

La difficile scommessa dei Padri fondatori

La questione, nonostante l’importante decisione della Corte di Giustizia, non può dirsi risolta. Siamo solo al primo round. La pandemia e le sue conseguenze hanno spostato il focus delle istituzioni europee e degli Stati membri altrove. La guerra in Ucraina ha ulteriormente modificato il quadro delle necessità. Abbiamo, per ora, messo in secondo piano la questione del rispetto dei principi dello Stato di diritto e quella, più generale, del senso politico e costituzionale dello stare in Europa. I conflitti, però, non possono essere evitati. Devono essere risolti. Il costituzionalismo ha dimostrato che le sue conquiste sono state ottenute attraverso i conflitti, vincendo i suoi nemici, con la forza dei principi di libertà, eguaglianza, fraternità, il contenuto materiale dello Stato di diritto. I padri fondatori dell’Europa unita hanno fatto una scommessa difficile, ancora di più di quella che fecero i cittadini europei con l’approvazione delle proprie costituzioni. Costruire un’esistenza politica comune senza decidere a priori la forma del proprio ordinamento giuridico (questo sono le Costituzioni e per questo l’UE non ha una Costituzione), per determinarlo a piccoli passi e secondo la logica funzionalista. Dopo l’allargamento ai Paesi dell’Est europeo, dopo la moneta unica e la crisi economica, dopo la pandemia e il Next Generation Eu, dopo lo strappo di Ungheria e di Polonia sullo Stato di diritto, dopo la guerra alle porte dell’Europa, però, la questione costituzionale non può essere più rinviata. Non si tratta di un tema che può essere lasciato ai giudici: il dialogo tra giudici, come rimedio ai problemi dell’Unione, è una chimera. Finché non prenderemo coscienza della natura politica e, quindi, costituzionale della questione europea non riusciremo a collocare i problemi nella corretta posizione e a trovare la via per le soluzioni più adeguate.

 

NOTE

1. Cfr. F. Basso, Caso Polonia, scontro tra poteri a Bruxelles, in Corriere della Sera, 21 ottobre 2021.

 

Andrea Morrone avvocato e professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Bologna. Esperto di Diritto Pubblico dell’Unione Europea e Diritto amministrativo.

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